Canti di Castelvecchio/Prefazione
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PREFAZIONE
E su la tomba di mia madre rimangano questi altri canti!... Canti d’uccelli, anche questi: di pettirossi, di capinere, di cardellini, d’allodole, di rosignoli, di cuculi, d’assiuoli, di fringuelli, di passeri, di forasiepe, di tortori, di cincie, di verlette, di saltimpali, di rondini e rondini e rondini che tornano e che vanno e che restano. Troppi? Facciano il nido, covino, cantino, volino, amino almen qui, intorno a un sepolcro, poiché la crudele stupidità degli uomini li ha ormai aboliti dalle campagne non più così belle e dal sempre bel cielo d’Italia! E sono anche qui campane e campani e campanelle e campanelli che suonano a gioia, a gloria, a messa, a morto; specialmente a morto. Troppo? Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensier della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico. D’altra parte queste poesie sono nate quasi tutte in campagna; e non c’è visione che più campeggi o sul bianco della gran neve o sul verde delle selve o sul biondo del grano, che quella dei trasporti o delle comunioni che passano: e non c’è suono che più si distingua sul fragor dei fiumi e ruscelli, su lo stormir delle piante, sul canto delle cicale e degli uccelli, che quello delle Avemarie.
Crescano e fioriscano intorno all’antica tomba della mia giovane madre queste myricae (diciamo, cesti o stipe) autunnali. Nei luoghi incolti fanno le stipe che fioriscono di primavera, e fanno i cesti, ancor più umili, che fioriscono d’autunno; e la lor fioritura assomiglia. Mettano queste poesie i loro rosei calicetti (che l’inverno poi inaridisce senza farli cadere) intorno alla memoria di mia madre, di mia madre che fu così umile, e pur così forte, sebbene al dolore non sapesse resistere se non poco più d’un anno. Io sento che a lei devo la mia abitudine contemplativa, cioè, qual ch’ella sia, la mia attitudine poetica. Non posso dimenticare certe sue silenziose meditazioni in qualche serata, dopo un giorno lungo di faccende, avanti i prati della Torre. Ella stava seduta sul greppo: io appoggiava la testa su le sue ginocchia. E così stavamo a sentir cantare i grilli e a veder soffiare i lampi di caldo all’orizzonte. Io non so più a che cosa pensassi allora: essa piangeva. Pianse poco più di un anno, e poi morì.
Seguì mio padre. E qui, devo chiedere perdono, anche questa volta, di ricordare il delitto che mi privò di padre e madre e, via via, dei fratelli maggiori, e d’ogni felicità e serenità nella vita? No: questa volta non chiedo perdono. Io devo (il lettore comprende) io devo fare quel che faccio. Altri uomini, rimasti impuniti e ignoti, vollero che un uomo non solo innocente ma virtuoso, sublime di lealtà e bontà, e la sua famiglia, morisse. E io non voglio. Non voglio che sian morti.
Se poi qualcuna di queste poesie che contengono cose non solo vere ma esatte (e il lettore comprenderà anche qui: certe cose non s’inventano, anche a volere), ispirasse un più acuto ribrezzo del male, io, oh! non me ne terrei io, ma ne benedirei la memoria de’ miei cari martiri, per i quali nessuno (nemmeno i loro assassini) soffrì, e che dalla loro fossa rendono anche oggi, per male, bene.
Castelvecchio di Barga, marzo del 1903.