Antonio Rosmini/XLII

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Capitolo XLII

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XLI XLIII


Nel pensiero della morte non prossima, il marzo di quest’anno, ragionava a me con timore de’ giudizi divini; e rammentandogli io quel de’ Salmi, le misericordie di lui sopra tutte le opere sue, e quindi entrandomi «io a dire» d’una mia povera versione in cui son saltati i passi che mi paressero più giudaicamente che cristianamente suonare ira, egli rispose che la giustizia non meno della misericordia era divino attributo. Ma più s’approssimava al termine della sua prova, e si levava in sicurtà più serena; e del morire diceva da ultimo: unirmi al mio fine. Ragionava di questo come d’altra qualsiasi faccenda: nè i dolori acuti del fegato, dello stomaco e delle ossa che, quasi slogate, cercavano appoggio l’una sull’altra senza trovarlo, gli turbavano l’intima pace. Il dì ventitrè di giugno diceva: non siamo noi che patiamo, è il corpo che ci circonda e ci veste. E ragionava di Filosofia: e siccome anni prima, tormentato da un reuma dettava delle opere sue, dicendo lavoro e addoloro; così poteva ora dire: muoio e prego non solo col cuore ma con tutta la mente. Un giorno che, sfinito, lo reggevano per sedersi sul letto, sorrise; e gli astanti tra pietà e maraviglia se ne intenerivano; ond’egli: volete ch’io pianga? quest’è bella. La sua massima dell’abbandonare se stesso alla Provvidenza, la adempì. Onde il Manzoni ebbe a dire, che non rassegnazione era quella ma piena adesione convenendo nella parola già scritta dal moribondo: adesione della mente e di tutto l’uomo al Vero.

Pochi mesi prima, ancor sano e con apparenza di vigore, aveva già fatto il suo testamento. Il dì vensette di maggio, festa della Pentecoste, chiese egli il Viatico; e innanzi si fece recitare, e accompagnò ad alta voce in prima, poi non potendo più con sommessa, la professione di fede secondo il Concilio di Trento; e tutto quel dì volle rimanersene solo, in preghiera meditante. Il dì quattordici di giugno ricevè l’olio santo: e notò che in quell’atto erano da imporre al morente le mani; tant’era presente a sè e religioso di quelle cerimonie che rappresentano idee e tradizioni ed affetti, e stringono tra dotti e indotti, tra preti e laici, tra pezzenti e re, tra pargoli e adulti, tra vivi e morti, un’unanime società. Gli esercizi pii, consigliati a lui infermo da benevoli con speranza di sua guarigione, li continuò infino alla fine, già spedito da’ medici, e con l’anima in vero spedita, e, come dicono del morente i canti Umbri, lesta - «Salendo quasi un pellegrino scarco1». - A tali esercizî voleva presenti tutti di casa, e diceva che nulla di bene va perduto, che entrare in parte di tanti meriti di vicini e lontani uniti in un’intenzione, era bello.

