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Audizioni Commissione d'inchiesta Federconsorzi/29

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Audizione Pandolfi

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SENATO DELLA REPUBBLICA-----------------------------------------CAMERA DEI DEPUTATI XIII LEGISLATURA

COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA SUL DISSESTO DELLA FEDERAZIONE ITALIANA DEI CONSORZI AGRARI



RESOCONTO STENOGRAFICO DELLA SEDUTA DI MARTEDI’ 17 FEBBRAIO 2000


Presidenza del presidente Melchiorre CIRAMI


I lavori hanno inizio alle ore 13,30 (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).


Presidenza del presidente CIRAMI

Comunicazioni del Presidente PRESIDENTE. Vi informo che, in data 10 febbraio 2000, l’avvocato Fabrizio Lemme, difensore del dottor Ivo Greco, ci ha trasmesso copia di due memorie presentate, per conto del suo assistito, al GUP di Perugia innanzi al quale pende il procedimento a carico di Greco ed altri. Vi do lettura di una comunicazione trasmessa ieri dall’avvocato Francesco Lettera:

"Signor Presidente,

esaurito in data odierna il mandato di Commissario governativo della Federconsorzi, si ritiene doveroso trasmettere i seguenti atti:

atto di transazione tra liquidatore dei beni ceduti da Federconsorzi ed ex amministratori della Fedit in relazione all’azione di responsabilità ex artt. 2393-2394 c.c. del 28.12.1999 (All. 1);

relativa informativa all’amministrazione vigilante n.107/2000 del 14.2.2000 (All. 2);

AIMA: fermo amministrativo per Lit. 600 (seicento) miliardi disposto per le campagne soia 1989/90 e 1990/91 notificato il 21.1.2000 (All. 3);

relativa informativa all’amministrazione vigilante n.111/2000 del 14.2.2000 (All. 4);

rendiconto al 31.12.1999 esteso al 14.2.2000 sull’attività del Commissario governativo (All. 5).

Si resta a disposizione per quanto altro possa occorrere (…)".

È chiaro che questa notizia della revoca dell’incarico di commissario governativo all’avvocato Lettera ci pone qualche interrogativo che dovremo affrontare anche in sede di Ufficio di Presidenza, al fine di capire cosa stia accadendo e di approfondire le ragioni di questo cambio della guardia.

Audizione del dottor Filippo Maria Pandolci

PRESIDENTE. La Commissione procede oggi all’audizione del dottor Filippo Maria Pandolfi, che ringrazio per aver accolto, con cortese disponibilità, il nostro invito.

Avverto che i nostri lavori si svolgono in forma pubblica, secondo quanto dispone l’articolo 7 della legge istitutiva, e che è dunque attivato, ai sensi dell’articolo 12, comma 2, del nostro Regolamento interno, l’impianto audiovisivo a circuito chiuso.

Qualora da parte del dottor Filippo Maria Pandolfi o di colleghi lo si ritenga opportuno in relazione ad argomenti che si vogliono mantenere riservati, disattiverò l’impianto audiovisivo per il tempo necessario.

Preciso infine che dell’audizione odierna è redatto il resoconto stenografico, che sarà sottoposto, ai sensi dell’articolo 12, comma 6, del Regolamento interno, alla persona ascoltata e ai colleghi che interverranno, perché provvedano a sottoscriverlo apportandovi le correzioni di forma che riterranno, in vista della pubblicazione negli Atti parlamentari.

Ricordo che l’onorevole Pandolfi ha ricoperto la carica di Ministro dell’agricoltura dal 4 agosto 1983 al 12 aprile 1988 (I e II Governo Craxi, VI Governo Fanfani, Governo Goria).

Vorrei inoltre premettere che, in forza dell’articolo 35 del decreto legislativo 7 maggio 1948, n. 1235, al Ministero dell’agricoltura era conferita la facoltà di disporre ispezioni sul funzionamento dei consorzi agrari e della Federconsorzi, di sospendere l’esecuzione di deliberazioni o atti illegittimi o contrari alle finalità degli stessi consorzi e della Federconsorzi e al pubblico interesse, di annullare in ogni tempo gli atti contrari alle leggi e ai regolamenti e, di concerto con il Ministero del lavoro, quelli contrari agli statuti.

I consorzi e la Federconsorzi avevano inoltre l’obbligo di comunicare al Ministero i bilanci e le deliberazioni dei consigli e dei comitati esecutivi e delle assemblee. Nei collegi sindacali dei consorzi e della Federconsorzi era prevista la presenza qualificata di un sindaco presidente di designazione ministeriale.

Risulta inoltre che per prassi - e di ciò le chiedo conferma - i bilanci della Federconsorzi venissero sottoposti alla sigla del Ministro. Ella aveva pertanto, quale titolare del Ministero dell’agricoltura, un penetrante e forte potere-dovere di vigilanza sui consorzi agrari e sulla Fedit, che poteva naturalmente esercitare tramite le competenti strutture amministrative del suo Dicastero.

Ella è stato Ministro dell’agricoltura dal 4 agosto 1983 al 12 aprile 1988 e quindi ininterrottamente per circa cinque anni. Tanto premesso, la invito a riferirci sulle condizioni dei consorzi e della Fedit nel periodo 1983 - 1988 e sulla sua azione politica e amministrativa in merito.

PANDOLFI. Onorevole Presidente, cercherò di restare nell’ambito delle questioni, peraltro molto ampie, che lei ha voluto indicare nella sua premessa. Vorrei premettere a mia volta che le fonti di ciò che mi appresto a riferire (salvo su un punto di cui dirò) sono esclusivamente documenti pubblici, testi di legge o altri atti pubblicati nella Gazzetta Ufficiale o negli Atti parlamentari. A queste fonti si aggiunge la mia memoria personale, sostenuta, in qualche raro caso, da alcuni appunti autografi trovati nelle mie carte. Per mia abitudine, infatti, nei 10 anni e mezzo in cui ho rivestito incarichi di Ministro, ho sempre osservato rigorosamente la regola di lasciare presso i Ministeri tutti i documenti, incluse le annotazioni autografe che ripetutamente facevo sulle note che mi venivano passate, accompagnate normalmente da una "tagliatella" del capo di gabinetto e qualche volta dei direttori generali del Ministero. Non ho in ogni caso con me copia dei documenti che immagino questa Commissione parlamentare d’inchiesta abbia già a sua disposizione.

Ciò premesso, vorrei parlare in primo luogo della situazione che trovai nell’agosto 1983, quando passai dal Ministero dell’industria a quello dell’agricoltura con il primo Governo Craxi; parlerò, successivamente, della priorità principale della mia azione in questo campo per poi riferire, in una terza parte, dell’obiettivo di un riassetto definitivo del sistema dei consorzi agrari provinciali e della Federconsorzi.

La situazione nel 1983 - 1984 era caratterizzata da tre elementi. Il primo riguardava il fatto che, da oltre 20 anni, erano cessate le funzioni di natura pubblicistica che l’ordinamento aveva affidato al sistema integrato formato da consorzi agrari provinciali e da Federconsorzi. Tali funzioni pubblicistiche sono indicate nell’ultimo punto, il punto 8), dell’articolo che disciplina le finalità dei consorzi agrari, contenuto nel decreto legislativo n. 1235 del 7 maggio 1948, che rappresenta la magna charta del sistema dei consorzi agrari provinciali e della Federconsorzi. Non si tratta in realtà di un testo istitutivo, perché già in provvedimenti precedenti - il primo dei quali risale al 1936 - vi erano elementi che disciplinavano quell’ordinamento. Tuttavia, fino all’abrogazione avvenuta quattro mesi fa con la legge n. 410 dell’ottobre 1999, il sistema era fondato sostanzialmente sul decreto legislativo sopra richiamato. Aggiungo che il punto 8, tra le finalità del sistema, prevedeva operazioni di ricevimento, conservazione e distribuzione di merci di ogni tipo compiute - elemento determinante - per conto e nell’interesse dello Stato.

Queste funzioni pubblicistiche cessano nel momento in cui entrano in vigore i regolamenti attuativi della politica agricola comune (PAC), cessano quindi per un obbligo internazionale dell’Italia, sorto con la legge di ratifica del Trattato di Roma, istitutivo della CEE (25 marzo 1957).

In tutto il periodo precedente, a partire dal 1944 il sistema aveva esercitato tre specifiche funzioni di carattere pubblicistico. In primo luogo e sino al 1962, l’ammasso del grano e di altri prodotti, gestito territorialmente dai consorzi agrari provinciali; in secondo luogo, per un periodo di due anni (campagne 1962-1963 e 1963-1964), una volta entrato in vigore l’ordinamento comunitario, funzioni transitorie di organismo di intervento in materia di grano (con l’introduzione della legge n. 303 del 1966, queste funzioni passeranno stabilmente all’AIMA); infine, ancora interinalmente e fino al 1966, una gestione di ammasso volontario dell’olio di oliva in base ad un regolamento comunitario.

In aggiunta a queste funzioni di ammasso c’erano state anche gestioni di importazione, di cui ricordo quelle legate ai primi anni del dopoguerra (piano "Interim Aid" e piano European Recovery Program, più noto come Piano Marshall) e gestioni di distribuzione. Ma tutto questo era ormai cessato, sin dagli anni ’50.

Tuttavia, durante la mia permanenza di quasi tre anni al Ministero del tesoro avevo potuto verificare direttamente un elemento, in realtà ben noto, - e cioè che gran parte dei conti era ancora da liquidare e che una parte significativa, anche se non predominante, di rendiconti doveva ancora essere approvata e munita del visto di registrazione della Corte dei conti. Questa era l’anomalia maggiore del sistema. Il fatto che, a 20 anni di distanza dalla cessazione delle funzioni pubblicistiche, non fossero stati ancora regolati i conti era una situazione che non poteva non suscitare preoccupazione.

Tale situazione - lo voglio ricordare - poneva problemi anche al Ministro del tesoro, in quanto il finanziamento di queste spese veniva effettuato, almeno per gli ammassi, con l’emissione e la rinnovazione ogni quattro mesi di cambiali che venivano scontate dagli istituti di credito convenzionati i quali, a loro volta, le riscontavano presso la Banca d’Italia al tasso dell’1 per cento, andando a costituire la cosiddetta "carta ammassi", ovvero un’ingente posizione anomala presso la banca centrale. Fino al 1953, i conti e le pendenze dello Stato erano stati liquidati. A partire dal 1953 non era stato fatto più nulla. Tutto questo comportava la liquidazione di conti per circa 2.500 miliardi.

Altro elemento che non poteva non colpire della situazione 1983-1984, era il sopravvivere di un ordinamento che finiva per determinare – se mi è consentita l’espressione – un’ingessatura del sistema. Infatti, i consorzi agrari non partecipavano alle normali operazioni di sostegno che le varie leggi prevedevano nei confronti delle cooperative agricole di rilevanza nazionale. Si tenga presente che la legge istitutiva dà ai consorzi agrari provinciali la caratteristica di cooperative a responsabilità limitata, secondo le disposizioni contenute nel titolo sesto del libro quinto del codice civile.

Essendo il sistema legato a funzioni non più esercitate ma, d’altra parte, obbligato in qualche maniera a sopravvivere, non fosse altro che per gli oneri amministrativi di post-gestione e di contatti con le autorità vigilanti, si determinava una strana situazione per cui il sistema formato dai consorzi agrari e dalla relativa Federazione non poteva fruire delle disposizioni generali dell’ordinamento relative al sostegno dell’agricoltura, rimaneva legato a delle funzioni surrettizie e residuali e affrontava in condizioni certamente non ideali le grandi trasformazioni registrate in agricoltura nel corso degli anni Ottanta.

