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I primi vent'anni - 6. Non più (solo) un programmatore

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6. Non più (solo) programmatore

Aaron, a un certo punto della sua vita, entrò in crisi.

Com’era sua abitudine, annotò quei momenti tormentati sulle pagine del blog Raw Thought: un sito web che il giovane continuava a interpretare come un dialogo ininterrotto con la cerchia di amici/lettori – qualcosa di intimo e confidenziale – e non come uno spazio che, vista la sua notorietà, diffondeva post in tutto il mondo ed era letto anche da sconosciuti.

Scrisse, senza usare mezze parole, di avvertire l’urgente necessità di fare un salto di qualità nella sua vita e nel suo lavoro. Di cambiare radicalmente.

Il periodo di San Francisco e della Silicon Valley e l’esperienza di Reddit gli avevano lasciato l’amaro in bocca ed erano stati momenti traumatici, fisicamente e psicologicamente.

Descrisse, sul suo blog, giornate passate a piangere in bagno, nei locali della redazione di Wired in pausa-pranzo e, persino, idee di suicidio.

Aveva provato, sulla sua pelle, come l’ambiente delle startup californiane non solo non lo interessasse ma, anzi, lo facesse sentire a disagio.

L’idea del mestiere di programmare, come unico lavoro da portare avanti per tutta la vita, iniziava a soffocarlo.

Senza contare, poi, i primi problemi etici che l’hacker iniziava a porsi: l’aspetto economico – e di profitto – che stava connotando tutta la new economy e la società dei servizi digitali negli anni Duemila entrava in conflitto, spesso, con i suoi ideali.

Simili fattori di crisi arrivarono tutti insieme, in pochi mesi generarono un corto circuito nel suo modo di pensare e intaccarono la serenità di un animo particolarmente sensibile e complesso.

Fu questo, anche, il momento dell’inevitabile passaggio all’età adulta, e vi fu l’avvio di un tentativo concreto di comprendere meglio – in retrospettiva – tutto ciò che aveva costruito sino a quel momento.

Aaron si ritrovava, a vent’anni, con un carnet di obiettivi raggiunti che tante persone non avrebbero potuto vantare in tutta la loro vita.

Guardando al futuro, però, doveva decidere quello che avrebbe fatto di lì in avanti. O, meglio, quello che avrebbe voluto fare.

Il ragazzo aveva sempre lavorato nel mondo del codice informatico e del digitale, sin dalla sua nascita.

Quello era il settore che amava.

Ma aveva notato come, attorno a lui, Internet, la società digitale e la Silicon Valley stessero letteralmente mutando pelle e cambiando natura.

Un simile scossone radicale stava coinvolgendo, trasversalmente, le persone, il mondo del lavoro, la società e la politica tutta. [p. 74 modifica]

Tanti aspetti di quell’ambiente digitale che si stava sviluppando a un ritmo incredibile non gli piacevano. Iniziò a domandarsi, di conseguenza, quale dovesse essere il suo (nuovo) ruolo in quel mondo in cambiamento. E come dovesse, a questo punto, mutare anche la sua pelle.

Il 27 maggio 2006 decise di esporre tutti i suoi dubbi – e questo suo momento di profonda crisi – per iscritto.

Ne uscì un flusso di pensieri, a volte disordinato e infarcito di citazioni ma molto utile per comprendere il momento di disagio che stava attraversando.

Aaron intitolò questo post liberatorio “L’apologia del non-programmatore”: in numerose righe celebrò il suo cambiamento e, in pratica, annunciò al mondo il suo passaggio da programmatore informatico – ritenuto ormai da tutti, in tutto il mondo, un professionista di grande talento – a vero e proprio attivista politico.

C’era un punto, nello specifico, che lo stava lentamente lacerando giorno dopo giorno.

«Quali sono le cose che riesco a fare meglio nella mia vita?» – iniziò a domandarsi – «Soprattutto, quali sono le cose che realmente vorrei fare in futuro? In quali aspetti è possibile individuare il mio talento più genuino, e quali sacrifici dovrò fare, di qui in avanti, per coltivarlo al meglio?»

