Asolani/Libro secondo/XXIX

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Libro secondo - Capitolo XXIX

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Né pure i luoghi, stati alcuna volta delle nostre donne ricevitori, o quelli che più spesso ci sogliono di loro essere e conservatori fedelissimi e dolcissimi renditori, alla mente le ci ritornano, come io dissi; ma in ciascuna parte ancora sempre si vede qualche cosa, nella qual noi con gli occhi della testa riguardando, nelle nostre donne con quelli dell’anima miriamo, di loro dolcissimamente ricordandoci per alcuno sembievole modo. Che per dir pure di me stesso, come fece di sé Perottino, certo se io sono, come io soglio alle volte, in alcun camino, niuna verde ripa di chiaro fiume, niuna dolce vista di vaga selva scorgono gli occhi miei e di lieta montagnetta niuna solinga parte, niun fresco seggio, niuna riposta ombra, niun segreto nascondimento non miro, che alla bocca non mi corra sempre: Deh fosse or qui la mia donna meco e con Amore, se ella tra queste solitudini, di me solo non si tenendo sicura, pure si cercasse compagnia; e così, volto il pensiero ver lei, poi di lei meco medesimo in lunga gioia lunga pezza lunghi ragionamenti non tiri. E dove per lo fuggir del sole la sopravenuta ombra della terra, levando il colore alle cose, mi lievi e tolga la vista loro, non è che io nella tacita notte le stelle mirando non pensi: Deh se queste sono delle mondane venture dispensatrici, quale è or quella che indestinò prima la dolce necessità de’ miei amori?. O alla vaga luna riguardando e nel suo freddo argento fisse tenendo le mie luci, io non ragioni tra me stesso: Or chi sa che la mia donna ora in questo medesimo occhio non miri, che io miro? e così ella di me ricordandosi, come io di lei mi ricordo, non dica: Forse guardano gli occhi del mio Gismondo, qualunque terra egli prema ora col piede, te, o Luna, sì come guardo io; e a questa guisa in uno obbietto stesso e le nostre luci s’avengano e i nostri pensieri?. Così, ora in un modo e quando in altro, nell’imaginar pure della mia donna rientrando e de’ nostri amori, vie più con lei che con me stesso dimoro. Ma che giova ramemorar quello che il pensiero ci risveglia nelle lontane contrade? Già nella nostra città niuna bella donna mi può davanti apparere, che io incontanente nelle bellezze non entri con l’animo della mia. Niun vago giovane veggo per via piè innanzi piè solo e pensoso portar se stesso, che io non istimi: Forse pensa costui ora della sua donna;’ il che istimare, me altresì della mia mette tantosto in dolcissimi pensamenti. E se nelle nostre diportevoli barchette alle volte pigliando aria alquanto da gli strepiti della città m’allontano, a niuna parte m’avicino de’ nostri liti, che a me non paia vedervi la mia donna andar per loro spaziandosi, al suono cantando delle roche onde e marine conche con vaghezza fanciullesca ricogliendo. Infinite e innumerabili oltre a queste, e tante appunto, quante noi medesimi vogliamo, sono le vie per le quali può mandare all’animo le dolcezze de’ diletti già passati il nostro vago e maestrevole pensiero. Perciò che a lui né passo, né ponte, né porta si rinchiude. Non cielo che minacci, non mare che si turbi, non scoglio che s’apponga lo ritiene. Amor gli presta le sue ali, contro le quali niuna ingiuria può bastare. E queste ali tuttavia, sì come nelle passate gioie a sua posta il ritornano, così né più né meno, quandunque ad esso piace, ne ’l portano nelle future. Le quali, posto che pure perdano dalle passate, in quanto le future così certe non sono, sì avanzano elle poi da quest’altra parte, che dove della suta dolcezza una sola forma ritorna nell’animo col pensarvi, tale quale ella fu, di quella che ad essere ha, perciò che non fu ancora, mille possibili maniere ci si rapresentano care e vaghe e dilettevolissime ciascuna. Così le nostre feste, e prima che avengano con la varietà, e appresso avenute con la certezza del pensiero dilettandoci, continue e presenti si fanno a noi in ogni luogo, in ogni tempo; il che dicono esser proprio di quelle de gl’Idii.