A fronte di questa situazione, i compiti del Ministero dell’agricoltura - e rispondo con ciò ad una domanda del Presidente - derivavano dall’articolo 35 del decreto legislativo n. 1235 del 1948, che assegnava al Ministero dell’agricoltura, derogando in ciò alla regola generale secondo la quale è il Ministero del lavoro che vigila sulle cooperative, tre specifici poteri. Il primo consisteva nel compiere ispezioni sul funzionamento dei consorzi agrari e della Federconsorzi; il secondo consisteva nel sospendere l’esecuzione di deliberazioni o atti viziati da illegittimità o difformi dalle finalità istitutive, come stabilite dalla legge; il terzo era il potere di annullare gli atti contrari a leggi o regolamenti.

Questi poteri nel tempo finirono col frammentarsi in un’infinita serie di controlli di legittimità sui circa 5.000 rendiconti in cui si erano materialmente tradotte tutte le operazioni, di cui al punto 8 dell’articolo 35 dell’originaria legge n. 1235.

Si trattava di effettuare controlli sui consorzi agrari provinciali e sui bilanci della Federazione dei consorzi agrari. In sostanza, nonostante le funzioni sottostanti ai rendiconti fossero cessate da vent’anni, era rimasto in piedi un impegno amministrativo piuttosto consistente. Questa era la situazione.

L’azione del Governo in quella fase ebbe una prima priorità, che consideravo condizione preliminare per poter raggiungere un obiettivo ulteriore di cui parlerò nella parte finale di questa mia esposizione generale. La prima priorità era la liquidazione delle pendenze relative alle gestioni di 20 anni prima: questa era la condizione affinché il sistema, con qualche minimo aggiustamento legislativo, potesse rientrare nelle regole generali della cooperazione agricola di rilevanza nazionale. Teniamo presente che allora diventava sempre più competitiva, e quindi più vincolante, la situazione dell’Italia all’interno della politica agricola comune: non potevamo permetterci il lusso di avere un sistema ancora legato a schemi degli anni ’50 o addirittura del primo periodo post bellico.

La prima priorità era quindi l’aggiustamento dei conti, la liquidazione dei rendiconti già liquidabili per i quali vi era stata l’approvazione e la registrazione del decreto di approvazione da parte della Corte dei conti. Occorreva poi accelerare l’ulteriore rendicontazione, in modo da chiudere il ciclo per il 1987 (ricordo esattamente le date indicate negli atti parlamentari).

Si giunge così a quello che ritengo l’atto fondamentale dell’iniziativa governativa: il disegno di legge n. 2315 della IX legislatura (atto Camera), presentato dal Governo con primo firmatario il Ministro dell’agricoltura di concerto con il ministro del tesoro, Goria, e con il ministro del bilancio, Romita. Occorre spendere due parole sulla genesi di quel disegno di legge. Ho detto prima che l’ultima legge che aveva consentito di liquidare le pendenze dello Stato verso il sistema federconsortile, relativamente alle funzioni che ho ricordato, risaliva al 1956. In quell’occasione furono ripianati i conti fino al 1953. Dopo di allora, ci fu un unico episodio legislativo nel 1970 con il disegno di legge n. 1075, atto Senato, che riguardava stranamente soltanto la sistemazione dei conti della gestione triennale a titolo transitorio e interinale affidata ai consorzi agrari per l’olio d’oliva. Risulta difficile capire come mai si trattò soltanto di quelle operazioni e non del resto. Il disegno di legge fu approvato dal Senato e non ancora dalla Camera, quando sopravvenne la fine della legislatura; si trattava della prima interruzione anticipata della legislatura della storia repubblicana: era il 1972.

Il Ministero dell’agricoltura si rifece vivo nel 1980, durante la mia permanenza al Dicastero del tesoro, chiedendo la riproposizione del medesimo disegno di legge. La risposta del Tesoro fu molto semplice: non si poteva procedere in maniera episodica partendo da una delle gestioni meno rilevanti dell’epoca. Il Ministero del tesoro si dichiarò però disponibile a reperire i mezzi finanziari necessari per l’operazione complessiva.

Dopo un periodo al Ministero dell’industria, mi ritrovai all’Agricoltura come interlocutore del Ministro del tesoro dell’epoca. Si procedette abbastanza rapidamente, anche con il concorso della commissione consultiva per l’esame dei rendiconti istituita presso lo stesso Ministero dell’agricoltura, e si arrivò alla presentazione, nel novembre 1984, del disegno di legge n. 2315. Quest’ultimo comprendeva varie disposizioni che riassumo brevemente. Si prevedeva anzitutto la liquidazione dei conti dei consorzi agrari provinciali relativamente all’ammasso del grano. Tremila rendiconti erano già stati approvati e muniti del visto di registrazione della Corte dei conti. C’erano quindi tutte le condizioni per ripianare i conti nella loro globalità. Eravamo di fronte a varie alternative tecniche; si pensò di procedere a una emissione straordinaria di titoli di Stato che sarebbero stati ceduti alla Banca d’Italia in sostituzione delle cambiali riscontate. Questa era la parte più semplice dell’operazione, che non presentava difficoltà, dal momento che i rendiconti erano già stati approvati e registrati.

Rimanevano le gestioni transitorie, per conto della CEE, precedenti l’istituzione dell’AIMA, relative alle campagne 1962-1963 e 1963-1964. Su questo punto ho una documentazione più precisa perché, essendo stati approvati quei rendiconti nel 1987, c’è stato poi uno strascico. Il mio decreto di approvazione è stato revocato, successivamente, come preciserò in seguito e il Ministero dell’agricoltura ha costituito in mora me e gli altri funzionari che si erano occupati della questione. Fu promossa, e credo sia ancora in corso, una istruttoria da parte della procura regionale della Corte dei conti per il Lazio.

Torno alle disposizioni del disegno di legge. Per quelle due gestioni CEE si fece una previsione di 116 miliardi, da erogarsi a mano a mano, una volta approvati i rendiconti; anche in quel caso si ricorreva alla formula dei titoli di Stato. Per tutte le altre gestioni, invece, per le quali in parte si era in presenza di conti approvati e non registrati e in parte di conti ancora da approvare, si stabiliva una cifra indicata preventivamente in 630 miliardi, per i quali si sarebbe provveduto con restituzione in contanti. Aggiungendo 55 miliardi per interessi e spese di emissione dei titoli, l’operazione totale ammontava a 2.515 miliardi in tre esercizi: 1985, 1986 e 1987.

Il disegno di legge fu presentato nel novembre 1984 e assegnato alla Commissione Agricoltura della Camera, il cui Presidente nominò relatore l’onorevole Giampaolo Mora. Venne chiesto il parere di tre Commissioni: affari costituzionali, bilancio e finanze. Ho fatto un controllo sul sito Internet del Senato, dove sono presenti i dati relativi agli Atti parlamentari: non risulta ci sia stata neppure una seduta dedicata all’esame del provvedimento, del quale quindi non è mai iniziata la discussione.

Ho voluto documentarmi con precisione su questo punto. I miei ricordi sono invece più generali e relativi alla situazione politica che determinò l’arenarsi di quel provvedimento, che avrebbe dovuto essere atto preliminare nei confronti dell’operazione di risistemazione dei consorzi agrari e della Federconsorzi. Ricordo che allora parlai di una sorta di riflesso condizionato di natura politica. Agli inizi degli anni ’80 sopravvivevano ancora in maniera assai forte i riflessi delle polemiche di cui le piazze d’Italia erano state testimoni dal 1948 al 1958 e ancora nella campagna elettorale del 1963; polemiche che si riferivano appunto alla famosa questione della Federconsorzi.

Avevo lavorato a Roma per un anno, tra il 1950 e il 1951 (ero abbastanza giovane), come collaboratore di Dossetti, che era vicesegretario della DC. Ricordo che era viva la polemica proprio sul famoso decreto-legislativo n. 1235 del 1948. Sono andato a verificare: in effetti si tratta di un caso di scuola che meriterebbe una tesi di laurea. Il testo di legge era molto complesso e in allegato riportava lo statuto della Federconsorzi e lo schema di statuto dei consorzi agrari provinciali. Questo decreto legislativo fu approvato dal Consiglio dei Ministri il 10 aprile del 1948, otto giorni prima delle elezioni del 18 aprile, e venne promulgato da Enrico De Nicola, a Napoli, il 7 maggio, dopo l’elezione del primo Parlamento della storia repubblicana. Questa decisione, presa in extremis, era stata vista come un tentativo di mettere al sicuro un certo sistema. Parlo delle polemiche di allora con grande distacco, perché si tratta di eventi di mezzo secolo fa, anche se molti dei riflessi di quelle polemiche erano ancora vivi all’inizio degli anni Ottanta.

Ricordo che, durante i Governi Craxi, la posizione del partito socialista era particolarmente critica. Si riteneva che su qualunque riorganizzazione del sistema di vent’anni prima gravasse l’ombra di qualche improprio favore ad un settore che invece andava profondamente riformato. Era la situazione del cane che si morde la coda, perché non si sapeva più da che parte cominciare. C’era poi l’opposizione della sinistra, un’opposizione tradizionalmente dura.

La posizione delle tre confederazioni agricole faceva registrare su questo punto una dicotomia. Le due confederazioni maggiori, quella dei Coltivatori diretti e la Confagricoltura, partecipavano all’amministrazione della Federconsorzi; la terza, invece, era da sempre esclusa da questa partecipazione. Era questo un altro elemento che portava ad una situazione di stallo. Quando feci presente alle confederazioni agricole che forse era il caso che si affrontasse una volta per sempre la battaglia per la riforma del sistema federconsortile, notai grande esitazione. Si temeva, infatti, che il riaprirsi delle polemiche anziché migliorare gradualmente la situazione portasse di nuovo a condizioni di contrapposizione insuperabile.

Quanto a me, avevo preso la vicenda molto sul serio, tant’è che, con decreto del 28 gennaio 1985, quindi nel periodo immediatamente successivo alla presentazione del disegno di legge, ritenni opportuno istituire - cosa che si fa molto di rado - un apposito gruppo di lavoro per assistere il Ministro nella battaglia parlamentare. Ne facevano parte persone particolarmente qualificate, a cominciare dal dottor De Matthaeis, direttore generale del Ministero dell’agricoltura che già si era occupato con impegno dell’intera materia.

In un periodo di tempo molto breve, il gruppo di lavoro presentò una relazione estremamente accurata che, da quel che ricordo, ogni volta che si doveva ricostruire l’intera vicenda, veniva presa come testo di riferimento. Mi impressionò soprattutto il fatto che la relazione fu pronta in meno di un mese. Sottolineo che quella commissione era direttamente legata all’esame parlamentare del disegno di legge n. 2315. Credo di non aver trascurato nulla affinché il Ministero potesse far valere la linea governativa. Ma nonostante ciò, tutto si fermò davanti alla difficoltà parlamentare.

Al Ministro dell’agricoltura si poneva, comunque, il problema di continuare con l’attività amministrativa di esame dei rendiconti, per giungere almeno alla chiusura dei rendiconti stessi e alla loro registrazione da parte della Corte dei conti. A tal fine avevo ricostituito la Commissione consultiva centrale, sempre presieduta da De Matthaeis. Non mancavano i problemi. Il 1° dicembre 1986 firmai un decreto che ha poi avuto una storia complessa. Era il decreto di approvazione dei rendiconti delle due gestioni relative all’ammasso del grano, in base al regolamento comunitario n. 19 dell’aprile 1962, primo e fondamentale regolamento in materia di cereali, emanato in virtù della Politica Agricola Comune prevista dal Trattato di Roma. La vicenda era abbastanza singolare. La campagna si era chiusa nel 1964. La legge impose la presentazione di un rendiconto entro il settembre del 1964, ma i criteri concernenti alcune voci di spesa furono stabiliti dal CIP soltanto nel 1966, due anni dopo. Il CIP stabilì che per le spese di amministrazione valessero limiti forfettari onnicomprensivi. Questo nel 1966. Si arriva al 1984. In base alle previsioni originarie, sarebbero stati necessari cinque anni per approvare tale rendiconto. Invece, erano già trascorsi 18 anni dal 1966 e si erano aggiunte le cosiddette spese di finalizzazione, come erano chiamate tutte le spese successive alla presentazione del rendiconto.

