Cartagine in fiamme/15. L'abbordaggio

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15. L'abbordaggio

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14. L'uragano 16. Un soccorso inaspettato

L'ABBORDAGGIO


Ci volle quasi una dozzina di ore prima che le onde si spianassero al punto di permettere alle scialuppe di abbandonare la carcassa, ormai sfracellata, della disgraziata hemiolia.

Avendo raggiunta la marea la sua massima bassezza, in modo da lasciare quasi a secco le scogliere, fu facile ai numidi di portare le due pesanti imbarcazioni fino al mare e lanciarle.

Sidone, dunque prudentissimo, le aveva fornite di viveri e d'acqua e soprattutto di armi, non essendo improbabile che placatosi l'uragano, il vecchio Hermon lanciasse dietro di loro le quinqueremi dell'arsenale di Utica, per vendicarsi del rapimento d'Ophir.

Cadeva il sole, quando i naviganti s'imbarcarono. La fanciulla cartaginese era nella prima scialuppa con Hiram; l'etrusca nella seconda con Sidone. Venti uomini erano ai remi e se nessun accidente avveniva, fra un paio di giorni avrebbero potuto vedere e fors'anche raggiungere le non lontane coste della Sicilia.

Pel momento nessun pericolo, almeno apparentemente li minacciava, non avendo scorto nessun punto nero sull'ampio golfo; tuttavia i naufraghi non eran completamente tranquilli. La minaccia di Phegor se la sentivano risuonare sempre nel cuore.

— Alla voga! — comandò Sidone, dopo aver esplorato attentamente l'orizzonte. — Non ho più il mio martello ed il disco di bronzo; ma non sarà necessario che io vi segni una forte battuta. Al largo!...

Le due scialuppe lasciarono le scogliere contro le quali si rompevano sussurrando, più che muggendo, le ultime ondate e presero la corsa verso l'isolotto d'Argimurus per raggiungere più tardi il promontorio dei Mercurf, che guarda verso Selinus, la città più prossima della Sicilia.

Il sole s'abbassava rapidamente, celandosi dietro una nube rosseggiante; e da levante le tenebre sorgevano colle prime stelle invadendo il cielo.

Tutto il mare, cosparso di irrequiete pagliuzze d'oro, rumoreggiava dolcemente attorno alle due scialuppe che i remi, manovrati dalle robuste e mai stanche braccia dei poderosi numidi, spingevano a corsa velocissima. Hiram, seduto a poppa, col lungo remo in mano, si stringeva colla sinistra Ophir, mezza addormentata, dopo quella lunga e ansiosa veglia notturna. Di quando in quando, furtivamente, le sue labbra sfioravano i lunghi capelli neri della fanciulla impregnati d'un acuto profumo.

Non si rammentava più in quel momento né dei lunghi anni di esilio, trascorsi nella lontana Tiro, a sospirare la donna amata, né di Hermon, né di Phegor. Una voce però lo trasse bruscamente alla realtà della vita.

— Un punto nero! — aveva gridato Sidone, che guidava la seconda scialuppa. — Girate di bordo!... Ritorniamo verso la costa!

Hiram si era alzato di scatto, svegliando bruscamente Ophir.

— Che cosa dici, Sidone? — gridò.

— Che quegli squali arrabbiati ci danno addosso, padrone, e che quel miserabile Phegor ha mantenuta la parola.

— Allora quel punto nero è una nave cartaginese.

— Non posso ancora assicurartelo, padrone; tuttavia mi pare che non si diriga né verso Utica, né verso Cartagine. Aspetta un po' ancora, e vedremo se quella gente si occupa di noi.

— Che ci prendano? — chiese, con voce tremula, la cartaginese.

— Siamo in buon numero e non ci arrenderemo senza combattere fieramente — rispose Hiram. — Non temere, Ophir. I miei uomini sono tutti valorosi e ti difenderanno finché rimarrà loro un atomo di forza.

— Eppure io ho funesti presentimenti, Hiram.

— Le fanciulle non sono uomini — disse il capitano. — Come il dio del mare ci ha protetti fino ad ora, non ci abbandonerà nel supremo momento. Sidone!...

— Che cosa vuoi signore? — chiese l'hortator, che ritto sul banco di poppa fissava, agli ultimi bagliori del tramonto, il punto nero.