Richiesto da uno di fuori di benedirlo, scusatosi prima, poi rispose modesto: come Sacerdote, posso. Gli mandò Pio IX la sua benedizione, e portarono al suo letto la loro, due di que’ Vescovi, nella cui concordia operosa egli poneva speranza della dignità della Chiesa, e il contrario piangeva. Benedizione eziandio gli fu la presenza di taluni di quegli amici, il cui consorzio ispirò l’anima sua da’ primi anni agli ultimi, onde nel libro scritto di sedici anni dipinge con la Filosofia sua nutrice l’Amicizia che gli presentano la Religione velata e sotto il velo lucente di stelle, ed essa Amicizia in veste candida distinta di fiori, e pronta a fare per lui ogni gran cosa; che lo stringe a sè con ghirlanda di rose e di gigli. E nella Logica, una delle ultime opere sue, e’ propone gli amici come aiuti scientifici alla scoperta del Vero; e bene era degno di trovare tali aiuti alla scienza egli che dice l’ingenuità e la franchezza resagli necessaria dalla sua indole. Il dì sedici di giugno dopo il consulto medico, gli si annunzia portargli una miglior medicina, ed egli, avvivandosi negli occhi, esclama: Che? il Manzoni è qui, e lo fate aspettare? conducetelo subito. - Si presero per mano, guardandosi fiso in silenzio; e il Manzoni: Ah! come trovo il caro Rosmini! E come sta? - Sono nelle mani di Dio, e però bene. Ma Lei, caro Manzoni, come mai venire da me in questo tempo! Temo la soffra. - Non so quel che non farei per vedere il Rosmini. - Eh già, Ella ha voluto fare atto di vera amicizia. E poi il Manzoni sarà sempre il mio Manzoni nel tempo e nella eternità. - Speriamo che il Signore La voglia conservare ancora tra noi e darle tempo da condurre a termine tante belle opere che ha cominciate: la sua presenza tra noi è troppo necessaria. No, no; nessuno è necessario a Dio. Le opere che Dio ha incominciate, le finirà egli co’ suoi mezzi che sono nelle sue mani; che sono moltissimi, e sono un abisso, al quale noi possiamo affacciarci solo per adorarlo. Quanto a me, sono del tutto inutile; anzi temo essere dannoso: e questo timore non solo mi fa essere rassegnato alla morte, ma me la fa desiderare. - Oh! per amore del Cielo non dica cotesto. Che faremo noi? - Adorare, tacere e godere -. E così dire, e baciar la mano al Manzoni, fu un punto: e il Manzoni confondersi in atti d’umiltà e di tenerezza non dicibili con degna parola. Volendo egli e il prof. Pestalozza, coraggioso e cordiale difenditore del Rosmini, lasciarlo in pace, questi pregava rimanessero, che la loro vista gli era elisire di vita. Il medico dopo il colloquio gli sentì il polso più tranquillo di prima.

Narrasi d’un Inglese illustre, che, in fine, mandò per un amico, venisse a veder come muore un Cristiano. Qui non solamente nessuna pompa, ma nè anche sfogo di quelle affezioni e idee grandi che gli si eran fatte natura: volle morire, o a dir meglio per istinto morì come un semplice cristiano di quell’umile popolo nel quale e’ sentiva davvero la voce e lo spirito della divinità. Egli soleva commendare siccome un progresso del Cristianesimo civile l’affabile e quasi direi avvenente pietà di quel Francesco di Sales, apostolo del cuore, filosofo dell’affetto, scrittore grande che dalla semplicità deduce l’efficacia, e dalla bontà l’eleganza; non senza augurio felice posto quasi anello d’oro tra Piemonte e Svizzera e Francia. Ornato di quella, com’egli la dice, santa amabilità, il Rosmini moriva. A un amico, chiamandolo de’ suoi più cari lasciava per testamento d’amore queste parole, che dal Vangelo passarono per generazioni e per secoli nelle coscienze di tanta semplice e povera gente a confortarle e levarle in sublime: salvare l’anima. Egli gentiluomo e scienziato ricco di tante riposte idee ed eleganze, poteva ben ritrovare e voci e figure da far accademica e teatrica la sua morte; ma il cuor suo non gli dettò altro che queste parole di Cristo e del popolo: salvare l’anima. Eppure pochi dì innanzi vagheggiava siccome tema poetico la sua propria morte e diceva: ci sarebbe un bell’argomento da magnificare la bontà di Dio, e dimostrare com’ella volle fare all’uomo men penoso il morire, confortandolo di tanti aiuti che procedono dalla natura, dall’arte, dalla Grazia; amici, medici, infermieri, varietà di medicine, cibi e bevande da tutti i climi; parole di conforto, ragioni di speranza; esempi di morti generose; i soccorsi ineffabili della religione. E soggiungeva che il soggetto dovrebb’essere trattato da pennello maestro, che la materia non manca, che la forma dovrebbe tenere di quella d’Orazio tra gli antichi, del Mascheroni tra’ moderni; valenti di parsimonia efficace. Checchè sia di quest’ultima opinione, vedete sempre fino all’estremo conciliata alla bontà la bellezza, la poesia alla scienza, le pure consolazioni al patire puro. Direste che siccom’egli senza sforzo pensava alte cose, così negli stessi tormenti del morbo dovesse far prova di quella agevolezza ch’è il segno della potenza; e che siccome quel Pagano disse la vita una meditazione della morte, egli si fosse abituato a morire.

Note

  1. PETRARCA.