Teniamo presente che, ogni quattro mesi, bisognava rinnovare le cambiali agrarie per ogni conto e che non c’era un unico conto, ma c’erano gli innumerevoli conti dei consorzi agrari, il che comportava rapporti con moltissimi istituti bancari. Inoltre, si doveva assicurare la possibilità di risposta alle richieste di informazioni in sede di ispezioni da parte del Ministero, che negli anni Settanta furono piuttosto numerose. Tutto ciò comportava l’onere di mantenere del personale per portare a termine queste operazioni amministrative.

C’era però l’ostacolo del CIP, che non ammetteva più alcuna spesa. Fu rivolta al CIP una richiesta di riesame. Con grande buonsenso l’allora ministro Piga, presidente del CIP, affermò che era impossibile per il Comitato ricostruire conti risalenti a vent’anni prima. Il CIP invitò invece il ministro dell’Agricoltura a rivolgersi alla Commissione consultiva centrale, che aveva il compito di suggerire delle soluzioni, e ad attenersi al parere della Commissione; cosa che io feci. La Commissione dimezzò le cifre esposte nei rendiconti, perché ammise spese di finalizzazione solo a partire dal 1974, ritenendo che per i sei o sette anni precedenti il CIP avesse già considerato i costi forfettari.

Dopodiché il Ministro del tesoro mi dette l’autorizzazione ed io firmai il decreto, che però nel 1990 non venne registrato dalla Corte dei Conti. È interessante considerare la motivazione del rigetto della registrazione. Si sostiene che, da un punto di vista di fatto, la soluzione adottata sembrava logica, ma che il vincolo della decisione del CIP del 1966 doveva considerarsi assoluto.

Di fronte a questa situazione il Ministro dell’epoca, lodevolmente, contattò nuovamente il CIP che nel frattempo era stato soppresso e aveva visto i suoi compiti trasferiti al CIPE. Il presidente del CIPE esaminò la situazione ed affermò che la questione era senza via d’uscita. Il problema risultava insormontabile e, nel 1995, il ministro Lucchetti firmò un decreto di revoca del mio decreto del 1° dicembre 1987, modificandolo ed eliminando circa due miliardi e mezzo di spese di finalizzazione già riconosciute.

Due anni dopo, iniziò la procedura avviata dalla procura regionale del Lazio della Corte dei conti, con la costituzione in mora delle persone responsabili del mio decreto, a partire dal Ministro firmatario. Sono situazioni che capisco perfettamente, anche se ci avviamo a una distanza sempre maggiore dai fatti; ricordo, ancora una volta, che si tratta di rendiconti dei primi anni ’60.

Riprendo il discorso sulle linee dell’azione governativa negli anni ’80. Nonostante lo scacco politico rappresentato dalla non presa in considerazione da parte della Camera dei deputati del disegno di legge governativo che, nelle intenzioni del Governo e mie, avrebbe costituito l’operazione preliminare per la razionalizzazione del sistema, l’azione del Governo non si arrestò. Quale era l’obiettivo finale che si voleva raggiungere? Ho già detto che la sistemazione dei conti era un passaggio obbligato ma preliminare, perché senza una vera riforma il sistema non avrebbe trovato una sua efficiente collocazione nel mondo della cooperazione agricola italiana. L’obiettivo finale è scritto nel paragrafo 180 del programma-quadro del Piano agricolo nazionale approvato dal CIPE il 1° agosto 1985. Siamo quindi ancora all’interno di una sequenza serrata di tempi.

Il Piano agricolo nazionale del 1985 si legge ancora oggi con interesse, almeno di carattere storico. È costituito da 290 paragrafi e prevede una distinzione delle azioni in materia di agricoltura in orizzontali e verticali. Una serie di interessanti tabelle con annessi grafici è inoltre allegata. Le azioni orizzontali sono dirette al sostegno dell’agricoltura nelle sue infrastrutture di base a cominciare dai rapporti giuridici (si pensi al problema della proprietà contadina) per arrivare poi all’associazionismo in agricoltura e via via alla ricerca e allo sviluppo tecnologico. Sono contemplate una decina di azioni orizzontali.

Per quanto riguarda l’associazionismo, una parte specifica è dedicata alla cooperazione agricola di rilevanza nazionale, mentre un’altra parte concerne le associazioni e le loro unioni. A differenza di altri Paesi, l’Italia ha sempre registrato una bipolarità nell’associazionismo in agricoltura: da una parte le grandi centrali cooperative e dall’altra le associazioni e le loro unioni, sempre con qualche difficoltà nella comunicazione tra i due ambiti.

Per quanto riguarda la cooperazione, che cosa prevede il programma-quadro del Piano agricolo nazionale, concepito come il documento di base della futura legge pluriennale di spesa? Il paragrafo 179 prevede che principio generale dell’azione dei poteri pubblici dovrà essere una finalizzazione e una concentrazione più rigorosa dell’intervento pubblico sui fattori che influenzano direttamente il miglioramento dell’efficienza d’impresa. Sarà questa la linea guida degli interventi finanziari a sostegno della cooperazione. Il documento rileva che l’attuale situazione non soddisfacente deriva anche dall’imprecisione della legislazione e da una pratica di interventi non coordinati, ripartiti tra Stato e regioni secondo criteri approssimativi di distinzione tra iniziative di rilevanza locale e nazionale, e incerti per quanto concerne la differenziazione tra flussi per investimenti, per spese di gestione e per ripiano di perdite. Si impone pertanto un riordino dell’intervento pubblico. L’efficienza dell’impresa cooperativa richiede l’efficienza della spesa ad essa destinata.

Il paragrafo 180 afferma che la legge pluriennale di spesa, che seguirà il piano agricolo nazionale, sembra essere la sede migliore per la definizione dei nuovi criteri di intervento pubblico, a preferenza di un provvedimento specifico che avrebbe finito per coinvolgere questioni più generali e per contrastare con l’evidente esigenza di rapidità. È interesse vitale dell’agricoltura che le imprese cooperative siano economicamente sane e capaci di stare efficacemente sul mercato; le stesse regole di equilibrata concorrenzialità tra i diversi soggetti presenti sul mercato soffrono distorsioni, assai più per effetto delle imprese cooperative che producono perdite e di forme ambigue di sostegno, che per effetto degli incentivi alle imprese sane.

Con quel Piano allora si operava una scelta: anche dopo il blocco del disegno di legge n. 2315, si constatava che rimanevano ancora in campo tutte le questioni che riguardavano i consorzi agrari provinciali e la Federconsorzi e che rischiava di accentuarsi la dicotomia tra associazionismo e cooperazione. Raccolsi allora il parere degli esponenti del mondo agricolo che rappresentavano tutte le confederazioni, non soltanto una o due. La concertazione era a tutto campo. Ho conservato eccellenti rapporti, ad esempio, con il Presidente della confederazione che non apparteneva all’area politica cui appartenevo, mi riferisco a Giuseppe Avolio, che era Presidente della Confcoltivatori.

L’idea comune era di non arenarsi in un provvedimento di legge specifico e di lavorare piuttosto sulla legge pluriennale di spesa. Era quello il suggerimento che mi venne dato, anche al fine di consentire alle associazioni e alle loro unioni di esercitare attività di impresa, che poi era la grande questione che sanciva il primato della Germania, della Francia e della Gran Bretagna, dove le associazioni avevano anche poteri di impresa, mentre nella realtà italiana avevano solamente compiti di rappresentanza.

Si arrivò così alla legge pluriennale di spesa dell’8 novembre 1986, n. 752. L’articolo 4, comma 3, lettera c), e l’articolo 7 introducevano un fondo di rotazione per la ricapitalizzazione delle cooperative sulla base di progetti quinquennali. Ricordo la grande fatica che facemmo per arrivare all’attuazione immediata della legge; erano i giorni intorno al Natale 1986 e assieme alla Ragioneria Generale istituimmo 60 o 70 nuovi capitoli di spesa. Il provvedimento entrò così regolarmente in vigore nel 1987.

Seguì il primo aggiornamento del programma-quadro contenente specificazioni ulteriori in alcune direzioni. Questo testo, a mio giudizio anch’esso importante, è reperibile sulla Gazzetta Ufficiale. Ad esso seguono due circolari applicative molto circostanziate, la prima delle quali era la n. 185 del giugno 1987. Dieci giorni prima che io lasciassi il Ministero – sarei andato a Bruxelles di lì a poco – fu emanata la seconda circolare in data 1° aprile 1988. L’aspetto interessante di queste circolari è che esse contengono analiticamente gli schemi di bilancio. Si cercava di non lasciare nulla al caso o all’improvvisazione, dal momento che il sostegno pubblico era orientato a regole di efficienza, proiettate in direzione del mercato.

Signor Presidente, mi scuso per questa lunga esposizione, ma ho ritenuto opportuno descrivere quanto si è cercato di fare nel corso degli anni Ottanta.

Desidero ancora aggiungere che all’epoca sull’argomento si registrava un fervore notevole di iniziative e di dibattiti all’interno delle strutture ministeriali. Mi arrivavano quotidianamente rapporti sulla situazione dei consorzi agrari nei quali si diceva, ad esempio, che un certo numero di consorzi versavano in gravi difficoltà, tanto da rendere addirittura necessaria la liquidazione coatta amministrativa.

Ho sempre usato molto il metodo dell’annotazione diretta sui documenti e, da alcune annotazioni dell’epoca, emerge chiaramente il mio tentativo di far capire che non ci si poteva fermare soltanto alla denuncia degli inconvenienti. Occorreva muoversi.

Ricordo che il mio Gabinetto mi fece presente che per i consorzi agrari provinciali c’erano difficoltà d’inserimento nello schema della legge pluriennale in quanto, in base all’articolo 34 del decreto legislativo n. 1235 del 1948, era prevista una ripartizione degli utili, il che contrastava con il principio della mutualità che è alla base del sistema cooperativo. Quindi, era necessario un intervento correttivo per eliminare tale difficoltà. Risposi che forse sarebbe bastato introdurre un articolo che abrogasse il decreto legislativo n. 1235 del 1948, dal momento che non c’era più alcuna ragione che facesse sussistere questo sistema di funzioni pubblicistiche. Ma ciò non avrebbe eliminato lo strascico dei conti non liquidati.

Discutemmo a lungo della questione e credo che, se si procedesse ad una ricognizione accurata dei documenti depositati presso il Ministero dell’agricoltura, si potrebbero trovare diversi elementi a conferma di ciò.

Credo di aver detto tutto il necessario. Sono a vostra competa disposizione per qualunque domanda intendiate pormi.

PRESIDENTE. Dottor Pandolfi, innanzi tutto la ringrazio per il quadro d’insieme da lei descritto con tanta precisione; un quadro che parte da lontano ed arriva fino al momento in cui lei subentra alla guida del Ministero dell’agricoltura.

Ritengo particolarmente interessante soprattutto la sua ricostruzione delle iniziative governative. Le domande che intendevo rivolgerle riguardavano proprio l’impegno del Governo per l’eliminazione della partita debitoria derivante dagli ammassi.

Questa risposta lei l’ha già data e pertanto vedremo di approfondire altre questioni. La legge istitutiva della nostra Commissione ci impone di accertare i fatti occorsi nel periodo compreso tra il 1982 e i giorni nostri, essendo ancora attivo, per quanto riguarda la cessio bonorum, il rapporto tra la Federconsorzi e alcune società.

La prima domanda è volta a capire perché i tentativi di risanamento finalizzati a far ripartire "la macchina dell’agricoltura" incontrarono forti opposizioni e, soprattutto, quali erano le ragioni dell’opposizione politica che non consentì il risanamento. Questa domanda, che certamente molti miei colleghi della Commissione condividono, nasce da una constatazione: l’improvvisa cessazione di opposizioni ultradecennali, tant’è che lo scorso anno si è giunti all’approvazione di una legge che stanzia circa 1.000 miliardi per risanare questi debiti del passato.

