Arabella/Parte prima/2

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II.


Il funerale


Il giorno dopo, con un tempo umido e freddo, il portico, l’andito, la portineria, la scala furono fin dalle prime ore, pieni di gente accorsa a far onore alla povera signora Carolina.

Il signor Tognino, per mettere un argine ai pitocchi veri e falsi, che accorrono ai grossi morti, come i mosconi sullo zucchero, ordinò che si chiudesse un battente della porta e vi piantò due belle guardie di Questura.

La vecchia benefattrice era troppo conosciuta da quelle parti, perchè la notizia della sua morte non avesse a tirar gente dalle più lontane case del Borgo. Verso le dieci in Carrobio si stentava a passare tanta era la folla.

Dei parenti non ne mancava uno, così dei Ratta come dei Maccagno, oltre i parenti dei parenti, gli amici, i curiosi, venuti chi per interesse, chi per pietà, chi per dovere, chi per vedere.

I Maccagno, gente benestante, vestivano in nero e affettavano una certa preminenza, perchè la morta era una Maccagno. Pareva quasi che se ne vantassero. I Ratta invece si comportavano più dimessamente. Ce n’era d’ogni colore, portinai, stampatori, [p. 40 modifica]mastri di muro (Gioacchino Ratta aveva cominciato anche lui col portar la secchia della calce), piccoli bottegai, venditori girovaghi, quasi tutti con qualche segno del mestiere e della miseria indosso, chi male infagottato nei panni d’inverno, chi livido e fresco nei pochi vestiti della festa.

Un piccolotto nero colla faccia fasciata in un fazzoletto pretendeva di cacciar indietro Giovan dell’Orghen, un poveraccio quasi senza scarpe, col pretesto che non era un parente, ma Aquilino Ratta dimostrò che i pitocchi son tutti fra loro fratelli nella santa miseria.

Il sor Tognino, bello e sbarbato, in abito nero, col cilindro fasciato a lutto, faceva gli onori di casa, tra l’anticamera, l’uscio e il pianerottolo, stringendo la mano ai parenti di riguardo, salutando colla mano in aria i più poveri, alzando le spalle, ritraendo il capo, socchiudendo gli occhi a quell’espressione politica e filosofica, che tradotta in parole verrebbe a dire: — Che dobbiamo farci? — La Sidonia Maccagno, sorella di Tognino, maritata all’impresario Mauro Borrola, sotto un gran cappello alla don Carlos, richiamava ancora gli occhi della gente colla sua bellezza teatrale, che nè i quarant’anni sonati, nè le ciprie del palcoscenico avevano potuto cancellare dalla sua faccia larga e matronale di Norma. Il cavaliere suo marito, glorioso avanzo d’una mezza dozzina di fallimenti, dominava anche lui colle spalle e colla voce baritonale, d’un sonoro accento padovano, con cui in nome dell’ostia seguitava a brontolar contro la folla dei pitocchi, come se avesse pagato il posto e il diritto di brontolare.

Vedendo che una nuvola di questa marmaglia [p. 41 modifica]sforzavasi d’invadere la scala, alzata una canna con grosso pomo d’argento, sempre in nome dell’ostia, minacciò quella canaglia di far chiamare le guardie.

Il povero Berretta livido come un panereccio e non ancora rimesso dallo spavento della notte, movevasi col passo legato d’un sonnambulo in mezzo alla gente, sollevando ora una mano, ora l’altra, senza impedir nulla, sotto la persecuzione continua del cav. Borrola, che gonfiando le ganasce, soffiando l’anima, lo minacciava dai primi scalini col bianco degli occhi. E il bello è che il portinaio nè conosceva quel grasso signore dai baffi tirati in punta, dipinto come una tavolozza, nè capiva quel che volesse da lui col suo bastone in aria e col suo fiol d’on can.

Arrivò a tempo Ferruccio con un fascio di candele che consegnò a suo padre perchè fossero distribuite.

