Cartagine in fiamme/16. Un soccorso inaspettato

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16. Un soccorso inaspettato

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15. L'abbordaggio 17. Una spedizione notturna

UN SOCCORSO INASPETTATO


Gli antichi cartaginesi, quantunque prima del sorgere della potenza romana, nulla avessero da temere dalle popolazioni mediterranee, che non potevano in alcun modo competere col loro potentissimo naviglio, per somma precauzione, non avevano trascurato di fortificare l'entrata del loro splendido golfo, munendo le coste e l'isolotto d'Argimurus di solide e altissime torri che, con fuochi accesi sulle loro cime, potessero segnalare alla capitale l'appressarsi del nemico.

Le guerre puniche e la pace fatta con Roma, la terribile rivale che doveva distruggere la sua possente rivale, avevano indotto i cartaginesi ad abbandonare quelle costruzioni ormai troppo vecchie e di ben poca utilità, concentrando le loro difese a Utica e a Cartagine, sicché quelle torri, non più riparate, non avevano mancato di seguire la legge comune, ossia di rovinare. Non avevano già, si capisce, la solidità straordinaria delle colossali piramidi, che le braccia dei figli del Nilo avevano innalzato migliaia d'anni prima, pur su quella medesima terra del continente africano.

La torre però, entro cui avevano cercato rifugio i naufraghi dell'hemiolia, era in buone condizioni, quantunque inalzata da parecchi secoli, a giudicarla dalla sua costruzione massiccia, e tuttavia molto primitiva in fatto d'architettura. Era una specie di tubo altissimo, poco dissimile da uno dei moderni fari, quantunque di dimensioni più vaste, che lanciava il suo terrazzo a ottanta o novanta piedi dal suolo e difeso da alcuni merli semidiroccati. Sidone che pareva l'avesse già visitato e fors'anche abitato, chi sa in quale epoca della sua vita avventurosa, presa Fulvia per mano, le fece salire a tentoni una gradinata sconnessa e la condusse sulla cima, mentre i suoi uomini si allogavano in una cameretta a pianterreno, per sorvegliare le mosse dell'equipaggio dell'acatium nel caso che avesse preso terra per organizzare la caccia degli ultimi amici d'Hiram.

Giunti sul terrazzo senza aver scambiata una parola, Sidone volse gli sguardi verso il mare, mentre la giovane etrusca si lasciava cadere, come se un improvviso sfinimento l'avesse assalita, su un pezzo di merlatura, che il tempo e le ingiurie delle intemperie avevano abbattuto.

— Nulla — borbottò il bravo e fedele hortator. — Certo credono che noi ci siamo tutti annegati. Ed il padrone?

Una vivissima angoscia si era impadronita del pilota: che cosa era accaduto ad Hiram? Era riuscito ad espugnare le navi che lo inseguivano, od era caduto trafitto da mille colpi?

— Aspettiamo l'alba — disse finalmente l'hortator dopo d'aver guardato le stelle. — Non deve essere molto lontana.

Si volse e si fermò colle braccia incrociate e la fronte pensierosa, dinanzi a Fulvia, che teneva il capo appoggiato ad una mano.

— Nessuno! — le disse.

L'etrusca ebbe un sussulto che subito frenò.

— Credi che sia morto? — chiese poi.

— Io penso che se fosse riuscito a vincere quelle navi ed arrestarle, sarebbe già qui.

— Dunque l'hanno ucciso! — gridò Fulvia, scattando in piedi.

— Non sono un indovino io, fanciulla — rispose Sidone, un po' sorpreso da quella mossa improvvisa che non s'aspettava. — Finché non vedremo il suo cadavere, non diremo mai che egli sia stato spento.

Fulvia prese poi Sidone per un braccio e dopo d'averlo scosso con tale sforzo da sorprendere il forte uomo di mare, gli disse:

— E Ophir? Che sia a quest'ora in fondo al mare? Ah... Sarei desiderosa di sapere che cosa è accaduto di lei.

— L'ami dunque quella fanciulla?

Fulvia guardò l'hortator cogli occhi sfavillanti, poi rispose con una intonazione strana:

— Sì... schiava sua mi ha trattato come se fossi sua sorella... Chi non l'amerebbe?

— E poi è la fidanzata del padrone — aggiunse l'hortator.

— Lo era.

— Noi non sappiamo se l'uno o l'altra siano morti.