Pertanto, visto che lei è stato a capo di questo Dicastero negli anni dal 1982 al 1988, vorrei sapere quali furono le motivazioni dell’opposizione politica, al di là dei rigurgiti di vecchie polemiche nate nel dopoguerra.

PANDOLFI. Cercherò di essere più preciso dal momento che lei, giustamente, chiede di conoscere le ragioni del persistere di quelle difficoltà.

PRESIDENTE. Sia le ragioni ufficiali che il retropensiero.

PANDOLFI. Innanzi tutto desidero sottolineare che questo è forse più un compito dello storico e non del politico; tuttavia, non voglio far mancare la mia opinione personale. Lei, signor Presidente, ha giustamente notato il rapido cambiamento di clima subentrato negli ultimi anni. Mi consenta di dire che ancor più sconvolgente è stato il cambiamento di clima determinatosi con il passaggio dalla cosiddetta prima Repubblica al nuovo sistema, attraverso la lunga transizione iniziata con la legislatura del 1992. Ben diversa era la situazione negli anni ’80.

Nel settore agricolo permanevano fattori di rigidità psicologica e politica maggiori che in altri campi. Prima di tutto, proprio perché si trattava del settore agricolo. Il settore industriale, infatti, aveva metabolizzato più rapidamente il mutamento di cultura. Si era passati in maniera più rapida da forme di protezionismo storico a forme di economia di mercato perché il continuo confronto con la realtà di mercato aveva favorito il cambiamento e l’aggiornamento delle opinioni. Pensiamo a quanto accade oggi nell’epoca della new economy e con quanta rapidità, forse anche eccessiva, ci si trova in contesti e comportamenti nuovi. Il mondo agricolo, invece, è sempre stato più lento nell’assorbire i mutamenti.

Inoltre, lo stesso avvento della Politica Agricola Comune non ha certo giocato in favore di una evoluzione nelle abitudini e nei comportamenti. Con il trasferimento in sede comunitaria di gran parte delle decisioni relative all’agricoltura, talune questioni interne sono apparse come un pesante fardello del passato e non più affrontate come un elemento legato necessariamente allo sviluppo dell’agricoltura. Una seconda ragione, quindi, va individuata nello spostamento del baricentro, per cui certe questioni hanno assunto sempre più il carattere di problemi residuali, rimossi ma non risolti.

Terzo elemento da considerare è la dialettica politica. Su certe questioni, negli anni Ottanta, ho assistito al riaccendersi degli animi, anche se in forme molto diverse da quelle di trent’anni prima. Da ambo le parti permanevano sospetti e il timore che l’iniziativa dell’altro potesse non coincidere più con l’interesse generale del sistema. Era questa la situazione di fatto.

Aggiungo, come ultima annotazione, che il potere delle confederazioni generali agricole all’epoca era ancora molto forte e quindi, in qualche maniera, permaneva una speciale sensibilità del mondo politico sulle questioni che stavano a cuore alle confederazioni. Io ero considerato un tecnico, quindi senza un vincolo troppo stretto di provenienza politica. Ma che esistessero in generale legami con le varie forze politiche e vi fosse la tendenza al perpetuarsi di contrapposizioni, che per la verità avevano più le giustificazioni che avevano in un contesto passato, è indubbio.

Ho cercato di darvi alcune motivazioni delle difficoltà di allora, ma credo che ognuno possa legittimamente avere la propria opinione.

PRESIDENTE. Da una rassegna stampa dell’epoca rilevo alcune notizie. Mi riferisco in particolare a una intervista del 1° settembre 1987 in cui Ella sostiene che i tempi sono maturi per una riforma della Federconsorzi e che si tratta di affrontare un nodo antico, che è essenzialmente un nodo politico. Nell’intervista in particolare si sostiene che a essere mature per la riforma sono soprattutto le associazioni.

Analoghe affermazioni provenivano dall’onorevole Lobianco, il quale avrebbe dichiarato che le tradizionali attività dei consorzi agrari non bastano più e non sono più remunerative ai fini di una sana ed efficiente attività economica.

Le chiedo allora chi si opponeva a queste trasformazioni in termini più moderni di questo tipo di rapporti, soprattutto alla luce di quanto ha dichiarato qualche giorno fa lo stesso Lobianco in questa sede. Egli infatti ha sostenuto che aveva dato avvio ad una sorta di emancipazione della Coldiretti nei confronti del partito politico che più era vicino a quella organizzazione, vale a dire la Democrazia cristiana. Nelle sue parole sembra di leggere una sorta di avversione del mondo democristiano verso questa emancipazione della Coldiretti. Le chiedo allora se erano resistenze tradizionalmente politiche o se vi erano, anche all’interno del mondo politico che era più vicino alla Federconsorzi e alla stessa Coldiretti, delle resistenze interessate alla conservazione del vecchio sistema.

VENETO Gaetano. In primo luogo vorrei intervenire sull’ordine dei lavori, in quanto lei, signor Presidente, ha un elenco di domande da rivolgere all’onorevole Pandolfi rispetto alle quali noi potremmo intervenire solo successivamente. Fra l’altro lei ci ha inviato una lettera, in relazione al cui contenuto stiamo cercando di trovare una soluzione come Gruppo, al fine di collaborare maggiormente con la Presidenza. Ricordo allora che oggi alle 15 si vota alla Camera dei deputati dove questa mattina è già mancato due volte il numero legale. Come è noto, alla Camera dei deputati abbiamo equilibri di numeri, relativi alle presenze, più delicati. Devo pertanto allontanarmi alle 15.

Per quanto riguarda il Gruppo DS, chiediamo di essere informati alcuni giorni prima circa le domande che lei predispone per evitare di essere semplici spettatori per un’ora e aggiungerci - laddove possibile - solo alla fine con le nostre domande. Ricordo inoltre che la Commissione antimafia martedì prossimo è impegnata in una missione a Bari, dove si sono avuti avant’ieri quattro morti a causa di episodi di contrabbando. Sono un parlamentare di Bari e quindi le chiedo di spostare la riunione dell’Ufficio di Presidenza di questa Commissione, che dovrebbe essere prevista per martedì, ad altro giorno. Il Ministero dell’interno del resto ha chiesto l’intervento urgente della Commissione antimafia proprio per la giornata di martedì.

Tornando alle domande da rivolgere all’onorevole Pandolfi, sottolineo che lei ha dichiarato di essere stato sorpreso allora, e di esserlo ancora adesso, per come si svolsero le vicende. Ma non riteneva suo dovere sollecitare affinché il disegno di legge non rimanesse nei cassetti per tanto tempo? C’erano pressioni tali da parte della Coldiretti o di altri gruppi da riuscire a bloccare quelle discussioni? Qui non si tratta di fornire un’opinione storica, questa è una Commissione d’inchiesta con poteri giudiziari. Non siamo degli storici, bensì dei politici e in questo contesto abbiamo poteri equiparabili a quelli dell’autorità giudiziaria.

Lei ha inoltre affermato che, con una certa operazione, nel 1987 si sarebbe forse potuto limitare il flusso di passività che si aggiungeva a una gestione già morta negli anni ’60 che si trascinava in modo non chiaro. È mai possibile che le direzioni generali del suo Ministero non le sollevassero il problema? Ed è possibile che lei, onorevole Pandolfi, non si ponesse il problema che la pubblica amministrazione si stava caricando di ulteriori passività senza alcun corrispettivo in termini di efficienza? Oppure l’apertura al mercato europeo permetteva allo Stato di sperperare migliaia di miliardi?

PRESIDENTE. Devo una risposta all’onorevole Gaetano Veneto. Credo di aver già dato prova di aver agito secondo la massima trasparenza. Tutte le audizioni sono state precedute da Uffici di Presidenza, mentre i nostri uffici sono stati sempre a disposizione di ciascun commissario per fornire tutto il materiale che abbiamo raccolto. Mi sono inoltre permesso di sollecitare una maggiore presenza e una maggiore collaborazione, da parte di ciascun componente della Commissione, che può peraltro usufruire dell’ausilio dei nostri consulenti, di cui io stesso mi sono avvalso nel preparare queste domande.

I nostri impegni ci fanno correre dalla mattina alla sera e richiederebbero una sorta di ubiquità, ma proprio per questo abbiamo dovuto predisporre questa programmazione dei nostri lavori. Per quanto riguarda l’impegno di martedì prossimo, ricordo che l’Ufficio di Presidenza della Commissione antimafia ha deciso di recarsi a Bari non impegnando i commissari in questa missione. Naturalmente per lei il caso è diverso, essendo un parlamentare di quella città. Martedì comunque non sarà convocato l’Ufficio di Presidenza della nostra Commissione, ma è prevista una seduta del plenum per procedere all’audizione dell’ ex sottosegretario Noci.

Da parte mia ho aspettato a rivolgere domande all’audito per verificare prima se altri colleghi volessero intervenire; in caso di sovrapposizione delle domande, avrei sottratto le mie dall’elenco già predisposto. Invito ora l’onorevole Pandolfi a fornire le risposte alle nostre domande.

PANDOLFI. Comincio dalla prima domanda del Presidente per passare successivamente alle domande dell’onorevole Gaetano Veneto.

La prima questione che mi è stata posta è la seguente: in presenza di una situazione di stallo parlamentare nell’esame del disegno di legge da me presentato alla fine del 1984, quali furono le misure che il Ministro dell’agricoltura dell’epoca pose in essere per cercare di superare quella condizione? In sostanza, si vuole sapere se ne parlai in seno al Consiglio dei Ministri e quali azioni, dentro o fuori le Aule parlamentari, furono poste in essere.

Rispondo che in tutte le occasioni ho sempre sostenuto la necessità che questa operazione preliminare fosse condotta a termine. Credo anche di aver dimostrato, con decreti ministeriali ed altri atti, che la cosa mi impegnava a fondo, tanto che nominai, come s’è visto, un gruppo di lavoro per essere aiutato e sostenuto in questa battaglia anche sul piano tecnico e giuridico. Mi impegnai a fondo quando si trattò d’illustrare il disegno di legge che avrebbe portato alla legge pluriennale di spesa, anche perché, indipendentemente dalle difficoltà di sistemazione finanziaria del provvedimento, bisognava andare avanti nel risanamento e nell’apertura del settore della cooperazione agricola di rilevanza nazionale.

Ne parlai con i tre presidenti confederali, che all’epoca erano Arcangelo Lobianco, per la Coldiretti, Stefano Wallner, per la Confagricoltura, e Giuseppe Avolio, per la Confcoltivatori. In nessuna sede riscontrai un’opposizione diretta al provvedimento di liquidazione dei conti. Ciò che invece riscontrai fu il fatto che, nonostante l’autorevole presenza tra i parlamentari di esponenti del mondo agricolo che si richiamavano direttamente alle confederazioni, nella Commissione parlamentare competente della Camera dei deputati il via libera, in effetti, non fu mai dato.

