Canti (Leopardi - Ginzburg)/La vita solitaria

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XVI. La vita solitaria

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Giacomo Leopardi - Canti (1819 - 1831)
XVI. La vita solitaria
Il sogno Consalvo

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XVI

LA VITA SOLITARIA

     La mattutina pioggia, allor che l’ale
battendo esulta nella chiusa stanza
la gallinella, ed al balcon s’affaccia
l’abitator de’ campi, e il Sol che nasce
5i suoi tremuli rai fra le cadenti
stille saetta, alla capanna mia
dolcemente picchiando, mi risveglia;
e sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
degli augelli susurro, e l’aura fresca,
10e le ridenti piagge benedico:
poiché voi, cittadine infauste mura,
vidi e conobbi assai, lá dove segue
odio al dolor compagno; e doloroso
io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna
15benché scarsa pietá pur mi dimostra
natura in questi lochi, un giorno oh quanto
verso me piú cortese! E tu pur volgi
dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
le sciagure e gli affanni, alla reina
20felicitá servi, o natura. In cielo,
in terra amico agl’infelici alcuno
e rifugio non resta altro che il ferro.

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     Talor m’assido in solitaria parte,
sovra un rialto, al margine d’un lago
25di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
la sua tranquilla imago il Sol dipinge,
ed erba o foglia non si crolla al vento,
e non onda incresparsi, e non cicala
30strider, né batter penna augello in ramo,
né farfalla ronzar, né voce o moto
da presso né da lunge odi né vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
ond’io quasi me stesso e il mondo obblio
35sedendo immoto; e giá mi par che sciolte
giaccian le membra mie, né spirto o senso
piú le commova, e lor quiete antica
co’ silenzi del loco si confonda.

     Amore, amore, assai lungi volasti
40dal petto mio, che fu sí caldo un giorno,
anzi rovente. Con sua fredda mano
lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto
nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo
che mi scendesti in seno. Era quel dolce
45e irrevocabil tempo, allor che s’apre
al guardo giovanil questa infelice
scena del mondo, e gli sorride in vista
di paradiso. Al garzoncello il core
di vergine speranza e di desio
50balza nel petto; e giá s’accinge all’opra
di questa vita come a danza o gioco
il misero mortal. Ma non sí tosto,
amor, di te m’accorsi, e il viver mio
fortuna avea giá rotto, ed a questi occhi
55non altro convenia che il pianger sempre.
Pur se talvolta per le piagge apriche,
su la tacita aurora o quando al sole

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brillano i tetti e i poggi e le campagne,
scontro di vaga donzelletta il viso;
60o qualor nella placida quiete
d’estiva notte, il vagabondo passo
di rincontro alle ville soffermando,
l’erma terra contemplo, e di fanciulla
che all’opre di sua man la notte aggiunge
65odo sonar nelle romite stanze
l’arguto canto; a palpitar si move
questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna
tosto al ferreo sopor; ch’è fatto estrano
ogni moto soave al petto mio.

     70O cara luna, al cui tranquillo raggio
danzan le lepri nelle selve; e duolsi
alla mattina il cacciator, che trova
l’orme intricate e false, e dai covili
error vario lo svia; salve, o benigna
75delle notti reina. Infesto scende
il raggio tuo fra macchie e balze o dentro
a deserti edifici, in su l’acciaro
del pallido ladron ch’a teso orecchio
il fragor delle rote e de’ cavalli
80da lungi osserva o il calpestio de’ piedi
su la tacita via; poscia improvviso
col suon dell’armi e con la rauca voce
e col funereo ceffo il core agghiaccia
al passegger, cui semivivo e nudo
85lascia in breve tra’ sassi. Infesto occorre
per le contrade cittadine il bianco
tuo lume al drudo vil, che degli alberghi
va radendo le mura e la secreta
ombra seguendo, e resta, e si spaura
90delle ardenti lucerne e degli aperti
balconi. Infesto alle malvage menti,
a me sempre benigno il tuo cospetto

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sará per queste piagge, ove non altro
che lieti colli e spaziosi campi
95m’apri alla vista. Ed ancor io soleva,
bench’innocente io fossi, il tuo vezzoso
raggio accusar negli abitati lochi,
quand’ei m’offriva al guardo umano, e quando
scopriva umani aspetti al guardo mio.
100Or sempre loderollo, o ch’io ti miri
veleggiar tra le nubi, o che serena
dominatrice dell’etereo campo,
questa flebil riguardi umana sede.
Me spesso rivedrai solingo e muto
105errar pe’ boschi e per le verdi rive,
o seder sovra l’erbe, assai contento
se core e lena a sospirar m’avanza.