— No l'uno! — esclamò l'etrusca.

Sidone si mise le mani sui fianchi e guardò la giovane per parecchi istanti, senza parlare.

— Queste donne di Roma sarebbero incomprensibili? — disse poi.

— Perché?

— Sei o non sei amica d'Ophir?

— E perché no?

— Vi è nel mio cervello qualche cosa che lo tormenta e che invano cerco di sapere cos'è. Uh! non parliamo più su di ciò e aspettiamo invece l'alba.

— Che non vengano a trovarci qui?

— Siamo molto alti e li vedremo da lungi — rispose Sidone. — D'altronde nessuno può averci scorti a salire questa collinetta.

Si sedette anche lui su un pezzo di merlatura, cogli occhi rivolti verso il mare e non parlò più.

Due ore dopo, un debole chiarore appariva verso oriente, dilatandosi rapidamente e diventando di momento in momento più intenso. Il sole saliva lesto sull'orizzonte.

Sidone si era alzato, imitato subito da Fulvia. Anche i remiganti che avevano passata la notte nella stanzetta pianterrena della torre, si erano affrettati a salire, ansiosi anche loro di sapere se la scialuppa del padrone era in vista.

— Tutti scomparsi! — disse l'hortator, appena il primo raggio di sole illuminò le acque della profonda baia.

Si era voltato guardando Fulvia, che sembrava esterrefatta, poi i suoi dieci uomini.

— Non scorgi proprio nulla? — chiese l'etrusca con voce alterata.

— Le due navi, l'acatium e anche la scialuppa del padrone, sono sparite.

— Che Hiram sia stato colato a fondo coi suoi numidi?

— O che sia stato invece catturato? — chiese a sua volta Sidone.

— E Ophir?

— Presa senza dubbio dai marinai di Hermon che si erano gettati in acqua. Non sono inquieto sulla sorte di quella fanciulla.

— E noi che cosa faremo ora?

— Quest'isola è abitata e sulle sue coste settentrionali ha un piccolo porto, che può accogliere tre o quattro navi ed ha anche una piccola fortezza.

— E che cosa importa a me quel porto?...

— Adagio, fanciulla — rispose Sidone. — Se quelle navi invece di tornare subito ad Utica si fossero recate colà in attesa di ordini? Io non lascerò quest'isola, se prima non saprò che cosa è accaduto d'Hiram. Manderò alcuni dei nostri uomini ad assumere informazioni e possibilmente a procurarci una scialuppa.

— Per tornare a Cartagine?

— O a Utica. Non sappiamo ancora dove avranno condotto il padrone, ammesso che sia ancora vivo.

— Non crederlo morto, Sidone! — esclamò l'etrusca con un improvviso scoppio di dolore.

— La guerra talvolta non risparmia i valorosi! — rispose l'hortator con voce triste. — Decidiamo e non perdiamo tempo. Nemmeno qui siamo al sicuro ed i mercenari potrebbero inviare qualche drappello attraverso l'isola.

Guardò i suoi uomini, poi puntando un dito prima su uno e poi su un altro, che avevano salvato miracolosamente le loro armi, chiese:

— Voi conoscete l'isola è vero?

— Sì, pilota.

— Levatevi le corazze e gli elmi, fingetevi pescatori e recatevi fino al porticino, per informarvi se le navi che ci hanno dato la caccia, sono giunte colà, poi provvedetevi d'una scialuppa. Avete denari?

— Sì, pilota.

— Non scordatevi che dalla vostra velocità dipende forse la salvezza di tutti.

— Fileremo come gazzelle — disse il più giovane.

Scesero a quattro a quattro i gradini malfermi della scala e scomparvero giù per la collina.

— Voi, — disse Sidone, rivolgendosi agli altri, — andate intanto a cercare qualche cosa da porre sotto i denti. I datteri ed i fichi non mancano su quest'isola, e per ora ci accontenteremo di un po' di frutta.

— Speri? — chiese Fulvia, mentre i numidi lasciavano la piccola piattaforma.

Sidone, come era sua abitudine, crollò ripetutamente il capo, poi rispose:

— Se non è morto, in qualunque luogo lo abbiano condotto, noi lo salveremo: te lo prometto, fanciulla.

— Per farlo felice con Ophir! — disse l'etrusca, facendosi tetra in viso.