Esistevano preoccupazioni di vario genere, tra cui il fatto che la materia avrebbe richiesto maggiori approfondimenti preliminari, giacché risistemare tutta la questione in un sol colpo sembrava uno sforzo troppo grande. Il Ministero si è sempre dichiarato disponibile, tant’è che abbiamo messo a disposizione documenti che forse oggi sarebbero utili anche a questa Commissione per ricostruire la storia di quelle gestioni. Ma chi ha una certa pratica del mondo agricolo sa bene che, nonostante vi fosse una certa concordanza sugli obiettivi di fondo, non era sempre facile trovare sinergie effettive sul piano parlamentare. Lei ha accennato alle mie dichiarazioni del 1987, che confermo e che sono in piena sintonia con quanto ho avuto il privilegio di dire oggi davanti alla Commissione da lei presieduta. Quanto detto dall’onorevole Arcangelo Lobianco non mi meraviglia. E’ esatto affermare che allora ci fu uno sforzo per sottrarre a canoni di lotta politica stretta la linea della Confederazione dei coltivatori diretti. Su questo non c’è il minimo dubbio. Tuttavia, avendo partecipato alla vita parlamentare per sei legislature, desidero sottolineare che quando alcune questioni non riescono a trovare in generale un terreno favorevole in Parlamento, è difficile che un disegno di legge specifico arrivi a compimento. Quanti provvedimenti sono rimasti bloccati in Parlamento senza arrivare al termine? Non mi sentirei, nella maniera più assoluta, di attribuire a comportamenti, che non fossero di carattere politico, l’espressione del parere che mi veniva da colleghi parlamentari, da altri membri del Governo o da esponenti delle confederazioni agricole. Era la dialettica politica di allora ed era, sostanzialmente, la mancanza di un terreno comune di fiducia. Si temeva che un provvedimento di questo genere riaprisse questioni del passato. Il mio sforzo, quindi, fu quello di cercare di far capire quanto fosse necessario affrontare la questione dal lato tecnico-economico, in quanto risolto tale aspetto si sarebbero poi aperte le altre prospettive. Vorrei ricordare che molte delle disposizioni della legge pluriennale di spesa furono inserite proprio in vista di una possibile apertura sulla questione Federconsorzi. Più di questo non sono in grado di dirvi. Del resto, la lotta politica fa registrare posizioni difformi e credo che in quel caso il giudizio fosse sostanzialmente politico.

Vengo ora alla seconda questione che mi è stata posta, vale a dire se ci fu negligenza da parte degli uffici dell’amministrazione o addirittura se vi furono delle pressioni contrarie alla linea politica del Governo. Il Ministero dell’agricoltura negli anni Ottanta doveva affrontare molte difficoltà. Nel 1985 presentai il primo disegno di legge finalizzato ad una riforma organica del Ministero, che passò solo per la parte relativa all’istituzione dell’ispettorato generale per la repressione delle frodi e soltanto perché ci si trovò di fronte a una situazione di emergenza. Anche in quell’occasione, infatti, il Parlamento non se la sentì di mettere mano alla questione nel suo complesso, anche perché la revisione del decreto n. 616 del 1977 suscitava molte riserve da parte delle regioni. All’epoca, infatti, il rapporto Stato-regioni era ancora completamente definito dalla legislazione del 1977. L’amministrazione del settore agricolo incontrava molte difficoltà anche in termini di adeguatezza degli organici. In proposito ricordo un particolare che meglio di me potrebbe ricordare il dottor Brigati della Direzione generale della produzione agricola, competente in tema di controlli sui consorzi agrari provinciali e sulla Federconsorzi. Mi era stato segnalato che il personale a sua disposizione era insufficiente. Chiamai il direttore generale, Camillo De Fabritiis, il direttore generale del personale, dottor Masi, e in serata telefonai al dottor Brigati chiedendogli di venire il giorno dopo nel mio ufficio per affrontare la questione del personale. Egli mi disse che la situazione era difficile, quasi insostenibile e ci fu uno scambio secco di opinioni. La mattina dopo continuammo la discussione nel mio ufficio. Si stabilì di procedere ad un rafforzamento immediato del personale da effettuarsi sottraendo forze a settori meno prioritari e mettendo a disposizione del dottor Brigati otto persone tra cui due funzionari di grado elevato e tre di livello intermedio. Certamente l’amministrazione non versava in condizioni di splendida efficienza, ma escludo nella maniera più assoluta che vi siano state delle opposizioni o delle pressioni negative. Semmai, a volte, mi lamentavo del fatto che i rapporti che mi venivano inviati si soffermavano più sulle difficoltà esistenti che su proposte pratiche o soluzioni immediate. Ho cercato di ricostruire nella maniera più fedele possibile l’atmosfera di allora. MAGNALBO’. Le mie domande sono state assorbite da quelle dei miei colleghi, pertanto mi scuso con il dottor Pandolfi ma devo allontanarmi per partecipare all’Ufficio di Presidenza della 1a Commissione permanente. RUBINO Paolo. Essendo lei un "tecnico" di cui abbiamo avuto la possibilità di apprezzare il lavoro nel settore dell’agricoltura, le sue parole meritano attenzione. Continuo però a non capire la storia della Federconsorzi. Sembra sempre che, in questa vicenda, siamo degli stranieri venuti da un altro pianeta che guardano, con distacco storico, eventi che invece si fondano su ragioni sostanziali molto serie.

Mentre lei parlava mi sono segnato alcune domande da porle. In Italia abbiamo avuto dal dopoguerra, fino agli anni ’90, il settore dell’agricoltura sempre gestito dallo stesso partito: tutti i Ministri sono sempre stati democristiani, con una trasmissione quindi di memoria storica, di cultura economica e di proposte politiche in forte e totale continuità. Non c’era nemmeno il rischio di una mancanza di comunicazione o di trasmissione: avevate tutte le condizioni per conoscere bene un problema di questa entità. Se vogliamo capire la storia di questo Paese basta studiarsi bene la vicenda della Federconsorzi. Fino al 1972 fra l’altro abbiamo avuto governi stabili confortati da ampie maggioranze, in grado quindi di assumere decisioni: la maggioranza era in grado di fare ciò che riteneva più giusto. Non c’erano i problemi di oggi e le relative difficoltà nel decidere. In questo Paese abbiamo avuto momenti in cui si è registrato uno scontro durissimo tra opposizione e Governo, in modo particolare tra Sinistra e Governo. Ma quando i Governi erano determinati hanno deciso anche contro l’opposizione di piazza. Ciò è accaduto non solo fino all’inizio degli anni ’80, ma anche oltre; basta pensare alla battaglia sulla scala mobile con milioni di cittadini in piazza e con il Governo che decideva di andare avanti. Su una questione come quella della Federconsorzi, sulla quale si è sviluppata una specifica letteratura (so che era stato scritto un libro che poi è andato distrutto o che comunque è sparito) e a proposito della quale anche uomini di Governo si sono detti cose serie e pesanti, si pongono due alternative: o quanto sosteneva l’opposizione era demagogico e del tutto inventato, ma allora non capisco perché la maggioranza doveva temere di assumere certe decisioni, potendo benissimo andare avanti per confrontarsi nel Parlamento e nel Paese, oppure c’era effettivamente qualcosa e allora nessuno meglio di chi aveva responsabilità di Governo poteva conoscere quella realtà; per parlare più chiaramente, mi riferisco a fatti di malaffare. A meno che non si sostenga che anche nella maggioranza si registravano divisioni, ma non su ragioni politiche, bensì su aspetti morali. Sarei curioso di sapere se c’erano davvero queste divisioni e perché.

Se le differenziazioni non erano politiche, ma di altra natura, in cosa consistevano questi motivi di distinzione? Io posso aver letto, sentito, orecchiato nei corridoi, ma chi ha avuto responsabilità di Governo credo debba dirci qualcosa di più concreto su questa maledetta storia. Se le vicende fossero solo quelle che lei ci ha raccontato non avremmo istituito questa Commissione d’inchiesta. Se siamo arrivati a questo punto, c’è il dubbio che si sia verificata una operazione importante improntata al malaffare. In questa storia allora lei avrebbe avuto delle responsabilità politiche, in quanto uomo della DC e in quanto Ministro in quei Governi. Che idea si è fatto della questione? È convinto che sia tutta maldicenza? Ci aiuti a capire in un senso o nell’altro altrimenti continuiamo a fare la storia della Federconsorzi senza capire le ragioni per cui stiamo lavorando in questa sede.

Si dice inoltre (ma anche questa può essere una favola metropolitana) che i Ministri dell’agricoltura non erano in realtà quelli ufficiali, ma erano quelli che ricoprivano ruoli dirigenziali nelle confederazioni e in particolare nella Coldiretti. La politica agricola e poi agroalimentare non sarebbe allora stata condotta dal Ministro del Governo, bensì dalla Coldiretti e questo sarebbe stato un danno per gli uni e per gli altri. È veramente così? Lei che è stato in quella posizione ritiene sia vera o falsa questa favola? In ogni caso, avendo io letto qualche carta e avendo notato legami e interessi comuni tra le confederazioni e la Federconsorzi, le chiedo quale peso abbiano avuto questi legami. Davvero possiamo credere che quella situazione ebbe un ruolo di freno, di non decisione causando vicende lunghe 20 anni e ancora non risolte? Non ritengo che questo sia credibile e penso vada chiarito bene. Nessuno meglio di chi ha avuto responsabilità di Governo può aiutarci a fare luce sulla questione.

PANDOLFI. Lei mi chiede, onorevole Rubino: è vero che i leaders delle grandi confederazioni guidavano la politica del Ministero dell’agricoltura e che ciò accadeva in particolare per la maggiore delle confederazioni, la Coldiretti, anche tenendo conto che i Ministri in quel settore sono stati democratici cristiani fino al 1990? Vorrei sottolineare due punti in merito. Per quanto riguarda me, ero la persona meno indicata per favorire una situazione simile, dal momento che la mia posizione all’interno del mio partito era sostanzialmente estranea alla vicenda delle correnti. Non sono mai stato legato in alcuna maniera durante la mia vicenda politica al mondo delle confederazioni agricole e in particolare della Coldiretti, con la quale avevo avuto normali rapporti e nulla più. Aggiungo che sono entrato al Governo per la prima volta nel 1976 come Ministro, essendo prima stato sottosegretario nel 1974 perché mi volle una personalità repubblicana, l’onorevole Bruno Visentini, che considero il mio maestro.

Divenni Ministro delle finanze perché era necessario avere uno pratico del mestiere e non certo per ragioni di correnti politiche. Passai al Tesoro per richiesta di Ugo La Malfa, come è ben documentato, e non su iniziativa del Presidente del Consiglio o del mio partito. Non ebbi un particolare sostegno da parte del mio partito in occasione delle vicende che portarono alla formazione del Governo Cossiga, quando mi venne affidato l’incarico nel 1979. Ero in pratica considerato un "tecnico", come si diceva allora.

Quindi, per quanto riguarda la mia persona, posso dire che non vi era alcun rapporto di sudditanza psicologica o altro. Ma posso anche dire che non furono mai esercitate su di me pressioni di alcun tipo per andare in direzione contraria o ai miei doveri di ufficio o ad una sana politica per l’agricoltura. Certo; differenze e contrasti ve ne erano. Convengo con lei che la presenza di Ministri dello stesso partito per un lungo periodo non è stato certamente un elemento di vantaggio per quel sano movimento nella politica che si rende possibile meglio in situazioni di alternanza, di ricambio, anche all’interno delle stesse maggioranze parlamentari. Lei mi domanda ancora: è possibile che il Ministro non si fosse reso conto dei motivi reali dell’opposizione a questo disegno, ad esempio, di risistemazione finanziaria del sistema federconsortile? Il Ministro non si è reso conto di cose occulte. Si sono scritte molte cose sulla gestione Federconsorzi. Lei ha accennato ad un libro fantasma, quello di Ferrari Aggradi. Le dico subito che il cosiddetto "libro fantasma" esisteva. Non appena venni a conoscenza della questione chiesi immediatamente al mio direttore generale di recarsi in biblioteca dove trovò il libro; dopo di che provvidi alla sua diffusione. Non sapevo certamente che cosa ci fosse scritto ma, poiché sapevo che esso aveva suscitato tanto rumore, ritenni opportuno metterlo in circolazione. Credo fosse il dottor Pilo colui che mandai direttamente alla biblioteca del Ministero per trovare il libro. Mi ricordo, se non sbaglio, che ne era rimasta solo una copia e che non si sapeva dove fossero finite le altre. Certamente leggevo i giornali e sapevo che molti criticavano la gestione chiusa della Federconsorzi, accusandone la scarsa trasparenza. Tutte le volte che arrivavano i bilanci cercai di verificare il più possibile. Credo d’altronde che siano documentate le osservazioni fatte in quel periodo. D’altra parte, la legge questo mi prescriveva e non altro.