Entrò a tempo anche la carrozza funebre, che, descritto un bell’ovale nella neve fresca della corte, venne a collocarsi sotto il portico, tagliando in due parti la folla, i signori verso la scala, la poveraglia verso la cantina. Sui berretti molli, sui cappelli a cencio, sui fazzoletti delle povere donne svolazzava il tricorno di don Giosuè Pianelli, un vecchio prete sepolto nel bavero d’un gran tabarro allacciato con una grossa catena di ferro sotto il mento.

Accanto gli stava cogli occhi velati dai neri sopracigli l’avvocato Baruffa, di cui la testa lucida e nuda splendeva in mezzo ai colori scuri come un grosso uovo di struzzo.

Aquilino Ratta, il vice-ricevitore del R. lotto, cercò d’accostare il prete e d’interrogarlo pulitamente, col dovuto rispetto alla circostanza, su quelle che dicevano le probabilità d’un testamento, mediante il [p. 42 modifica]quale... per il quale... Don Giosuè, scrollando il tabarro in furia, brontolò qualche cosa in fondo al bavero, e cambiò posto. Fu avvicinato da questa parte da Salvatore Boffa, il fonditore di caratteri di stampa (l’uomo dalla ganascia fasciata), che, soffiando le parole come gli permetteva la flussione, toccò ancora il tasto del testamento. Don Giosuè alzò gli occhi al cielo e parve sprofondare nel bavero come in una botola.

Nell’angusto passo della portineria la Santina, la donna di servizio che il sor Tognino aveva messo rabbiosamente alla porta, si profondeva in lagrime avvolta in uno scialle nero che le dava l’aspetto di una sanguisuga.

Con tanta ressa di gente che ingombrava la scala e il portico la povera vecchia Ratta stentò a farsi strada, quando la portarono abbasso nel suo ultimo vestito di legno bianco. Intanto la processione dei preti e dei chierici colla croce, preso in mezzo Lorenzo Maccagno, lo trascinò, rimorchiandolo fin presso le ruote del carro, tenendolo imprigionato in un cerchio di candele accese. I preti cominciarono a brontolare orazioni. Lorenzo, chiuso in mezzo dalle cotte, cercò di salvare il cappello nuovo dalle sgocciolature, e se ne servì come di scudo per difendersi dagli occhi maliziosi della zia Sidonia, che rideva dietro le spalle massiccie del cavalier marito. Nell’andar via cogli occhi da quella tentazione, ne incontrò un’altra, a una finestra del secondo piano, dove la bella Olimpia ancora spettinata, stava spiando nello spiraglio tra due gelosie.

Il brontolamento dei preti rimescolò subito le viscere del cav. Borrola, libero pensatore e framasson padovan, che non potè trattener anche lui il suo [p. 43 modifica]rosario contro il botteghin e il bottegon, contro una razza di mangiapan, che vivono alle spalle dei credenzoni...

Il bravo fallito, gonfiando gli occhi, esprimeva questi suoi sentimenti con una voce di moscone irritato, movendo la punta dei baffi come gli indici d’un grosso orologio. Un poco di più avrebbe fatto nascere uno scandalo, se a un tratto la voce stizzosa e chiara del sor Tognino in cima alla scala e lo scalpitare dei cavalli, che menavan via la morta, non avessero sviata l’attenzione dei dolenti per così chiamarli.

Una donna, certa Angiolina, ortolana di professione, parente anche lei della defunta essendo venuta in cognizione che la vecchia Ratta aveva lasciato delle disposizioni a favore dei parenti poveri, sgusciando tra la folla in coda ai becchini, aveva colto il bravo sor Tognino sulla soglia dell’appartamento e pretendeva avere da lui qualche notizia positiva. Il sor Tognino la fermò sull’uscio e cercò mostrarle che non era proprio il momento più opportuno di parlar di affari, per bacco! Le carte erano nelle mani del notaio Baltresca...