— Se la giovane cartaginese sarà allora ancora libera!... Hermon non aspetterà molto, dopo quello che è successo.

Il viso di Fulvia si era subito rischiarato, anzi il medesimo sorriso strano, che l'hortator aveva osservato, erale comparso sulle labbra. Anche questa volta però non sfuggì agli sguardi penetranti del pilota.

— Scommetterei un grosso talento d'oro, contro un dattero, che tu saresti più contenta che Hiram trovasse, sempre ammettendo che sia vivo e che noi riuscissimo a strapparlo alla morte, Ophir già sposa, è vero fanciulla?

— Che cosa te lo fa supporre? — chiese Fulvia trasalendo.

— Sono vecchio, perciò ho esperienza molta, e nella mia gioventù ho amato non poche fanciulle della piccola Sirti e di Tiro.

— Spiegati meglio dunque.

— Io sono certo che tu, segretamente, ami il padrone.

Sulla fronte dell'etrusca passò come un'ombra, poi disse:

— Forse, se non fossi una fanciulla nata sotto le Aquile vittoriose della grande Roma.

Sidone alzò le spalle:

— E che ha da fare il cuore colle Aquile romane? — disse poi. — Io numida non ho forse amato anche fanciulle cartaginesi?... E Cartagine fu sempre nemica acerrima della mia patria.

— Io appartengo ad un popolo diverso dal tuo. Noi donne italiche non possiamo amare i nemici di Roma. Morire sì, di passione, amare mai.

— Allora vuoi dire che tu ti struggerai a poco a poco d'amore pel padrone.

— Dammene una prova.

L'hortator invece di rispondere si era accostato rapidamente al parapetto e facendosi con ambo le mani schermo agli occhi, per difenderli dai raggi solari, rimase immobile, guardando lontano lontano, sul mare scintillante di luce.

— Che cosa cerchi? — chiese Fulvia.

— Vedo una nave che mi pare si diriga verso quest'isola.

— Nave da guerra?

— Non mi sembra. È troppo corta e troppa massiccia. Come mai è sfuggita finora a' miei sguardi?... Che venga da Cartagine invece che da Utica, e che le sinuosità della costa l'abbiano finora celata?

— E che importerebbe a te?

— Credi tu che io non abbia molti amici fra le navi che approdano a Cartagine? Sono quasi tutte fenicie e quantunque numida, la maggior parte dei miei anni li trascorsi con quei naviganti.

— Non sei però certo che quella sia fenicia.

— Taci e lasciami guardare.

Una triremi s'avanzava verso l'isola per doppiare forse il capo occidentale, che si prolungava a poca distanza dalla collinetta, sulla quale s'inalzava la torre. Si trattava veramente di un legno mercantile, avendo i fianchi più ampi e un po' arrotondati, mentre quelli da guerra, come abbiamo detto, erano invece senza curvature per facilitare gli abbordaggi. Trascorsero alcuni minuti durante i quali Sidone non aveva staccato un solo momento i suoi sguardi dalla nave, poi Fulvia lo vide fare un moto di sorpresa e di gioia.

— Se la conosco quella triremi! — esclamò. — È di Aco.

— Chi è codesto Aco? — chiese Fulvia.

— Un mio amico di Rodi, a cui un giorno io ho salvato la vita, mentre era stato assalito da una banda di pirati greci. Ecco una fortuna che non speravo. Se ode la mia voce, siamo salvi. Rimani qui.

Si precipitò giù dalla gradinata a rischio di rompersi il collo, scese la collina e superò velocemente le dune raggiungendo la spiaggia.

La triremi in quel momento virava di bordo a meno di trecento passi, avviandosi verso il capo occidentale dell'isola. L'hortator fece colle mani portavoce, gridando con quanto fiato aveva in gola:

— Aco!... Aco!...

Alcuni uomini erano saliti sulla murata di tribordo, facendo colle braccia alzate dei segnali.

— È Sidone che parla! — gridò l'hortator. — A terra, Aco!...

— Sidone!... Sidone di Tiro! — gridò una voce.

— Sì.

— Aspettami.

Una grossa barca, capace di contenere una dozzina di remiganti prese subito il largo.

Nel medesimo tempo il legno si metteva in panna, dopo essersi allontanato d'altri tre o quattrocento passi dalla spiaggia, onde le correnti non lo portassero contro le scogliere.