Domande importanti, certo, che dovevano necessariamente partire dall’analisi del passato e da una sorta di autovalutazione delle sue capacità di programmatore.

Aaron era riconosciuto da tutti come un eccellente programmatore. Anche questo aspetto lapalissiano, però, viene da lui messo in discussione, forse con una dose eccessiva di autocritica: scrive, infatti, di sentirsi ormai un po’ arrugginito e di aver trascurato troppo l’arte della programmazione negli ultimi anni.

La prima domanda che il giovane si pone, di conseguenza, è se debba coltivare, e utilizzare, il suo talento nel campo del coding, al fine di trascorrere tutta la sua vita con l’obiettivo di essere un programmatore sempre più bravo (anzi: il più bravo di tutti, come esigeva il suo tipico approccio), o se debba cambiare completamente strada.

La verità è che, compiuti i vent’anni, si è reso conto che una simile prospettiva non lo attira più. Anzi, lo intimorisce.

Questo amore ormai annacquato nei confronti della programmazione e del codice informatico lo disorienta: per un lungo periodo della sua vita, sin da bambino, il lavorare con il codice, e il programmare, erano stati per lui elementi essenziali. Avevano caratterizzato le sue giornate, e scandito le ore, da quando aveva tre anni.

Avverte, però, forte la sensazione di essersi ormai allontanato da quel mondo e di trovarsi di fronte a un dilemma importante da sciogliere: cosa fare, nell’immediato futuro, che gli possa dare soddisfazione? In quali direzioni investire le sue competenze e il suo talento? [p. 75 modifica]

In realtà, programmazione a parte, Aaron sente di avere dentro di sé, sin dall’infanzia, qualcosa che è profondamente legato alle tradizioni alla base del mondo hacker.

I termini che gli vengono in mente in questo momento di confusione – come fari nella nebbia o, in un’ottica più moderna, come hashtag – sono conoscenza, competenza e condivisione.

«L’unico modo per me, oggi, di vivere in maniera responsabile la mia vita» – annota sul suo blog – «è quello di sfruttare le mie conoscenze specifiche su tanti temi, concentrarmi su quelle e cercare di spiegarle in una maniera che sia la più semplice possibile a tutte le altre persone».

Voleva imparare sempre di più, quindi. Ma, soprattutto, voleva imparare tanto e bene per, poi, spiegare. Spiegare agli altri. Trasferire le sue competenze e la sua conoscenza a terzi.

Vedeva quel passaggio – e quello sforzo – come indispensabile per consentire a tutti coloro che avrebbero ricevuto in dono il suo patrimonio di conoscenza di svolgere nel modo migliore i loro compiti nella società, nella vita quotidiana e nel mondo.

E non vi sarebbe stato così più bisogno, rifletteva, che fosse solo lui a svolgere quei compiti direttamente, caricandosi addosso l’intero fardello di problemi della società moderna.

Non poteva – lo aveva finalmente compreso – farsi carico di tutte le cose che non andavano dell’intera società; non poteva “aggiustare il mondo” da solo.

«Spiegare idee complicate a tutti i cittadini» – scrisse – «è la cosa che amo di più. E nella quale mi sento particolarmente bravo, e portato».

Aaron decise, di conseguenza, di investire il suo tempo, per il resto della vita, a spiegare ciò che aveva imparato – o che andava, giorno dopo giorno, imparando – per far sì che sempre più persone potessero conoscere. Soprattutto, gli interessavano le nozioni più complicate, quelle più difficili da comprendere per il cittadino comune.

Il codice informatico sarebbe sempre stato presente nella sua vita, e avrebbe continuato a connotare il suo quotidiano, ma in un modo completamente diverso: aveva compreso, in quel momento della sua vita, che non voleva essere (solo) un programmatore.


Ormai, quando mi metto a leggere libri sulla programmazione – confessò – sono più tentato di snobbarli e di prenderli poco seriamente più che leggerli con attenzione fino in fondo. Quando mi reco a conferenze di sviluppatori e di programmatori, preferisco evitare le loro relazioni e trascorrere, invece, del tempo a parlare con le persone di politica, invece che di programmazione. Scrivere codice, anche se può essere piacevole, non è certo la cosa che voglio fare per tutta la vita.