Quanto alla gestione della propria attività, la Federconsorzi era libera di procedere. Non vi era un controllo di merito, ma un controllo di sola legittimità tanto che l’amministrazione controllante prese le sue precauzioni e, per evitare che venissero mal interpretati termini come "approva la tal deliberazione", cominciò ad usarne altri, come "ha preso atto di quella deliberazione". Ciò voleva dire che non vi erano obiezioni di legittimità, ma nessuna approvazione nel merito.


D’altra parte, la legge era così e tutti i pareri ottenuti dai servizi giuridici dello Stato o dall’Avvocatura dello Stato andavano in quella direzione. Non vi era un controllo di gestione nel senso tecnico della parola come si intende oggi civilisticamente; era un controllo di legittimità, di conformità alla legge e, di intesa con il Ministero del lavoro, di conformità agli statuti. Per sapere come questi poteri si esercitavano esattamente in pratica, bisogna sentire i funzionari che praticavano questo controllo ed il Ministero del lavoro.

Da ultimo mi si chiede se la resistenza che si faceva nel difendere il sistema era dovuta a questioni concernenti la liquidazione dei conti; se un tale atteggiamento, cioè, era dovuto alla esistenza di "colossali gestioni di malaffare" come è stato detto.

Signor Presidente, credo che questo sia il compito della Commissione di inchiesta. I Ministri dell’epoca, al di là degli strumenti di legge e di risposta alle richieste di controllo parlamentare (risposte ad interrogazioni) non avevano altro potere. E’ stata istituita una Commissione di inchiesta come questa, che può utilizzare anche strumenti che non sono a disposizione dei Ministeri, per vedere se sussistevano effettivamente elementi negativi. Lei ha ricordato che questa Commissione d’inchiesta si interessa del periodo che va dal 1982 ai nostri giorni. Sono ben lieto di essere io stesso oggetto dell’indagine che questa Commissione conduce, poiché il periodo in cui sono stato Ministro è compreso totalmente in questo quadro.

Questo è quanto posso riferire; se devo esporre invece delle idee politiche, posso farlo ma allora devo parlare della politica di allora, della ricostruzione storica del periodo.

PRESIDENTE. Cerchiamo di stare ai fatti. Mi richiamo a quanto lei sosteneva prima circa la sua abitudine di vergare di suo pugno annotazioni direttamente sugli atti. Vorrei allora ricordarle l’oggetto di questo documento che riguarda la situazione economico-finanziaria dei consorzi agrari provinciali e le chiedo se questa annotazione è scritta da lei.

PANDOLFI. Sì, è la mia calligrafia.

PRESIDENTE. Qui è scritto: "Mi occorre un parere del Gabinetto sui seguenti punti: qual è esattamente la funzione demandata dalla legge a questo Ministero e in che cosa si estrinseca la vigilanza? Qual è la fonte giuridica della formula della presa d’atto? Quali responsabilità discendono a questo Ministero quando si rilevano situazioni largamente diffuse come quelle indicate in questo appunto? Qual è il significato della frase "problema che prima o poi dovrebbe essere affrontato": legislativamente? Amministrativamente? O in altro modo?".

Sembrerebbe che fino a quella data il Ministro non avesse avuto altro modo di sapere quali fossero le funzioni da adempiere rispetto al problema dei consorzi agrari. In seguito ci furono determinazioni amministrative o politiche da parte del suo Dicastero?

PANDOLFI. Sì, confermo che si tratta di una mia annotazione. Ce ne saranno certamente decine di altre, forse anche sullo stesso argomento o su questioni affini. Ero stato incoraggiato a usare il metodo delle annotazioni dal mio primo capo di Gabinetto, Carlo Anelli, che sarebbe divenuto Presidente del Consiglio di Stato, il quale mi precisava che l’annotazione autografa del Ministro, quando si concreta in asserzioni precise, ha valore di atto amministrativo. Il contenuto dell’annotazione è legato al fatto che cercavo di contrastare una interpretazione della funzione di controllo esclusivamente come indicazione al Ministro di ciò che non andava. Richiedevo invece una espressione propositiva, per evitare una dicotomia tra chi esercitava la funzione pratica di controllo e il Ministro che doveva assumere le decisioni. Mi sembra di capire che in quel caso c’era anche una garbata polemica nei confronti del mio Gabinetto che non m aveva fatto pervenire il suo parere sulla questione. Nell’uso amministrativo esisteva la pratica della "tagliatella"; nessun atto poteva arrivare davanti al Ministro senza che il Gabinetto lo avesse corredato del suo parere scritto su una striscia appuntata sopra il documento. In questo caso non mi pare ci fosse alcuna annotazione da parte del Gabinetto e in effetti all’Agricoltura, salvo che per questioni importantissime, gli atti mi arrivavano spesso direttamente dalle direzioni generali. Nel caso nostro si tratta di un documento della Direzione generale della produzione agricola. Bisognava capire se occorreva intervenire a livello amministrativo o legislativo; in questo secondo caso sapevo benissimo quali sarebbero stati i problemi da affrontare, poiché ho avuto tanti difetti ma non quello di non frequentare a sufficienza il Parlamento.

Sollecitavo dunque il Gabinetto e i giuristi che ne facevano parte a mettermi per iscritto qualche proposta concreta, dal momento che ci trovavamo nella fase in cui si stava ragionando su come arrivare a un nuovo ordinamento della Federconsorzi. Ho già ricordato, in proposito, gli articoli del Piano agricolo nazionale, che sono di mio pugno. Ho già detto che ero stato incoraggiato a non procedere con una legge speciale per la cooperazione, ma ad utilizzare la legge pluriennale di spesa e che un orientamento in tal senso era venuto proprio dai tre Presidenti delle confederazioni agricole. Certo, con la propria burocrazia - anche perché si vive insieme dalla mattina alla sera - c’è sempre qualche motivo di insoddisfazione o qualche pretesa forse eccessiva da parte del Ministro. Alla direzione generale chiedevo che non si limitassero a segnalare i problemi: volevo proposte concrete, volevo che mi venisse ribadito il significato della cosiddetta presa d’atto, che rappresentava un puro controllo di legittimità e non un controllo di gestione. PRESIDENTE. Lo consideriamo un rimprovero nei confronti di una inefficienza? PANDOLFI. Non si trattava di inefficienza. Intendevo spronare i collaboratori affinché l’esame delle questioni arrivasse più vicino a una dimensione operativa. Tra l’altro, questa calligrafia è più nervosa di quella mia solita ed evidentemente documenta la situazione psicologica del momento.

PRESIDENTE. Il fatto che la classe burocratica assolvesse i suoi compiti scaricando sul tavolo del Ministro una relazione con la quale sosteneva che tutto andava male spinse il Ministro a interrogare i burocrati stessi per farsi dare i suggerimenti del caso? PANDOLFI. In questo caso non c’è nessuna censura del loro comportamento, ma avevano bisogno di essere stimolati a compiere uno sforzo propositivo.

PRESIDENTE. Ma questi interrogativi sono stati soddisfatti?

PANDOLFI. Certo: in seguito mi sono arrivate pagine di risposta. Il documento porta la data del 14 gennaio 1987. Nel novembre 1986 era stata approvata la legge pluriennale di spesa. Fu svolto un grande lavoro per predisporre la delibera del CIPE prevista dalla legge, una delibera composta da decine di pagine. Alti funzionari della Ragioneria generale dello Stato in quei giorni lavoravano stabilmente con me e con i direttori generali del Ministero. Entro gennaio inoltre bisognava preparare il primo aggiornamento del programma-quadro, dove andava scritto il modo in cui si sarebbe proceduto, sulla base della legge pluriennale, alla risistemazione del mondo della cooperazione.

Il mio affanno derivava dal fatto che ritenevo necessario un intervento più forte dell’amministrazione in quella fase così creativa. Ricordo benissimo che quello fu un periodo molto intenso: un lavoro delicatissimo, per esempio, fu la stesura integrale delle voci di bilancio delle cooperative, elaborata anche ricorrendo a competenze esterne all’amministrazione. Ecco perché ritenevo insufficiente un rapporto che semplicemente dicesse che 15 consorzi avevano avuto una situazione difficile di carattere finanziario o che 4 di questi erano entrati in liquidazione coatta amministrativa. Mi premeva assai più guardare avanti. Sottolineavo anche il fatto che, se fatti di illegittimità si fossero presentati, allora si sarebbero dovuti evidenziare con precisione.

OCCHIONERO. Onorevole Pandolfi, non intendo entrare nel merito della sua gestione come Ministro dell’agricoltura o dei suoi rapporti con le organizzazioni nonché dell’influenza che Ella ha avuto nella gestione dell’attività politico-agricola.

Allora lavoravo alla Confcoltivatori e vorrei, pertanto, porle delle domande non so se appropriate e pertinenti. Lei si pose il problema di come rimettere a posto i conti della Federconsorzi e rilanciarne l’attività. Disse che era stato previsto un provvedimento nel 1956 che sanò le gestioni pregresse dal ’49 al ’54 ma che i conti in sospeso dal 1954 in poi (sapone, soia e quant’altro) ammontavano a circa 2500 miliardi. Istituì anche un comitato, con la presidenza di De Matthaeis, che lo aiutasse a vedere le carte, istruirle e proporre soluzioni. Credo che la relazione De Matthaeis non sia stata molto dissimile dalla relazione del ’64 dell’allora ministro dell’agricoltura Ferrari Aggradi, in cui veniva evidenziata non un’azione fraudolenta ma una doppia contabilità, una interna ed una esterna, che ingrossava le richieste nei confronti dello Stato su situazioni certamente non lineari, non trasparenti, non legali. Il clima politico del Paese era notevolmente mutato; basti pensare che durante il primo Centro Sinistra degli anni 1963-64 i socialisti chiesero di chiudere la partita della Federconsorzi e trovare una soluzione. L’allora Presidente del Consiglio, onorevole Moro, istituì una Commissione d’inchiesta e la relazione Ferrari Aggradi - che circolava negli archivi del Ministero dell’agricoltura - ne era la conseguenza. Essa non ebbe continuità poiché, oltre alla doppia contabilità, si evidenziò con molta forza la responsabilità politica di altri Ministri dell’agricoltura. Nel frattempo dopo gli anni ’70 cambiò il clima nel Paese e nel mondo agricolo. Non mi ricordo se a Chianciano, o in un’altra città, nel 1985 la Coldiretti tenne il suo Congresso nazionale.

Premetto che, nelle elezioni prima del 1983, la Coldiretti aveva un gruppo autonomo all’interno della Democrazia cristiana di circa 50 deputati. Con le elezioni dell’83 il gruppo si restrinse. Credo che ne rimasero meno di 30. Nel Congresso di Chianciano la Coldiretti scelse la strada, anche se timida, dell’autonomia dalle forze politiche. Ciò portò ad un confronto ed a legittimare la presa di posizione nel 1987 del Presidente Lobianco; contemporaneamente, però, credo che per le elezioni politiche dell’87 la parola d’ordine della Coldiretti era che i partiti si dovevano guadagnare i voti, puntando sul programma dell’agricoltura e sull’attenzione che le forze politiche avevano nei confronti del mondo agricolo. Ci fu - non voglio usare il termine ribellione - una presa di posizione autonoma dei presidenti regionali della Federconsorzi tendente a non riconoscere l’autorità nazionale che veniva rappresentata dal Presidente della Coldiretti. Nacque allora la necessità da parte di Lobianco di avanzare, oltre alla necessità di una evoluzione politico-culturale della sua organizzazione, l’ipotesi di commissariare la Federconsorzi più che mai per governarla in senso unitario. Per fare questo occorreva il commissariamento ed il ripianamento dei debiti.

Leggo così, dopo la sua iniziativa, il fatto che i gruppi parlamentari, in modo particolare al Senato, non abbiano mai discusso il provvedimento relativo al risanamento. All’interno del mondo politico, in particolare della Democrazia cristiana, vi fu un’opposizione silente ma chiara al tipo di riorganizzazione del mondo agricolo proposto dalla Coldiretti.

