Avventure di Robinson Crusoe/30
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Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
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Viaggio marittimo intorno all’isola.
A tal fine, per fare tutte le mie cose ponderatamente, adattai un piccolo albero alla mia navicella, formandogli una vela con alcuni pezzi di vele del vascello naufragato de’ quali aveva una buona quantità presso di me. Eseguite tali operazioni, provai questo mio bastimento e lo vidi in istato di veleggiare assai bene. Allora lavorai ai due lati di esso alcuni ripostigli od armadi per collocarvi in sicuro dalla pioggia o dagli sprazzi dell’acqua le mie provvigioni, munizioni o quant’altro occorresse alla divisata corsa; in oltre scavata nell’interno della barca una lunga fenditura che potesse contenere il mio moschetto, la copersi di una cortina affinchè esso non prendesse l’umido.
Formata una specie di scassa su la poppa, vi conficcai il mio ombrello a guisa d’un albero di nave: esso, sovrastando al mio capo, mi difendea come una tenda dall’ardore del sole. Dopo questi apparecchi andai facendo a quando a quando piccoli giri sul mare; pur senza scostarmi per allora, o senza almeno scostarmi molto dalla mia celletta. Finalmente, ansioso di vedere la circonferenza del mio piccolo reame, risolvetti di mettermi in corso, e con questa mira provvidi il mio vascello con due dozzine di pani che più tosto potrei chiamare focacce d’orzo, una delle mie pentole di terra cotta piena di riso abbrustolito, cibo di cui faceva un grandissimo uso, con un fiaschetto di rum, una mezza capra, polvere e pallini affinchè mi crescessero le vettovaglie stesse, e due delle casacche che dissi tolte alle casse de’ marinai naufragati, una di esse per giacervi sopra, l’altra perchè mi servisse di coperta la notte.
Era il 6 di novembre, e correva l’anno sesto del mio regno o della mia schiavitù, se vi piace meglio così, quando impresi questo viaggio che trovai molto più lungo di quanto io credeva; perchè se bene l’isola in sè stessa non fosse vastissima, pur quando fui al suo lato orientale, m’abbattei in una grande catena di scogli che, parte a fior d’acqua, parte sott’acqua, tenevano circa due leghe di mare, ed inoltre in un banco di sabbia asciutta che occupava più di una mezza lega, onde era costretto mettermi molto al largo per girare attorno alla punta di questo ostacolo di scogli e di sabbia.
Al primo scoprirlo fui sul punto di rinunziare al mio divisamento e di retrocedere, non sapendo a quanto tratto di alto mare mi obbligherebbe, e soprattutto incerto se dopo essere andato troppo avanti avrei potuto tornare addietro. Gettai quindi l’âncora; che mi avea fatto una specie d’âncora con un grappino rotto, una anch’esso delle eredità del naufragio.
Assicurata così la mia navicella e preso meco il mio moschetto, posi piede su la spiaggia ove arrampicatomi sopra una collina che sembrava dominasse la punta della catena di scogli, ne misurai ad occhio l’estensione, e decisi d’avventurarmi al tragitto.
Nello scandagliare il mare dall’altura dove mi stetti, notai una forte e da vero violentissima corrente che, diretta a levante, radeva affatto da vicino la punta; e tanto più accuratamente la esaminai in quanto vedeva esservi qualche pericolo che, quando fossi entro di essa, venissi trasportato dalla violenza della medesima in alto mare senza poter di nuovo raggiugnere l’isola; e per dir vero se non avessi fatta una tale osservazione sopra l’altura, credo bene che mi sarebbe accaduto così; perchè la mia corrente si andava ad unire con un’altra simile al di là della punta. Solamente questa seconda era più distante dalla spiaggia, e m’accorsi d’un gagliardo risucchio1 rasente la spiaggia; onde io, così pensai, non avrei avuto a far altro che tenermi fuori della prima corrente e guadagnar tosto il risucchio.
Ciò non ostante io rimasi all’âncora due giorni, perchè il vento assai freddo che spirava ad est-sud-est (levante-scirocco) essendo direttamente contrario alla predetta corrente, accumulava cavalloni d’acqua contro alla punta; onde era cosa mal sicura per me tanto il tenermi serrato alla costa a cagione dei frangenti, quanto l’allontanarmi per la corrente.