Da quel momento in avanti, Aaron inizierà a lavorare più per le persone, la politica e la società che per il codice informatico in sé. [p. 76 modifica]

Ciò lo porterà ad avvicinarsi, inevitabilmente, al mondo della politica e del buon governo della cosa pubblica, e ad approfondire maggiormente, ad esempio, gli studi di Lawrence Lessig e di altri giuristi.

Cercherà di sensibilizzare tutte le persone che incontrerà, spiegando quali siano le cose importanti da fare nella vita. Prenderà di mira non soltanto le violazioni dei diritti nel mondo digitale ma, anche, i grandi temi dell’open access, della prevenzione della corruzione in politica e in società, della trasparenza amministrativa, della “liberazione” del patrimonio documentale dello Stato – soprattutto del materiale giudiziario e dei prodotti della ricerca – dell’anonimato in rete e della protezione delle fonti giornalistiche.

Anche da un punto di vista personale – e caratteriale – vi fu, da quel momento in avanti, un forte cambiamento che condizionò il suo modo di lavorare e, in un certo senso, di vivere in società.

Eliminò, dal suo quotidiano, ogni attività considerata superflua o un’inutile perdita di tempo.

Decise di dedicarsi solo a grandi progetti che potessero cambiare il mondo, di uscire dall’ambito della sola tecnologia e di occuparsi di corruzione, di politica, di trasparenza, di conoscenza delle norme da parte dei cittadini, di enciclopedie e contenuti per tutti, di libertà del sapere scientifico e accademico.

La politica, in particolare, lo appassionò sin da subito.

Si avvicinò ad alcuni candidati e candidate al Congresso, per studiare le modalità di funzionamento di una campagna elettorale e, persino, allo scopo di affiancarli nella corsa per essere eletti.

Non ebbe grande successo in politica, ma furono tutti eventi che costituirono, per lui, una nuova fonte di esperienza e, soprattutto, occasioni di conoscenza del sistema dall’interno.

Entrò in contatto, allo stesso tempo, con le principali associazioni che si occupavano di attivismo digitale, e utilizzò parte dei suoi fondi, guadagnati con la cessione di Reddit, per avviare nuovi progetti.

In quegli anni, il contesto dell’attivismo tecnologico che fioriva attorno ad Aaron era molto vivace e ciò fu, per lui, una fortuna: gli si presentavano tantissime possibilità, opzioni e contatti.

La Electronic Frontier Foundation (EFF), il Center for Democracy and Technology (CDT), la American Civil Liberties Union (ACLU) e tanti altri enti più o meno grandi, e già ben organizzati, avevano da tempo iniziato a occuparsi della difesa dei diritti degli utenti che operano in rete, e si erano ormai organizzati in maniera professionale, sia dal punto di vista delle persone, che delle competenze e delle risorse.

La EFF, in particolare, era la più importante, e antica, realtà per la difesa dei diritti nel mondo digitale.

I campi d’azione di questa associazione erano diversi e, tutti, assai interessanti per Aaron: si occupava della difesa della libertà di manifestazione del pensiero, [p. 77 modifica]della tutela dell’innovazione e del progresso nel tessuto sociale, della riforma della normativa a difesa della proprietà intellettuale al fine di adeguarla ai mutamenti tecnologici, della protezione della privacy e del perseguimento della trasparenza.

All’interno di simili macro-ambiti d’azione, gli attivisti individuavano, poi, ogni giorno ulteriori sottocategorie che consentivano, a chiunque volesse adoperarsi per migliorare lo stato delle cose, un ampio margine di discrezionalità e operatività, anche in aree d’azione molto più settoriali e specifiche e, eventualmente, adattando “chirurgicamente” il progetto a un contesto politico più ridotto o locale.