Le chiedo pertanto in base a quali calcoli i suoi uffici considerarono che l’esposizione dello Stato nei confronti della Federconsorzi era di 2515 miliardi di lire; se come Ministro (ma mi riferisco alle strutture del Ministero) si è basato sulla convinzione generale, ma suffragata dalle relazioni di Ferrari Aggradi e di De Matthaeis, che i conti erano sostanzialmente gonfiati a dismisura e che non corrispondevano alla realtà; se era a conoscenza di alti funzionari dello Stato che parlavano di frode (di 350 miliardi per la soia; di 4,500 miliardi per l’olio e via di seguito); quindi da cosa fu spinto costantemente, nell’ambito della sua legittima autorità che gli veniva riconosciuta, a trovare accorgimenti per risanare una situazione difficile.

Infine, il patrimonio della Federconsorzi era tale e tanto che questa poteva essere risanata con provvedimenti non solo legislativi ma di attenzione amministrativa. Come giustifica la procedura seguita per fare in modo che la Federconsorzi venisse consegnata o regalata ad un gruppo di banche che aveva la funzione di erogare crediti e di stringere i cordoni ma che rispondeva – e ancora lo fa – a logiche di potere che allora venivano ben identificate in personaggi politici del suo partito?

PANDOLFI. Mi atterrò alle tre domande che lei ha posto alla fine della sua esposizione.

La prima: quali calcoli portarono gli uffici del Ministero dell’agricoltura a "cifrare" in 2.515,5 miliardi le occorrenze finanziarie? OCCHIONERO. Chiedo scusa, ma vorrei aggiungere una notazione. Chiedo se le scelte conseguenti al fallimento della Federconsorzi non trovassero non solo il mondo politico ma anche la Banca d’Italia e il Ministro del tesoro compiacenti a questa soluzione.

PANDOLFI. La prima domanda: in base a quali calcoli si è arrivati a quantificare in 2.515,5 miliardi le occorrenze finanziarie necessarie per ripianare i debiti dello Stato nei confronti del sistema dei consorzi agrari provinciali e della Federconsorzi?

Se interpreto bene, sostiene che questi conti, così come sono stati approvati, sarebbero gonfiati a dismisura?

OCCHIONERO. E’ così.

PANDOLFI. Lo devo escludere con tutta la forza che una dichiarazione impegnativa può avere.

Potevano esserci altri inconvenienti, operazioni sbagliate, una gestione inappropriata dell’ingente bilancio della Federconsorzi, ma tutto ciò, lo ripeto, era completamente fuori della possibilità di controllo e d’analisi, perché quello ministeriale era esclusivamente un controllo di legittimità.

Che queste cifre, uscite dai calcoli dei Ministeri del tesoro e dell’agricoltura e dalle verifiche della Corte dei Conti e che erano alla base del disegno di legge n. 2315, fossero gonfiate; che, con la complicità dei funzionari ministeriali, si andasse in Parlamento a chiedere l’autorizzazione di spesa per somme senza giustificazione, non fondate su un debito reale dello Stato, è una cosa francamente orribile. Se lei ha qualche elemento o indizio, credo che allora la Commissione d’inchiesta è bene proceda a trecentosessanta gradi. Per quel che mi consta, assolutamente lo escludo, anche perché i funzionari che ho conosciuto e che si applicavano a questa materia avevano indipendenza, autorevolezza e non mi sembravano affatto persone indulgenti o complici di frodi esterne.

OCCHIONERO. Questo significa che la somma di 1.100 miliardi prevista dal provvedimento votato dal Senato alla fine di dicembre non è esaustiva e, quindi, lo Stato e il Parlamento devono aspettarsi la richiesta di altri 1.415 miliardi? Se la somma è esatta, i debiti debbono essere rispettati. Non credo che qualche autorità, banca, istituto, società rinunci facilmente a 1.415 miliardi.

PANDOLFI. Non ho alcuna conoscenza di quanto sia accaduto dopo il 1988, anche perché le vorrei ricordare che per quattro anni avevo anche l’impedimento giuridico ad occuparmi di questi avvenimenti. La mia funzione di vice presidente della Commissione europea, con Jacques Delors, come lei sa, prevedeva un giuramento formulato davanti alla Corte di giustizia delle Comunità europee di non interferire con le questioni interne di alcuno Stato, a cominciare da quello di origine. Quindi al di là di leggere i giornali, altro non potevo fare. Avevo altre responsabilità e non ero neppure più residente in Italia. Quindi non so che cosa sia accaduto dopo. Ma credo che la sequenza dei conti sia "facilissimamente" ricostruibile.

Lei è certo che prima di questo residuo di 1.415 miliardi non sia stato ripianato niente? Credo che presso il Ministero dell’agricoltura la sequenza dei conti anno per anno sia perfettamente ricostruibile: si tratta solo di mettere insieme i documenti contabili e collazionarli in maniera precisa. L’amministrazione che ha quantificato la cifra oggi è la stessa che l’ha fatto agli inizi degli anni ’80; tra l’altro per tutte queste operazioni c’è stata la registrazione della Corte dei conti. Se osservo con quale rigore la Corte dei Conti si è soffermata su 2,5 miliardi di spese di finalizzazione che erano state ritenute valide con mio decreto nel 1987 e non più ritenute valide successivamente, se tanto mi dà tanto, devo dire che i controlli sono stati non solo precisi ma anche giustamente puntigliosi.

Alti funzionari dello Stato hanno dichiarato che c’erano frodi e altre irregolarità? Benissimo; sarebbe stata loro responsabilità pro tempore, anche in base allo stato giuridico dei dipendenti dello Stato, segnalare tutto all’autorità giudiziaria. Non so cos’altro dire per fatti che si riferiscono agli anni ’60 del secolo appena trascorso.

Inoltre, lei mi ha posto due domande su avvenimenti recenti, in particolare sul ruolo di un certo gruppo di banche. Più di quello che ho letto sulla stampa non so. Devo dire soltanto che quando è stato emanato il provvedimento di commissariamento della Federconsorzi, adottato dal ministro Goria nel 1991, mi trovavo a Bruxelles e non ebbi alcun elemento diretto o indiretto per sapere quali erano esattamente le motivazioni, oltre a quanto letto sui giornali. Quindi, signor Presidente, dopo la mia uscita dal Governo nel 1988 non ho più avuto alcuna informazione che possa essere utile al lavoro di questa Commissione.

ALOI. Signor Presidente, sollevo ancora una questione sull’ordine dei lavori, perché mi rendo conto che, se le prossime riunioni verranno tenute in questa maniera, finiremo, alla fine, per partecipare in una o due persone, anche se poi si possono leggere i resoconti.

Voglio partire dalla parte finale della risposta dell’onorevole Pandolfi, relativa a Goria. Lei dice di non poter conoscere, ovviamente, le motivazioni che lo hanno indotto a procedere a quella operazione di commissariamento della Federconsorzi. Questo è un dato; però qualcuno intervenuto in queste audizioni ha compiuto una strana manovra: ha scaricato sull’onorevole Goria, che non può parlare, le responsabilità anche di quella operazione.

Mi rendo conto che l’interpretazione autentica di ciò che ha pensato e ha fatto avrebbe potuto darla solo Goria stesso, che non c’è più; però le deduzioni di ordine politico dovremmo trarle da noi stessi.

Lei ha fatto un po’ lo storico della vicenda e l’abbiamo seguita nei diversi passaggi della sua analisi storica. Lei ci ha indicato due momenti importanti: il primo, il suo disegno di legge del 1984 e, il secondo, il decreto del 1985 con cui lei, se non vado errato, ha costituito un gruppo di lavoro. I due momenti sono strettamente connessi.

La domanda che pongo sintetizza tutti questi passaggi. Vorrei una sua chiave di lettura politica e un’interpretazione autentica. A proposito del disegno di legge del 1984 parla di riflesso condizionato di natura politica. Qual è l’elemento che ha determinato questo riflesso condizionato di ordine politico?

In questo credo sia la chiave di lettura di tutto. Noi siamo fortemente preoccupati, lo dico con franchezza. Ci rendiamo conto che le sue responsabilità riguardano il periodo in cui lei è stato Ministro ed ha avuto competenze specifiche ma arrivano fino ai nostri tempi per i riflessi sugli avvenimenti storici successivi. Nel momento in cui lei iniziato la sua attività di responsabile del Dicastero dell’agricoltura fino alla fine, quale era, secondo lei e con molta onestà intellettuale, il dato vero ? Veramente lei ritiene che le varie associazioni di categoria che si sono mosse, gli uomini politici delegati a certi compiti sono riusciti ad impedirle che quel provvedimento, che doveva fare chiarezza sulla situazione, andasse in porto? Lei ha tentato di trovare giustificazioni parlando di normale dialettica politica. Credo, però, che possa esserci dell’altro che ci ha impedito, fino ad oggi, almeno per quanto riguarda la mia capacità di interpretazione, di andare alla radice del problema.

PANDOLFI. Lei, con molta eleganza, mi invita ad andare più nel concreto sulla questione delle ragioni che hanno impedito ad un disegno di riorganizzazione, di ristrutturazione e di rilancio del sistema consortile in Italia di andare in porto nel corso della nona legislatura. Le rispondo che si tratta, secondo me, di ragioni esclusivamente politiche.

Si è accennato, ad esempio, alla evoluzione della posizione della Coltivatori diretti, che in una prima fase era forse più appiattita sulle posizioni della Democrazia cristiana e, che poi negli anni 1986-87 ha preso maggiore autonomia ed ha anche condotto, con un altro timbro, la campagna elettorale del 1987. Ciò corrisponde al vero.

Nella legislatura iniziata nel 1983, però, alcune incertezze negli orientamenti decisionali della Confederazione effettivamente esistevano. Lei ha ricordato l’esistenza di una cinquantina di deputati che formavano, per così dire, il gruppo parlamentare della Coldiretti. E’ vero: come Ministro dell’agricoltura li conoscevo bene; tra loro, il Presidente della Commissione Agricoltura della Camera dei deputati, Campagnoli. Vi era poi l’opposizione, il cui linguaggio su questo argomento era molto duro. Ma riuscivo a collaborare utilmente anche con gli esponenti dell’opposizione. Ottima era, a livello di assessori regionali, la collaborazione sui due versanti: da Ceredi dell’Emilia Romagna, a Vercesi della Lombardia. Ma su questioni, come quella della Federconsorzi, che evocava la guerra fredda, gli anni ’50, il ruolo degli Stati Uniti d’America il confronto era molto difficile. Questa è la verità. Chi stava a sinistra allora guardava alla Federconsorzi come alla roccaforte di un potere non trasparente.

D’altra parte, le autorità ministeriali avevano un potere di controllo di legittimità: e mi domando quando mai un controllo di legittimità potrebbe, ad esempio, preservare una grande società multinazionale da qualche catastrofe finanziaria dovuta ad operazioni sbagliate. E’ l’analisi di merito che conta per sapere se una gestione funziona. Per riassumere, l’opposizione era ancora prevenuta circa le ipotesi di sistemazione del mondo federconsortile; le confederazioni di parte governativa, soprattutto la Coldiretti, a loro volta temevano che, se il Parlamento fosse entrato su tali questioni, si sarebbero riaccese polemiche non necessarie. Tutti erano in attesa che si verificassero situazioni diverse: si è accennato alla svolta di Chianciano della Coldiretti; ma ciò è maturato quando la mia permanenza come Ministro dell’agricoltura era finita. Tuttavia, un campo di atterraggio perché l’aereo potesse planare senza disastri e ridecollare era stato predisposto: la legge pluriennale di spesa, le decisioni per la cooperazione di rilevanza nazionale potevano essere utilizzate e credo che lo siano ancora perché la legge n. 752 è ancora in vigore; il che vuol dire che era una legge che aveva una sua validità. Mi costò molta fatica e molta passione.

Al di là di aver apprestato un quadro dei conti, servito anche dopo, ed uno strumento legislativo per un rilancio effettivo, non riuscii a fare altro. Confesso i limiti della mia azione di Governo in quella fase; l’unica cosa che escludo è che vi siano state compiacenze dovute ad intese politiche non lineari. Credo anche di aver mostrato imparzialità nei confronti delle tre grandi associazioni del mondo agricolo, relativamente ai problemi che mi venivano rappresentati dai leaders del mondo agricolo.