— Viene su noi?

— Sì, padrone.

— Una quinqueremi?

— Una o due. Vedo un altro punto nero dietro al primo.

— E puntano su di noi?

— Mi sembra. Ah!... Se la notte fosse oscura!...

— Cerchiamo di raggiungere la costa prima che ci siano addosso.

— È quello che tenteremo padrone, tuttavia dubito che possiamo giungervi. Spingono i remi quelle navi e ci hanno già scorti.

Gli ultimi bagliori del tramonto si erano smorzati bruscamente e le tenebre scendevano sul mare.

L'acqua diventava oscura e le stelle aumentavano il loro splendore man mano che spariva la luce.

Anche i due punti neri, segnalati da Sidone, non si scorgevano più, come se si fossero improvvisamente inabissati.

Un gran silenzio regnava fra i naufraghi. Non si udivano altro che i colpi precipitati dei remi, sempre vigorosamente maneggiati dai numidi. L'hortator sempre in piedi sul banco di poppa, colle gambe ben allungate per non perdere l'equilibrio, non cessava di scrutare le tenebre e di crollare il capo. Non era affatto tranquillo il bravo pilota, e certo pensava al momento terribile, fatale, in cui le due navi si sarebbero precipitate coi loro rostri sulle due fragili imbarcazioni, impotenti a resistere al grand'urto. Erano trascorse due ore, da che il sole era scomparso, quando l'hortator mandò un nuovo grido d'allarme:

— Vengono!

— Le navi? — chiese Hiram.

— Sì, padrone.

— Non le vedo.

— Ma io le odo. Alzate un momento i remi voialtri.

I numidi obbedirono e si misero tutti in ascolto, curvandosi fuori dei bordi e trattenendo il respiro.

L'udito finissimo dell'hortator, abituato a percepire i più lievi rumori del mare, non si era ingannato: il venticello notturno che soffiava dal mezzodì, portava distintamente fino agli orecchi dei naufraghi le battute regolari d'un gran numero di remi.

— Hai udito, signore — chiese Sidone, la cui scialuppa si era accostata a quella d'Hiram.

— Sì — rispose questi.

— Vengono e sono meno lontani di quello che tu credi.

— Fra poco ci saranno allora addosso.

— Certo, padrone. Anche loro hanno udito la battuta dei nostri remi. Che cosa decidi di fare?

Hiram stette un momento muto, poi si curvò su Ophir e le disse:

— Se il dio del mare, che finora mi ha protetto, ha decisa ormai la mia sorte, noi ci ritroveremo nel regno delle tenebre.

— Hiram! — gridò la fanciulla con angoscia.

— Silenzio! — gridò il cartaginese, con fiero accento. — È l'uomo di guerra che in questo momento parla. Sidone accosta.

La scialuppa dell'hortator in un momento si mise bordo controbordo con quella d'Hiram.

— Cosa vuoi, padrone? — chiese il pilota.

— Affido a te le due fanciulle e ti lascio dieci uomini. Non occuparti di me, fuggi e cerca di salvarle.

— E tu?

— Io cercherò di arrestare quelle due navi. Con trentaquattro uomini, in questo supremo momento, mi sento capace di lottare contro cinquecento.

— Ed io lascerò la mia daga nella guaina?

— È necessario: vi sono due donne da salvare.

Una profonda tristezza si diffuse sul viso del pilota.

— Tu hai ragione — disse poi — tuttavia avrei preferito, combattere al tuo fianco e cacciare tutta la mia arma nel petto di Phegor.

— Chissà ove sarà quel miserabile.

— Su una o sull'altra di quelle navi, padrone, ne sono sicuro.

— Ci penserò io a ucciderlo. Presto, la battuta dei remi diventa sempre più distinta.

Prese Ophir tra le braccia e la depose nella scialuppa di Sidone, mentre una parte dei numidi, che formavano l'equipaggio, passavano sulla sua, portando con loro gli scudi, le azze e le daghe.

— Tu mi lasci? — chiese Ophir con voce singhiozzante.

— Per poco — rispose Hiram. — Non tarderò a raggiungerti.

— Tu vai a sfidare la morte.

— No, a parlamentare e null'altro.

