Anima sola/V

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IV VI
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Stonature.


Ricordo anche un vecchio uomo che mia zia chiamava ossequiosamente il signor professore. Era nostro vicino di casa e siccome teneva alcuni libri in permanenza sul suo tavolino e parlava [p. 57 modifica] sempre dell’istruzione, della cultura, della sapienza, mi sentivo attratta verso di lui con una speranza vaga di luce. Non osavo parlar molto perchè ero timida e troppo compresa della mia umile posizione, ma lo ascoltavo con ansia, con un certo battito nelle vene. Mi aspettavo da un momento all’altro che dovesse dire una parola sublime e nella attesa tremavo tutta.

Egli trovandomi un giorno più pensierosa del solito, ebbe la bontà di interrogarmi. Quella fu una grande commozione! Che cosa avrei saputo dire? E che cosa mi avrebbe risposto? Rossa, rossa e con le palpebre chine gli confessai l’afflizione che provavo nel non sapere che cosa ci fosse al mondo di veramente vero.

Il professore uscì fuori in una solenne risata, la quale invece di sconcertarmi [p. 58 modifica] mi suggerì subito subito questo dubbio: “Non sei forse vero nemmeno tu„; e allora ebbi il coraggio di sollevare gli occhi e di guardarlo in faccia.

— Ma — diss’egli, tentando di rifarsi serio — la virtù, il sapere, il bene ed il male sono cose vere. Ce n’è una più vera ancora ed è l’aritmetica. Sai tu, bimba, che due e due fanno veramente quattro?

Risposi che me lo avevano detto, ma che non lo sapevo; e tale risposta che poteva sembrare una arguzia profonda non era altro che la candida confessione della mia ignoranza.

Alcuni giorni dopo il professore mi condusse a vedere un opificio, una lunga galleria dove un gran numero di macchine giravano, sbuffavano, fischiavano e, piegandosi ironicamente al mio orecchio, disse: “Ecco la verità. Queste [p. 59 modifica] macchine che non sbagliano mai, che compiono regolarmente le loro funzioni come esser vivi sono precisamente il frutto di quella scienza superiore che incomincia col due e due quattro.„

Quasi nell’istesso momento l’operaio che sorvegliava una di quelle macchine esclamò: “Non va, si è spezzata una ruota.„ Il professore comprese subito il guasto, ma comprese egualmente il mio sguardo immobile, pieno di tristezza, fisso nella macchina che non girava più?

Ed ancora io credetti per un gran pezzo di non amare la natura. Tranne la rivelazione istantanea che ebbi quel giorno della mia salita su uno dei colli della Versa, gli alberi, i monti, il cielo non erano per me che lo scenario monotono e freddo di passeggiate esasperanti. [p. 60 modifica]

Si partiva in quattro, in cinque, in sei, più che fosse possibile raccoglierne, muniti di provvigioni da bocca che bisognava sorvegliare tutto il tempo della gita e che formavano il vero scopo della passeggiata. Si camminava in coda, l’uno sulla pista dell’altro per i sentieri stretti del bosco, costringendo gli occhi a terra per evitare le lordure e con questo avvertimento che partiva tratto tratto dal capo fila: “Tenete a destra, tenete a sinistra„.

Sulla larghezza polverosa delle vie maestre la brigata invece si disponeva di fronte e se mi attardavo un poco, o se tentavo di precedere, subito la voce di mia zia mi richiamava all’ordine.

C’era un bichiere di pelle nera, screpolato dall’uso, il quale girava di tasca in tasca, di mano in mano, di bocca in bocca, profanando tutte le sorgenti che [p. 61 modifica] spuntavano sui nostri passi. Mi ricordo quanto a lungo vagheggiai la voluttà di bere alla fonte, con la bocca nell’acqua; ma un giorno che mi arrischiai a farlo, mia zia esclamò scandalizzata: “Si può vedere di peggio? beve come le bestie.„

A poco a poco s’addensò nel mio cuore un odio per i sentieri da cui non potevo uscire, per i ruscelli cristallini filtrati nel bicchiere di pelle nera, per le spianate ombrose dove l’erba era cosparsa di cartocci vuoti e di ossa di pollo, e per tutto quel popolo di erba compiacente, per le innumerevoli pratelline, per i bottoni d’oro che ognuno coglieva ponendoseli all’occhiello, per i ciuffi di lattuga selvatica dai quali si aprivano come chiari occhi azzurri i cari fiori che avrei tanto amato, e che detestai dal giorno in cui li vidi galleggiare al di [p. 62 modifica] sopra di una insalata. Alcune canzoni popolari, amorose o patriottiche, cantate in coro sotto gli alberi finivano di mettere il colmo alla mia tristezza. Fu allora che imparai a piangere internamente.

Una volta ebbi un compenso. Con la preoccupazione costante di fuggire, approfittavo di qualunque distrazione della brigata, più facile nel momento in cui si trovavano tutti occupati a mangiare, per allontanarmi non fosse che di pochi passi, ed in tale occasione scopersi sotto il fitto di una pianta i cui rami scendevano fino a terra una apparizione così elegante che mi commuovo ancora di piacere nel ripensarvi.

Era un gruppo di fiori non mai veduti prima, — fiori di croco? — senza fusto e senza foglie, sorgenti ad uno ad uno dalla terra, nudi e bianchi, di una [p. 63 modifica] bianchezza carnea eppur diafana, che colorandosi poi di un pallido lilla, si aprivano leggieri sopra un calice allungato di una grazia squisitissima. Stavano i nobili fiori così l’uno accanto all’altro, protetti dalla densa ombra ramificante, ed a me sembravano aristocratiche dame fuggite a ripararsi sotto quella tenda, oppure dolci e malinconici poeti schivi della folla, radunati in un posto dove nessuno li avrebbe osservati nè côlti.

Io, la tentazione di coglierli, la scacciai come una brutalità. Lieve, lieve, sembrandomi quasi di disturbarli mi inginocchiai dapprima e mi lasciai scivolare fino ad essere tutta lunga distesa nell’erba con la faccia vicina ad essi, guardandoli; guardandoli solamente.

Appartenevano dunque ad un’altra razza di fiori? Avevano bisogno per schiudersi della solitudine, una solitudine [p. 64 modifica] perfetta poichè nessuna altra pianticella stava intorno, evidentemente allontanata dalla cortina verde che serviva loro di reggia. Usciva un profumo da quelle delicate forme liliali? no, più che la violenta sensazione che noi intendiamo con tale parola, era una dolcezza fragrante di purità, quasi l’emanazione di una essenza intima troppo delicata e spirituale per sposarsi alla materialità di un odore.

La mia estasi contemplativa era quanto si può dire deliziosa. E mi pareva che essi pure si fossero accorti di me e che la mia presenza non desse loro alcun senso di ribrezzo. Li contai, erano sette e due piccoli sorgevano appena. Stavano tutti vicini senza toccarsi. Io sentii dentro di me una soddisfazione curiosissima, come se avessi trovato dei parenti. Ma anche quella ingenua soddisfazione mi costò cara. La zia mi rampognò [p. 65 modifica] aspramente dicendo che non era “civiltà„ allontanarsi dalla compagnia, che bisogna fare quello che fanno gli altri se non si vuol parere originali e male educati. In quello stesso momento una signorina della compagnia gettava mollica di pane in volto ai commensali e questa cosa non parve a nessuno originale, nè male educata; anzi se ne rise come di una spiritosità.