PASQUINI. L’onorevole Pandolfi si è più volte soffermato sul fatto che il Ministero dell’agricoltura esercitava un controllo di legittimità.

Prima di addentrarmi in quest’argomento vorrei soffermarmi su cosa era la Coldiretti negli anni potenti e se un Ministro dell’agricoltura potesse mai esercitare un controllo diverso da quello di legittimità nel momento in cui la Federconsorzi era così potente: sono stati ricordati i cinquanta deputati democristiani; si potrebbero ricordare anche i Ministri che erano espressione diretta della Coldiretti o della Confagricoltura, fatta eccezione per l’onorevole Pandolfi, che non lo era anche se certamente godeva del gradimento della Coldiretti prima di essere nominato Ministro dell’agricoltura.

Dalle testimonianze e dall’esame dei documenti si evince che, anche in virtù della legge istituzionale del ’48, in modo ambiguo vi era nell’ordinamento una specie di mostro a due teste: "una pubblica e una privata". Era privata quando si trattava di rendere i conti; era pubblica quando si trattava di svolgere funzioni pubbliche.

Successivamente al 1987, quando il potere della Federconsorzi si indebolisce notevolmente ed anzi si fanno sempre più pressanti le condizioni di uno stato di crisi all’interno dell’organizzazione, a quel punto – magari non saranno successi durante l’incarico del ministro Pandolfi, ma successivamente o precedentemente o forse durante – vi sono una serie di comportamenti del Ministero che fanno capire che, in realtà, vi era un controllo di merito. Cito alcuni elementi. Ci sono molte relazioni degli uffici che denunciano una situazione estremamente grave dal punto di vista economico-finanziario. Questa non mi sembra un’osservazione di legittimità.

Nel 1988-1989 si affida l’incarico per la predisposizione di un piano di ristrutturazione del sistema federconsortile ad una società di consulenza esterna. Evidentemente a quel punto non c’era più un controllo di legittimità.

Potrei anche ricordare che negli ultimi tempi, sotto la direzione del dottor Pellizzoni e anche durante il commissariamento, ci furono incontri con i funzionari del Ministero dell’agricoltura per "rendicontare" e conoscere il parere sui piani di riassetto, ristrutturazione e riorganizzazione.

Vorrei conoscere dal ministro Pandolfi un parere in merito.

Credo che il discorso del controllo di legittimità, nel momento in cui la Federconsorzi era così potente, era come rifugiarsi dietro ad un ostacolo che in realtà non esisteva. Anche se non dubito che ci siano degli autorevoli pareri degli uffici legislativi dei Ministeri favorevoli al solo controllo di legittimità, i poteri affidati al Ministro - che sono anche quelli del commissariamento, della liquidazione coatta amministrativa, della presenza di rappresentanti del Ministero dell’agricoltura nei collegi sindacali, il fatto che ogni delibera del consiglio d’amministrazione fosse sottoposta all’esame del Ministero dell’agricoltura - sono la testimonianza che la legge, correttamente interpretata, almeno negli intenti, non prevedeva il solo controllo di legittimità. Tanto è vero che quando il potere della Federconsorzi diminuì, perché all’interno stava scoppiando una crisi sempre meno controllabile, a quel punto il Ministero dell’agricoltura in modo tardivo, in presenza di una situazione sicuramente irreparabile, cominciò timidamente a svolgere quella funzione di controllo sul merito che avrebbe dovuto svolgere anche prima.

Chiedo all’onorevole Pandolfi se durante il suo mandato ha dovuto fare i conti con una lettura di questo genere e se, tutto sommato, la condivide oppure no.

PANDOLFI. La ringrazio di queste domande perché mi consentono alcune aggiunte e precisazioni.

Una premessa. Lei ha riconosciuto che non provenivo dalla sfera vera e propria della Coltivatori diretti. Per carità, ho fatto politica - ormai ho lasciato la politica attiva - fino dagli anni della Resistenza e molte volte mi sono trovato a lavorare insieme agli uomini della Coldiretti. Non rinnego nulla di questo mio passato. Ma sono stato nominato Ministro dell’Agricoltura non per ragioni di affiliazione. Presidente del consiglio era l’onorevole Craxi e segretario politico del mio partito l’onorevole Piccoli: credo di aver avuto il consenso sia dell’uno che dell’altro quando sono stato incaricato di quella responsabilità. Provenivo dal Ministero del tesoro e da quello dell’industria, c’erano problemi a livello comunitario, c’erano anche questioni che esigevano una certa "tecnicalità"; queste probabilmente sono state le ragioni per il mio incarico.

Però debbo ripetere che durante il mio mandato al Ministero dell’agricoltura non ho mai ricevuto pressioni e richieste per fare alcunché di illegittimo.

Venendo alla questione Federconsorzi, non mi è mai stato rappresentato alcun problema che riguardasse la sua concreta gestione. Da quel che si è letto, ma anche da quel che si sapeva, il bilancio della Federconsorzi aveva tutta una parte relativa ad investimenti immobiliari (alcuni buoni, altri meno buoni, altri ancora cattivi), ma di tali questioni non ho mai sentito parlare per ragioni d’ufficio.

Lei ha parlato di merito e di legittimità: ripeto, le questioni di merito erano esclusivamente demandate al consiglio di amministrazione della Federconsorzi. Il codice civile, dagli articoli 2542 a 2545, è esplicito; sono le leggi speciali che stabiliscono la tipologia dei controlli sulle società cooperative ed esiste una legge speciale, la n. 1235 del 1948, che stabilisce che il Ministero vigilante può sospendere l’autorizzazione all’esecuzione di deliberazioni o di atti che siano viziati da illegittimità o non conformi a finalità di interesse pubblico. Ma non c’è niente che assimili tali poteri al controllo che effettua un collegio sindacale, che è ben altra cosa. Spettava al collegio sindacale svolgere controlli a norma del codice civile ed effettuare segnalazioni all’autorità vigilante. Questa è la realtà.

Vorrei aggiungere: come si può pensare che negli anni ’80 strutture ministeriali potessero esercitare un controllo di merito su operazioni per migliaia di miliardi ogni anno? Avremmo dovuto mettere in piedi un ministero ad hoc. Lo stesso Ministero delle partecipazioni statali, finché è esistito, non aveva alcun potere di controllo di merito sulle singole operazioni. Certo, c’era l’autorizzazione per alcune grandi operazioni di interesse nazionale, ma per il resto valevano le norme civilistiche, anche perché si trattava di un sistema che prevedeva sì la partecipazione pubblica, ma era basato sul codice civile e non su leggi di carattere amministrativo.

Lo dico, perché non ricordo in tutto quel periodo di aver avuto pressioni per occuparmi dei conti della Federconsorzi. Aggiungo di aver sempre avuto scarse conoscenze dei problemi concreti interni di tale ente. Sono sempre stato alla larga rispetto a problemi come quello dei rapporti della Federconsorzi con il sistema bancario. Chi fa il Governatore della Banca d’Italia o il Ministro del tesoro - come lo sono stato io - sa perfettamente che non deve avere rapporti impropri con il sistema bancario. Ho sempre avuto le mani libere fin da quando, nel 1978, mi toccò affrontare la prima ricapitalizzazione della storia del Banco di Napoli per situazioni interne gravi e difficili. Mi sentivo completamente libero in queste genere di problemi.

Pertanto, l’ultimo mio pensiero era conoscere in forma diretta o indiretta che cosa stesse accadendo negli affari interni di enti sottoposti al controllo di legittimità del Ministero dell’agricoltura. Tutto ciò era completamente fuori dal mio orizzonte, anche per un certo senso di puritanesimo politico al quale ho sempre cercato di improntare la mia attività politica. Mettere le mani in queste vicende era secondo me non soltanto inopportuno ma alla fine anche illegale, perché i Ministri dovevano fare altre cose e non questo. All’autorità di governo spettava predisporre proposte di legge per cambiare il sistema. In questa logica ho formulato il disegno di legge n.2315, nel quale ho messo un grande impegno, e la legge pluriennale. Questo deve fare un Ministro, che esercita con il Governo l’iniziativa legislativa rispetto alle Camere; non lagnarsi o conoscere per vie traverse cosa stia accadendo negli interna corporis di enti sottoposti al controllo. Questa è sempre stata la mia linea e non ho alcuna ragione per sostenere oggi tesi diverse.

Riguardo agli avvenimenti successivi, ho cercato di occuparmene il meno possibile. Al di là di quello che sa e pensa un cittadino che si preoccupa delle vicende politiche del suo paese, in questi campi non ho mai fruito di informazioni privilegiate derivanti dal fatto che per quattro anni e otto mesi ho fatto il Ministro dell’agricoltura o per tre anni il Ministro del tesoro o ho svolto altri incarichi nella mia ormai lunga esistenza.

Lo dico con una certa forza: così stavano le cose. E’ chiaro che la pubblicistica ha il dovere di scrivere libri o raccogliere informazioni su ogni genere di questioni sulla gestione interna, gli uomini, gli orientamenti, le forze associative che hanno esercitato il potere all’interno della Federconsorzi e quindi ne portano onori, oneri e responsabilità. Il mio ruolo era diverso: era quello di Ministro dell’agricoltura e delle foreste con le competenze e i poteri dell’ordinamento allora vigente.

Lei ha parlato di preoccupazioni che emergevano circa la situazione economico–finanziaria della Federconsorzi. Qualche volta prendevo posizione con i miei collaboratori, ma sempre in vista di apprestare gli strumenti per evitare tali situazioni, mentre non avevamo poteri diretti a far cambiare la politica di gestione all’interno delle associazioni o delle cooperative.

Lei ha, inoltre, citato l’affidamento del controllo ad una società esterna negli anni 1988-’89 ma io lasciai il Ministero il 12 aprile 1988. Lei si riferisce ad incontri successivi che spiegherebbero le decisioni che arrivarono a compimento con il decreto del ministro Goria. Di tutto questo non so nulla, nemmeno sul piano dell’informazione generica.

PRESIDENTE. Vorrei sapere se lei si è mai posto il problema dell’eventuale commissariamento della Federconsorzi.

PANDOLFI. No. Personalmente ipotizzavo un’altra soluzione per un’azione di risanamento. Ma non credo che all’epoca si parlasse di commissariamento, in termini di qualche concretezza, nemmeno sui giornali. A mio modo di vedere, l’itinerario del risanamento prevedeva due tappe, che potevano anche essere accorpate. La prima consisteva nell’aggiustamento dei conti pregressi, senza il quale si manteneva in vita un sistema che aveva perso da 25 anni ogni tipo di giustificazione una volta cessate le funzioni pubblicistiche già ricordate, e che aveva lasciato in eredità alla Federconsorzi un carico di inutili bardature. La seconda tappa consisteva nell’applicare ai consorzi agrari, ed eventualmente anche alla Federconsorzi, le provvidenze in materia di ricapitalizzazione, attraverso un progetto quinquennale che, tra l’altro, doveva essere sottoposto a certificazione di bilancio, con schemi molto rigorosi. Questa, in sintesi, l’ipotesi di lavoro a cui si è pensato durante il mio periodo al ministero.

PRESIDENTE. In concreto si sono elaborati progetti di massima per questa seconda fase?

PANDOLFI E’ stata elaborata la legge pluriennale di spesa che consente di varare piani di ricapitalizzazione quinquennale con l’apporto dello Stato, secondo regole ben definitive, mentre non è andata in porto l’operazione del ripiano del disavanzo.

PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Pandolfi per il contributo fornito ai lavori della Commissione e dichiaro conclusa l’audizione.

Avverto che la Commissione tornerà a riunirsi martedì 22 febbraio 2000, alle ore 12, per procedere all’audizione del signor Maurizio Noci.

I lavori terminano alle ore 16,15.