Alla mattina del terzo giorno, calmatosi il vento durante la notte ed essendo tranquillo il mare, io m’arrischiai; ma divenni una gran lezione per l’avvenire a tutti i nocchieri ignoranti ed audaci. Perchè non appena fui arrivato alla punta, non lontano più che la lunghezza della mia navicella dalla spiaggia, mi trovai in una grande profondità d’acque, ed in una corrente simile alla cateratta di un mulino. Questa si trascinò seco il mio legno con tanta violenza, che tutto il mio saper fare non potendo tenerlo vicino a terra, mi vidi spinto lontano e sempre più lontano dal risucchio che mi stava a manca, e su cui erano fondate le mie speranze. Non spirava un fiato di vento che mi aiutasse, e tutti gli sforzi de’ miei remi non facevano nulla. Cominciava già a darmi come perduto; poichè essendovi una corrente di qua ed una di là dalla punta, io capiva che a poche leghe di distanza si sarebbero unite; ed allora chi mi salvava? Io non vedeva possibilità di sottrarmi a tale pericolo, nè mi stava innanzi altra certezza fuor quella di morire, se non sommerso, perchè il mare era abbastanza tranquillo, certamente dalla fame. È ben vero ch’io avea trovata su la spiaggia una tartaruga tanto greve ch’io poteva appena levarla da terra e da me balzarla entro la mia piroga; è ben vero che aveva un grand’orcio, cioè una delle mie pentole di terra cotta, pieno d’acqua dolce; ma tutto ciò che cosa era quando fossi stato tratto nel vasto oceano, ove ad una distanza per lo meno di mille leghe non avrei trovato nè continenti nè isole, in somma spiagge di sorta alcuna?
Allora io vidi come fosse cosa facile agl’imperscrutabili divini voleri il rendere la più misera condizione del mondo anche più misera. Ora io m’augurava la mia desolata e solitaria isola come se fosse il più delizioso paese dell’universo; ora tutta la felicità che il mio cuore sapesse desiderare, era il tornare ad esservi di bel nuovo; stendeva sospirando le mani verso di essa: «Oh fortunato deserto! io esclamava, non ti vedrò mai più! Misera creatura ch’io sono! Dove son io adesso per andare?» Allora io rampognava a me medesimo la mia ingratitudine per essermi querelato del mio deserto; ed ora che non avrei io dato per essere tuttavia in quel deserto? Così è che non vediamo mai il nostro vero stato, se non quando ci viene fatto manifesto da uno stato peggiore, nè conosciamo il prezzo di quanto abbiamo se non allor che ci manca. Difficilmente può immaginarsi la costernazione che or mi premeva al vedermi strappato dalla mia diletta isola (ch’io la chiamava in quel momento così) in mezzo alla vastità dell’oceano quasi due leghe distante da essa e disperando affatto di mai più raggiugnerla. Ciò non ostante io non perdonava a fatica; le mie forze erano pressochè esauste nel tener la mia navicella quanto mai io potea vôlta a tramontana, vale a dire verso il lato di corrente che guardava il risucchio. Finalmente verso il mezzogiorno, mentre il sole passava sul meridiano, credetti sentirmi rimpetto una lieve brezza che spirava da sud-sud-est (ostro scirocco), brezza che mi confortò l’animo alcun poco e specialmente allorchè in una mezz’ora all’incirca si cambiò in un piacevole venticello. Intanto per altro stava ad una spaventosa distanza dall’isola, onde la menoma nube o nebbia che fosse sopravvenuta, io era ciò nondimeno perduto, perchè privo di bussola non avrei mai saputo come governare verso la terra, se l’avessi smarrita di vista; ma continuando il sereno io mi diedi di nuovo a mettere all’ordine l’albero della mia navicella e a spiegare la vela, mantenendomi quanto io poteva a tramontana per tirarmi fuori della corrente.
Spiegata appena la vela e già rinforzando di cammino verso questa dirittura la mia piroga, m’accorsi dall’acqua più chiara che qualche cambiamento era vicino a farsi nella corrente; perchè finchè questa fu sì impetuosa, l’acqua era torbida. Di fatto allora soltanto m’accorsi che l’impeto delle ondate andava cedendo; nè tardai dopo fatto un mezzo miglio in circa a vedere a levante i cavalloni del mare che percuotevano alcuni scogli dividendo ad un tempo la corrente in due rami. Mentre il più impetuoso di questi due rami scorrea più a mezzogiorno lasciando gli scogli a nord-est (greco), l’altro tornava addietro respinto dagli scogli stessi, formando un risucchio che retrocedea gagliardemente verso nord-west (maestro).