— Baltresca o Baltrosca... — ribattè la donna, che dalle voci era indotta a creder poco al bravo parente — vuol dire che ci saremo anche noi. — E usando la metafora che in verziere è come un manico d’avorio infilato sopra una lama ordinaria, seguitò, alzando la voce: — Badiamo a non fare il gatto, perchè noi ai gatti che allungano troppo lo zampino tagliamo la coda e se non basta la coda tagliamo anche gli orecchi... — Il sor Tognino colse un buon momento e chiuse l’uscio sul muso alla pettegola.

Il corteo, infilato l’androne della porta piegò a [p. 44 modifica]sinistra e si distese come una vera biscia lungo il corso di Porta Ticinese, verso la parrocchiale di San Lorenzo. Ai cordoni si trovarono, un po’ per caso, un po’ per accordi presi, Sidonia Maccagno maritata al cavalier Borrola, Celestina maritata a Michele Ratta lattivendolo, Paolina Bianconi maritata a un Maccagno, orefice all’insegna dell’àncora, e Arabella Pianelli, da tre mesi sposa a Lorenzo Maccagno. Casa Maccagno su tutta la linea.

Nel via vai delle vetture, dei carri, dei tram, della folla che brulica in quel popoloso quartiere, il funerale si allungò nel piacichiccio sudicio della strada, dove il fango affogava la neve, passando a sinistra delle antiche colonne romane, che sfidano nella loro marmorea indifferenza l’indifferenza più che marmorea, che i cinquemila bottegai della parrocchia dimostrano per la loro classica antichità.

La gente si arrestava a guardare un poco, sbadatamente, a questo fatto così comune del morto che passa, che nelle grandi città non suscita più in chi vede se non il fastidio d’aspettare che passi. Quindi la folla si rimescola e seguita a scorrere nel declivio dolce e potente della vita.

Il signor Tognino aspettò che tutti fossero usciti e, chiuso l’appartamento, tenne dietro al funerale col suo passetto corto e strisciato, mentre andava infilando un paio di guanti di pelle. Raggiunto il corteo si accostò a Lorenzo e gli disse: — Perchè hai permesso ad Arabella d’uscire con questo tempo? Non avete proprio nessun giudizio.

— Se tu sai persuadere le donne quando si fissano un’idea... — osservò sorridendo il giovine.

— Nel suo stato è giusto prudenza uscir di casa e il cacciarsi nella folla. [p. 45 modifica] — Bravo, diglielo... — Il vecchio Maccagno aspettò il momento che la morta stava per entrare in chiesa, chiamò in disparte la nuora, e le disse: — Non voglio che lei resti a prender altro freddo. Dia ascolto a me, torni a casa...

— Mi sento bene...

— Oggi si sente bene e domani potrebbe sentirsi male. Venga con me, abbia pazienza. Passa il tram, torni a casa, e si faccia dare una bell’acqua calda dall’Augusta. E cambi subito le scarpe. Nel suo stato non deve esporsi agli strapazzi.

— Obbedirò... — disse Arabella con un leggero sorriso.

— Brava, venga con me. — Il suocero tornò dieci passi indietro, fece arrestare un tram, accompagnò la nuora fino al carrozzone, ne pagò il posto, osservando che non fosse sulla corrente dell’aria, e tornò a dire: — Faccia fermare davanti alla porta. — E rivoltosi al conduttore, soggiunse:

— Fermati in via Torino, alla porta del dentista...

— Lo so — disse il conduttore, salutando il signor Maccagno, come persona conosciuta. — Il vecchietto seguitò cogli occhi un pezzo la carrozza, e indicando colla mano le scarpe, raccomandò ancora una volta all’Arabella di cambiare le sue appena a casa.

Quindi tornò in chiesa, mentre i preti intonavano il Beati mortui, e andò a collocarsi vicino al Botola, un suo vecchio amico d’infanzia, col quale cominciò un discorso molto vivo. Tre passi dietro di lui l’ortolana, alzando la voce come se fosse in verziere, ripeteva al Boffa e ad Aquilino Ratta: — Per me, se non vedo le cose chiare, l’ho dichiarato a questo impostore: faccio un altro quarantotto.