Ai giorni nostri, con un quadro politico e tecnologico molto diverso da quello che stava vivendo, allora, Aaron, le attività della EFF si sono spinte anche, ovviamente, nell’ambito della sorveglianza (e della tutela dei diritti degli utenti), della profilazione e del riconoscimento facciale.

Molto interessanti, e utili, sono le guide di autodifesa, ad esempio contro la sorveglianza e contro i più comuni rischi e attacchi informatici: si presentano come una serie di regole molto semplici, spesso illustrate, che conducono l’utente inesperto attraverso un percorso pensato per alzare il suo livello di sicurezza nella vita digitale quotidiana.

Un riferimento nell’attivismo, per il giovane Aaron, era sempre stato, sin dalla giovane età, Richard Stallman, il fondatore del movimento del software libero, del progetto GNU e, insieme al giurista Eben Moglen, della licenza GNU/GPL. Lo affascinava questo modo di intendere il diritto d’autore come strumento di (maggiore) libertà e non, al contrario, come mezzo per restringere i diritti degli utenti.

Ad Aaron piacque l’idea di sviluppare un codice che consentisse a chiunque, pur nei limiti dei termini di una licenza, di usare il software per qualunque scopo, di modificarlo per adattarlo ai propri bisogni, di condividerlo con gli amici e i vicini e di far circolare le modifiche effettuate, rendendo disponibile, per l’intera comunità dei programmatori, il codice sorgente. Si trovò, molto spesso, a collaborare con loro per portare avanti i suoi nuovi obiettivi.

Gli aspetti che più lo interessarono, dell’attivismo digitale, furono le modalità di mobilitazione e di connessione delle persone tra loro, usando al meglio, e in maniera innovativa, gli strumenti digitali esistenti o, all’occorrenza, programmandone di nuovi.

Aaron interpretava Internet – vista la crescente accessibilità, e la capacità di comunicare rapidamente con migliaia di cittadini – come il miglior strumento di scelta per quegli individui, o organizzazioni, che desiderassero diffondere un messaggio di rilevanza sociale.

Gli strumenti tecnologici che tanto amava si potevano utilizzare per costruire una propria comunità d’azione e d’influenza – piccola o grande che fosse –, per connettersi con altre persone dalla mentalità simile, al di fuori del proprio [p. 78 modifica]ambiente “fisico”, nonché per fare pressione politica, raccogliere fondi e organizzare eventi.

Il computer che aveva tra le mani sin dall’infanzia poteva, ora, diventare uno strumento per produrre cambiamenti sociali e/o politici: occorreva solo comprendere come fare.

Aaron era, da questo punto di vista, fortunato: si trovava esattamente nel mezzo (anche) di questa rivoluzione.

Gli anni Ottanta erano stati tiepidi, da questo punto di vista, ma le cose erano cambiate con l’avvento del web, delle “dot.com” e delle piattaforme di social media – soprattutto Facebook e Twitter.

L’idea di spostare la politica in rete, anche organizzando intere campagne, era finalmente fattibile e, da informatico, iniziò a interessarsi circa gli strumenti che si potessero utilizzare a tal proposito.

Le petizioni online, in particolare, lo affascinarono immediatamente. Muovevano, alla base, dall’idea di creare dei “centri di raccolta” dove le persone potessero comunicare con altre, e riunirsi, sotto l’ombrello di una causa comune, da portare avanti tutte insieme.

I social network, dal canto loro, potevano essere utilizzati come strumento di amplificazione del messaggio ma, anche, di raccolta di fondi e di sostegno e, persino, per la rivelazione di informazioni riservate, o poco note, ai cittadini, perché trascurate dai canali di comunicazione ufficiali.

Anche i blog e la diffusione del citizen journalism (giornalismo di strada portato avanti tramite uno smartphone) stavano contribuendo a fornire nuovi mezzi di comunicazione non filtrati ai cittadini, che si potevano interessare di qualsiasi argomento.

Ben presto, i blog sarebbero stati affiancati dal micro-blogging e da un uso intenso di Twitter che, grazie alla sua rapidità, avrebbe permesso di diffondere su larga scala la consapevolezza di un problema, o l’organizzazione di un evento di protesta, in pochi secondi.