Sol chi immagini il sentimento eccitato dall’annunzio della grazia in coloro che sono già su la fatale scala del loro supplizio, o una liberazione dalle mani d’assassini in que’ miseri che stavano per esserne vittime, o qualsiasi insperato conforto in mezzo alla massima estremità del pericolo, può congetturare qual fosse la sorpresa della mia gioia e con quanta soddisfazione io spingessi la mia navicella entro quel risucchio di salvezza. Spirava ognor più propizio il vento; oh come lieto gli presentai la mia vela! oh come lieto al pieno fiotto m’abbandonai!
Questo mi portò quasi una lega verso terra, ma circa due leghe più a tramontana della corrente che mi avea trascinato da prima; onde quando fui vicino alla spiaggia, mi trovai al lato settentrionale dell’isola, vale a dire al lato opposto a quello donde io aveva cominciata la mia navigazione.
Poichè ebbi fatto poco più d’una lega col favore di questo risucchio, esso divenne un’acqua morta che non potea più imprimere forza al mio legno. Nondimeno, trovandomi tra due correnti, quella di mezzogiorno che m’avea trascinato, e quella di tramontana che giaceva ad una lega circa dall’altra banda, trovai almeno fra esse un’acqua tranquilla e che non m’opponea resistenza; onde favorendomi tuttavia il vento, potei co’ remi governare direttamente verso l’isola, benchè non facendo tanto cammino come per lo innanzi.
Alle quattro circa della sera men lontano d’una lega da terra, mi vidi innanzi la punta sporgente della catena di scogli che m’avea tratto in sì mal rischio, e che battuta dalla corrente diretta a mezzogiorno formava di rimbalzo un risucchio a tramontana. Lo scopersi assai gagliardo, ma non in tal direzione che potesse condurmi a ponente, ove mi bisognava prendere il mio cammino, perchè si volgeva quasi affatto a settentrione. Nondimeno, protetto da una brezza favorevole vi entrai torcendomi al nord-west (maestro), e dopo un’ora in circa mi trovai vicino quasi un miglio alla spiaggia, ove placidissima essendo l’acqua, presto sbarcai.
Posto piede a terra, mi gettai ginocchione ringraziando Dio per avermi salvato; e qui feci fermo proposito di abbandonare ogni idea di liberazione che dovesse derivarmi dalla mia piroga. Ristoratomi indi con alcuna delle provvigioni trasportate meco, riparai la mia navicella presso la spiaggia in un piccolo seno che io aveva scoperto sotto alcuni alberi, poi mi vi coricai entro per dormire; chè io non ne poteva più dalla fatica e dai travagli di tale navigazione.
Il mio grande imbarazzo stava ora su la via donde ricondurre a casa la mia navicella. Per quella da cui era venuto aveva corsi troppi pericoli, e sapeva troppo la natura dei casi che vi s’incontravano per cimentarmi nuovamente; qual fosse la via diversa da prendere dall’altra parte, cioè da ponente, io non lo sapeva, nè d’altronde aveva voglia di cercar nuove avventure. Sol la mattina presi la risoluzione di costeggiare la spiaggia, per vedere se vi fosse una baia per lasciare ivi in sicuro la mia grande fregata, per venirla poi a ripigliare quando me ne fosse occorso il bisogno. Dopo aver costeggiato per tre miglia all’incirca, mi trovai ad un bel braccio di mare della lunghezza a un dipresso d’un miglio, che si assottigliava al punto di divenire un picciolo ruscello, ove trovai un convenevolissimo porto, nel quale la mia piroga rimarrebbe come in un piccolo arsenale fatto a posta per essa. Lasciatala quivi con tutta la sicurezza, nè toltene fuori per portarle meco altre cose che il mio moschetto e l’ombrello, perchè faceva un caldo eccessivo, tornai alla spiaggia per guardare intorno a me e veder dove fossi.
Note
- ↑ Massa d’acque del mare che un ostacolo qualunque ritrae dal loro corso assoluto.