— Con loro? Ti uccideranno.

— E la mia daga non la conti tu, Ophir? Ed i miei uomini? Siamo pochi è vero, però tutti valorosi.

— Io tremo per te.

— Conservo la mia vita per farti felice, Ophir. Addio fanciulle abbiamo già perduto troppo tempo. Alla voga, Sidone, e cerca di raggiungere l'isola. Io non dubito di raggiungerti presto.

— Hiram! — gridò la fanciulla.

— Hiram! — ripetè Fulvia.

D'altronde Sidone faceva spingere la sua scialuppa a gran corsa, onde impedire al capitano di non commuoversi troppo per quel distacco.

— Amici — disse il capitano volgendosi verso i numidi che si pigiavano fra i banchi. — Ecco il momento di mostrare il valore delle genti africane. Ricordatevi che avete dinanzi a voi dei mercenari, che hanno venduto il loro sangue pel soldo di Cartagine. Mostrate a quegli uomini come sanno morire i figli del sole bruciante. Io sono con voi.

— Siamo pronti — risposero ad una voce i marinai dell'hemiolia.

Una massa nera s'avanzava, rompendo fragorosamente le acque gorgoglianti sotto la battuta d'un gran numero di remi.

Hiram afferrò il lungo remo e spinse risolutamente la scialuppa innanzi. Quella di Sidone era ormai scomparsa fra le tenebre, quindi nulla aveva da temere per la salvezza delle due fanciulle.

— Tenetevi pronti ad abbordare — sussurrò ai suoi uomini.

L'oscurità proteggeva quel manipolo d'audaci. A bordo della quinqueremi, ammesso che fosse tale, nessun grido d'allarme.

Hiram con un improvviso colpo di remo evitò lo sperone, il terribile rostro di bronzo che avrebbe dovuto sfondarli d'un colpo solo e spinse la scialuppa sotto il tribordo della nave, dicendo:

— Su, numidi!

In un baleno gli agili africani s'aggrappano ai lunghissimi remi scendenti in mare, arrestando, col loro peso la battuta, afferrano quelli delle linee superiori e balzano in coperta come una legione di demoni, imbracciando lo scudo che si erano portato dietro le spalle e staccando dalle cinture le azze e le daghe.

Hiram li aveva già preceduti.

Un urlo selvaggio echeggiò fra le tenebre.

— Morte!... Morte!...

Alcuni uomini si precipitano addosso agli invasori e cadono morti o moribondi sotto i colpi furiosi d'Hiram e dei numidi, ma altri sopraggiungono gridando: — All'armi!

Dai boccaporti e dalle camerette di prora e di poppa, irrompono altri drappelli. Un fragore di spade e d'asce che si urtano e di scudi poderosamente percossi, echeggia sul ponte della nave.

I numidi, guidati da Hiram, di primo slancio, si sono fatti largo, ma ora è una massa d'uomini che piomba addosso a loro da tutte le parti e che li stringe come entro una maniglia di ferro.

I mercenari della quinqueremi, tre o quattrocento per lo meno, passato il primo istante di stupore, tornano alla riscossa con impeto disperato, per ricacciare in mare quei pericolosi intrusi e non sono soli, poiché mentre Hiram ed i suoi numidi si preparano a caricarli con coraggio disperato, un'altra immensa ombra nera compare improvvisamente a babordo, e un nuovo fiotto umano si scaglia nella mischia incitato da una voce strillante che grida:

— Dieci talenti pagherà Hermon a chi li prende o li uccide.

Udendo quella voce un freddo sudore aveva imperlato la fronte d'Hiram.

— La spia! — esclamò, fracassando l'elmo e nel medesimo tempo la testa ad un mercenario che l'aveva affrontato. — Egli porta la morte!

Approfittando d'un istante di sosta gettò uno sguardo sulla nuova nave che era illuminata da alcune lampade.

Non era un legno di combattimento, bensì una di quella navi che i romani avevano copiate dai fenici, di costruzione molto più pesante e anche più solida, poco dissimile nelle forme, alle barocche giunche cinesi.

— La quinqueremi sarà così ben fornita d'uomini, quanti potrà portarne? — fu la domanda, che si fece il capitano cartaginese.