Grazie, poi, a un utilizzo intelligente degli hashtag – si ricordi, a tal proposito, l’interesse che manifestava Aaron per tutto ciò che potesse marcare il testo e consentirne una ricerca, raccolta e fruizione in maniera ordinata – si sarebbero potute coordinare al meglio le conversazioni e le campagne in corso: l’hashtag diventava strumento di resistenza e di rottura, per diffondere rapidamente un concetto in tutto il mondo utilizzando i social media.

A ciò si aggiunse la diffusione dei telefoni cellulari, sia utilizzati per comunicare, sia come strumento per raccogliere testimonianze, comprese fotografie o video.

Da un punto di vista più tecnico, ad Aaron interessavano tantissimo i vari server proxy che si erano diffusi: potevano essere strumenti ideali per aggirare filtri e per contrastare l’azione di governi liberticidi, che volevano soffocare le proteste online o disconnettere interi Stati. [p. 79 modifica]

Infine, sin da bambino, si era appassionato di piattaforme di crowdsourcing, ossia dell’uso di Internet per distribuire, tra più individui, la risoluzione di problemi e l’acquisizione di risorse (anche economiche).

Internet, in quegli anni, poteva finalmente aiutare gli individui, e le singole associazioni e iniziative da loro organizzate, nel mobilitare una comunità globale e nel creare opportunità di collaborazione tra gruppi di persone (altrimenti) non collegate.

Di lì in avanti, Aaron iniziò a lavorare per creare strumenti digitali che consentissero di aumentare la capacità di connettere una vasta comunità di persone e di globalizzare gli obiettivi di una campagna, sempre tramite la più ampia condivisione possibile di informazioni.

La sfida più interessante era il rapporto tra mondo online e mondo ‘fisico’, tra proteste generate nelle stanze di casa, sulle poltrone e sui divani, e i tradizionali movimenti di piazza: occorreva trasformare tutto questo lavoro online affinché potesse dare supporto concreto a un’azione sul campo. Tante erano le critiche, infatti, che si stavano diffondendo, in base alle quali simili azioni sarebbero destinate a rimanere nel mondo digitale e non avrebbero avuto un impatto concreto sulla società.

In più, le piattaforme per i cambiamenti sociali avrebbero dato voce a chiunque, e anche questo era un vecchio pallino di Aaron, che già lo aveva messo in evidenza nei suoi progetti da teenager.

Chiunque avrà accesso alla rete potrà parlare, potrà far valere le proprie ragioni, potrà domandare un cambiamento e, finalmente, avrà un vettore eccezionale per veicolare il proprio messaggio. Potrà condividere la sua storia o un problema personale, cercare donazioni per risolverlo al meglio e fare pressione politica chiedendo al governo centrale, o locale, di agire e di intervenire.

Questa idea di “ascoltare tutte le voci” anche quelle che vengono bloccate dai media tradizionali, era perfettamente in linea con la sua idea di “leggere tutti i libri”.

Internet consentiva alle voci, che erano in qualche modo condizionate dal potere dei media e dalla società in generale, e che non riuscivano a farsi sentire, di parlare. In questo modo, si aggiustava un altro errore del sistema.

Il mondo dell’attivismo era, però, molto complesso, e spesso non facile da sostenere, sia psicologicamente, sia finanziariamente.

Non sempre le iniziative andavano bene; non sempre i progetti avevano un esito positivo, o trovavano sufficienti finanziatori o, ancora, raggiungevano l’obiettivo.

Al contempo, Aaron apriva continue finestre: non rimaneva mai su un progetto per più di qualche mese, e aveva un modo di lavorare che, sovente, irritava i direttori dei progetti o, peggio, gli eventuali finanziatori.

Ciò non toglie che, quando iniziò la sua “seconda vita” da attivista a tempo pieno, dopo i primi vent’anni, molti dei progetti che portò avanti si rivelarono di grandissimo interesse e, ancora oggi, sono rimasti dei punti di riferimento della società tecnologica moderna.