Asolani/Libro secondo/XXVIII

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Libro secondo - Capitolo XXVIII

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Libro secondo - Capitolo XXVIII
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Se ’l pensier, che m’ingombra,
Com’è dolce e soave
Nel cor, così venisse in queste rime,
L’anima saria sgombra
Del peso, ond’ella è grave,
E esse ultime van, ch’anderian prime;
Amor più forti lime
Useria sovra ’l fianco
Di chi n’udisse il suono;
Io, che fra gli altri sono
Quasi augello di selva oscuro humile,
Andrei cigno gentilePoggiando per lo ciel, canoro e bianco,
E fora il mio bel nido
Di più famoso e onorato grido.

Ma non eran le stelle,
Quando a solcar quest’onda
Primier entrai, disposte a tanto alzarme;
Che, perché Amor favelle
E Madonna risponda
Là, dove più non pote altro passarme,
S’io voglio poi sfogarme,
Sì dolce è quel concento,
Che la lingua no ’l segue,
E par che si dilegue
Lo cor nel cominciar de le parole;
Né giamai neve a sole
Sparve così, com’io strugger mi sento:
Tal ch’io rimango spesso
Com’uom, che vive in dubbio di se stesso.

Legge proterva e dura
S’a dir mi sferza e punge
Quel, ond’io vivo, or chi mi tene a freno?
E s’ella oltra mia cura
Dal mondo mi disgiunge,
Chi mi dà poi lo stil pigro e terreno?
Ben posson venir meno
Torri fondate e salde;
Ma ch’io non cerchi e brami
Di pascer le gran fami,
Che ’n sì lungo digiuno, Amor, mi dai,
Certo non sarà mai:
Sì fûr le tue saette acute e calde,
Di che ’l mio cor piagasti,
Ove ne gli occhi suoi nascosto entrasti.

Quanto sarebbe il meglio,
E tuo più largo onore,
Ch’i’ avessi in ragionar di lei qualch’arte.
E sì come di speglio
Un riposto colore
Saglie talor e luce in altra parte,
Così di queste carte
Rilucesse ad altrui
La mia celata gioia;
E perché poi si moia,
Non ci togliesse il gir solinghi a volo
Da l’uno a l’altro polo;
Là dove or taccio a tuo danno, con cui
S’io ne parlassi, avria
Voce nel mondo ancor la fiamma mia.

E forse avenirebbe,
Ch’ogni tua infamia antica
E mille alte querele acqueteresti;
Ch’uno talor direbbe:
’Coppia fedele, amica,
Quanti dolci pensier vivendo avesti!’.
Altri: ’Ben strinse questi
Nodo caro e felice,
Che sciolto a noi dà pace’.
Or, poi ch’a lui non piace,
Ricogliete voi, piagge, i miei desiri
E tu, sasso, che spiri
Dolcezza e versi amor d’ogni pendice,
Dal dì che la mia donna
Errò per voi secura in treccia e ’n gonna.

E se gli onesti preghi
Qualche mercede han teco,
Faggio, del mio piacer compagna eterna,
Pietà ti stringa e pieghi
A darne segno or meco,
E mova da la tua virtute interna
Chi ’l mio danno discerna,
Sì che, s’altro mi sforza
E di valor mi spoglia,
S’adempia una mia voglia
Dopo tante, che ’l vento ode e disperde.
Così mai chioma verde
Non manchi a la tua pianta, e ne la scorza
Qualche bel verso viva,
E sempre a l’ombra tua si legga o scriva.

Già sai tu ben, sì come
Facean qui vago il cielo
De le due chiare stelle i santi ardori,
E le dorate chiome
Scoperte dal bel velo,
Spargendo di lontan soavi odori
Empiean l’erba di fiori;
E sai, come al suo canto
Correano inverso ’l fonte
L’acque nel fiume, e ’l monte
Spogliar del bosco intorno si vedea,
Ch’ad ascoltar scendea,
E le fere seguir dietro e da canto,
E gli augelletti inermi
Sovra in su l’ali star attenti e fermi.

Riva frondosa e fosca,
Sonanti e gelid’acque,
Verdi, vaghi, fioriti e lieti campi,
Chi fia, ch’oda e conosca
Quanto di lei vi piacque,
E meco d’un incendio non avampi?
Chi verrà mai, che stampi
L’andar soave e caro
Col bel dolce costume,
E quel celeste lume,
Che giunse quasi un sole a mezzo ’l die
Sovra le notti mie:
Lume, nel cui splendor mirando imparo
A sprezzar il destino
E di salir al ciel scorgo ’l camino?

Quando, giunte in un loco,
Di cortesia vedeste,
D’onestà, di valor sì care forme?
Quando a sì dolce foco
Di sì begli occhi ardeste?
E so ch’Amor in voi sempre non dorme.
O chi m’insegna l’orme,
Che ’l piè leggiadro impresse?
O chi mi pon tra l’erba,
Ch’ancor vestigio serba
Di quella bianca man, che tese il laccio,
Onde uscir non procaccio,
E del bel fianco e de le braccia istesse,
Che stringon la mia vita,
Sì ch’io ne pero e non ne cheggio aita?

Genti, a cui porge il rio
Quinci ’l piè torto e molle,
E quindi l’alpe il dritto orrido corno,
Deh or tra voi foss’io,
Pastor di quel bel colle
O guardian di queste selve intorno:
Quanto riluce il giorno
Del mio sostegno andrei
Ogni parte cercando,
Reverente inchinando
Là ’ve più fosse il ciel sereno e queto
E ’l seggio ombroso e lieto;
Ivi del lungo error m’appagherei,
E basciando l’erbetta,
Di mille miei sospir farei vendetta.

Tu non mi sai quetar, né io t’incolpo,
Pur che tra queste frondi,
Canzon mia, da la gente ti nascondi.