— Prepariamoci a morire! — mormorò. — Povera Ophir!... Qui cadrà per sempre l'uomo che ami. Potessi almeno raggiungere Phegor e levarlo dal mondo.

Preso da un improvviso accesso d'ira che centuplicava le sue forze, irruppe come una belva feroce fra le falangi nemiche che stavano per opprimere il suo debole drappello.

Aveva gettata la daga, troppo leggera per aprirsi una via sanguinosa fra quella muraglia umana e aveva raccolta una pesante ascia sfuggita di mano ad uno dei combattenti.

— Uccido! — urlò. — Largo!... A me numidi!

Non era più un uomo, era una catapulta che investiva il cerchio di ferro con impeto terribile.

Collo scudo stretto contro il petto, l'ascia alzata, si era scagliato urlando:

— Vieni ad affrontarmi, cane di Phegor!

Una voce ironica gli rispose prontamente:

— Sì, quando tutti i miei uomini saranno morti. Aspetta dunque, ladro di fanciulle.

— Ti raggiungerò anche se tu ti nasconderai in fondo al mare.

Hiram aveva sfondata la prima linea dei mercenari a gran colpi d'ascia. Pareva che nessuno potesse reggere al suo braccio.

Scudi, elmi e corazze cadevano spaccati al suolo sotto i suoi colpi formidabili; e dopo il ferro, l'acciaio ed il bronzo, cadevano gli uomini spaventosamente feriti.

I numidi lo aiutavano con pari coraggio. Malgrado la pioggia di frecce lanciate dalle torrette, i colpi di lancia, d'ascia e di daga, avevano a poco a poco allargato il cerchio, non senza pagare però ben cara quella prima vittoria. Più di mezzi erano caduti sul ponte della quinqueremi per non più rialzarsi ed i pochi feriti erano stati lanciati in mare senza alcuna compassione, a pasto dei pesci.

— Mostrati, spia!... Lascia, che prima di morire ti vegga in viso.

Ad un tratto il suo scudo cadde in frantumi, sotto il formidabile colpo d'ascia vibratogli da un guerriero di statura gigantesca.

Quasi nel medesimo istante un colpo di daga gli faceva saltare le piastre di metallo che gli coprivano il petto e la punta penetrando nella viva carne, s'immergeva nel costato destro, quasi nel medesimo punto dove l'astario romano lo aveva colpito, venti anni prima, sulle rive del Trasimeno.

Il dolore cagionatogli da quella ferita, era stato così atroce, che il disgraziato capitano cadde sulle ginocchia. Tentò ancora, con uno sforzo supremo di alzare l'ascia, poi le forze lo abbandonarono, stramazzando svenuto sulla tolda della quinqueremi.

Quasi nel medesimo istante i suoi ultimi numidi, dopo d'aver venduta ben cara la vita, cadevano uno ad uno fra un cerchio di cadaveri.

Mentre Hiram veniva catturato, Sidone continuava la sua corsa verso l'isolotto d'Argimurus, la cui massa oscura si delineava a qualche miglio di distanza. Non aveva gran fede nel disperato tentativo del suo padrone, sapendo che le navi di linea cartaginesi, non portavano mai meno di trecento uomini a bordo, tuttavia non si era ancora perduto d'animo.

Aveva veduto già parecchie volte alla prova Hiram, e non ignorava quanto pesasse la daga del valoroso capitano, come non ignorava lo slancio impetuoso ed il coraggio indomito dei numidi che lo accompagnavano. Ophir e Fulvia, non meno inquiete di lui, non cessavano d'interrogarlo ansiosamente, senza però poter ricevere una risposta che tranquillizzasse le loro ansie.

— Non vedo più nulla, fanciulle — rispondeva l'hortator. — Fidiamoci della protezione, finora benigna, di Melkarth. Tutto dipende da lui, il salvarci o il perderci.

E Sidone in realtà non poteva parlare diversamente, né dire di più, poiché ormai la scialuppa era troppo lontana dal luogo del combattimento. Era trascorsa mezz'ora da che Hiram li aveva lasciati e l'isola non era che a poche gomene, quando un grido mandato da un rematore di punta, fece trasalire l'hortator.

— Eccoli ancora!

— Chi? — gridò Sidone.

— Non li vedi, pilota? Si direbbero sorti dal mare.

Sidone aveva appena girato lo sguardo, che scorse subito un'ombra muovere diretta sulla scialuppa.

— Che il padrone sia stato già vinto? — si chiese, fremendo. — Meglio valeva a non lasciare Tiro e continuare i nostri commerci coi greci. Tentiamo di salvare almeno le fanciulle.

La spiaggia fortunatamente non era ormai che a poche braccia. Sidone lanciò risolutamente la scialuppa verso le sabbie.

— Tenetevi ben fermi!

Aveva fatto però i conti troppo tardi. La nave che li aveva inseguiti non era né una triremi, né una quinqueremi come dapprima aveva creduto Sidone, bensì una leggera acatium a fondo piatto e che pescando pochissimo poteva appressarsi impunemente alla riva. Con una rapida manovra di remi il piccolo naviglio chiuse la via ai fuggiaschi, poi virando prontamente di bordo, investì col suo rostro la prora della scialuppa, sfondandola di colpo.

L'urto fu così improvviso e così poderoso che i numidi e le due fanciulle in un attimo si trovarono tutti in acqua.

La giovane cartaginese non aveva potuto trattenere un grido di spavento e quel grido era stato udito da un uomo che si trovava a bordo della piccola nave.

Tsour, il suo fidanzato.

— Salvate Ophir! — urlò subito all'equipaggio.

Trenta o quaranta uomini erano immediatamente balzati in acqua, mentre i rematori battevano le loro lunghe pale in senso contrario, onde il rostro dell'acatium non uccidesse i naufraghi.

Intanto Sidone avendo urtato contro un corpo umano che affondava, ed avendo sentito sotto le sue mani una veste, l'aveva prontamente afferrato, credendo che fosse Ophir.

Con due poderosi colpi di tallone rimontò alla superficie, tenendo ben stretta la naufraga e si mise a nuotare disperatamente verso la sponda, che come dicemmo era vicinissima.

Solamente nel momento d'arrampicarsi sul greto, dove già trovavansi i suoi uomini che, non avendo alcun imbarazzo, erano stati più lesti, s'accorse di aver fra le braccia l'etrusca, come chiamava Fulvia, invece della fidanzata del suo padrone.

— Piuttosto di nessuna, è meglio averne salvata una — mormorò. — Non potevo già ripescarle entrambe.

— Grazie, Sidone — disse Fulvia, sfuggendogli dalle braccia.

— Il padrone, se sfuggirà alla morte, non sarà forse contento che io invece d'Ophir...

— Che cosa ne sai tu? — chiese Fulvia.

— Era l'altra che amava.

— Ah! — fece semplicemente l'etrusca. — È vero.

Ma Sidone non aveva scorto il lampo atroce che aveva illuminato le profonde pupille dell'etrusca.

— Pilota, fuggi! — gridarono in quel momento i numidi della scialuppa. — L'acatium ha messo in acqua le sue barche.

— Gambe, ragazzi e anche tu etrusca, se non vuoi cadere nelle mani di quegli uomini e passare nella bocca ardente di Baal-Molok.

Tutti si erano slanciati a corsa disperata, compresa Fulvia, la quale non sembrava molto imbarazzata a tener dietro agli agili numidi. Superate parecchie dune ed una collinetta rocciosa sulla cui cima si scorgevano confusamente gli avanzi d'una torre, Sidone si arrestò dicendo:

— Basta, ragazzi. Nessuno ci ha visti ad approdare e lassù vi è un ricovero a me ben noto. Aspetteremo là dentro l'alba, poi vedremo che cosa ci converrà di fare. Ah!... La mala notte!...

— E Hiram? — chiese Fulvia.

Sidone scosse tristamente il capo.

— Temo che sia morto! — esclamò poi. — O per lo meno rimasto prigioniero.

— E tu, se fosse rimasto prigioniero, l'abbandoneresti forse? Tu suo fedele?

— Io!... Io! Tu non mi conosci ancora, etrusca. Vieni ora lassù, nel nostro rifugio, ne parleremo.

Le porse la mano per aiutarla a scalare un masso, ed il piccolo drappello salì silenziosamente la collinetta, che poteva anche chiamarsi uno scoglio, avviandosi verso la torre.