Cinque minuti dopo un uomo, piuttosto attempato, che indossava un ampio mantello di lana scura, come usavano i marinai dell'Arcipelago greco e fornito d'un ampio cappuccio, che gli nascondeva metà del viso, non ostante il caldo che regnava intensissimo in quell'ora, si gettava fra le braccia di Sidone, esclamando:

— Che cosa fai, amico, su questa spiaggia, senza la tua hemiolia che, pochi giorni fa, era ancora a Cartagine?

— Tu, — chiese un altr'uomo scendendo dalla scialuppa, — che io ho veduto col capitano Hiram nella villa del vecchio Hermon, mi dirai che cosa è accaduto di quel valoroso.

Sidone si voltò verso quel marinaio guardandolo attentamente.

— Ah! — gridò ad un tratto. — Il comandante dei mercenari che Hermon voleva avventare contro di noi. Ben felice di rivederti, signore.

— Dov'è Hiram? — chiese il veterano delle guerre d'Italia.

— Non sappiamo se sia vivo o morto. È un'istoria piuttosto lunga. Desidero da te una spiegazione.

— Parla.

— Come ti trovi, signore, sulla triremi del mio amico Aco?

— Io e tutti i capi dei drappelli, sapendo già che il vecchio Hermon non ci avrebbe risparmiati, abbiamo creduto più opportuno pensare alla nostra salvezza, imbarcandoci su questa nave che ieri sera aveva gettato le ancore a Utica, per salpare poi pei porti dell'Iberia all'alba.

— In quanti siete?

— In dodici.

— Allora ti dirò che Hiram è nelle mani dei cartaginesi, già da sette od otto ore. Lo hanno abbordato e preso e forse ucciso.

— Preso! — gridò il veterano. — E lo lascerai uccidere tu?

— Io!... T'inganni, signore!... Avevo chiamato il mio amico Aco perché mi desse una barca e alcuni uomini onde salvare il mio padrone, giacché io ero il suo fedele hortator.

— Sono ai tuoi ordini, Sidone — disse il fenicio.

— Aspetta prima d'impegnarti — rispose l'hortator. — Puoi attendere?...

— L'Iberia non scappa ed il mio carico non si guasta.

Sidone prese per una mano il veterano e trattolo da una parte gli raccontò quanto era avvenuto dopo il rapimento d'Ophir.

— Che Hiram sia morto, — disse il mercenario, quando lo ebbe ascoltato, — ne dubito. Da solo poteva affrontare una centuria romana. Con Cartagine io non ho più nulla a che fare. La mia daga lotterà oggi per l'amico; domani chissà se per l'Iberia, la Gallia, la Grecia o per l'Egitto. Noi siamo i senza patria che solo l'amor per la guerra ci spinge alla guerra.

— Tu dunque, capo, mi aiuterai nell'impresa?

— Io e i miei compagni siamo a tua disposizione.

— Ah!... Melkarth! Melkarth! — gridò Sidone alzando le mani. — Si vede che tu non abbandoni mai gli uomini che s'affidano alle onde dalle quali tu, possente divinità, sei sorta.

Poi volgendosi verso il veterano che lo guardava sorridendo, gli chiese:

— Tu mi hai detto che hai undici compagni.

— E tutti veterani delle guerre dell'Iberia e dell'Italia.

— E dieci ne ho io. Siamo in numero sufficiente per tentare un colpo di mano. Ora non si tratta che di sapere se Hiram è ancora vivo e dove l'hanno condotto. Aspettiamo che i miei uomini ritornino. Intanto procuriamoci una barca. Aco!...

— Amico — rispose il fenicio.

— Tu vai?...

— Nell'Iberia a vendere i miei vasi. Ne ho un buon carico.

— Il viaggio non è troppo lungo e puoi fare a meno della tua barca che è necessaria a me per tornare a Cartagine.

— A te, che un giorno mi strappasti dalle mani dei pirati che si preparavano a tagliuzzarmi la pelle come fossi una gallina, se ti facesse piacere, ti offro anche la mia triremi.

— Non mi occorre che una barca.

— È tua.

— Torna alla tua nave, mandami a terra i guerrieri di quest'uomo, — disse Sidone accennando al veterano — e che il dio del mare ti spinga presto senza tempeste, sulle coste dell'Iberia.

I due vecchi amici si abbracciarono, poi Aco riprese il largo.

Pochi minuti dopo gli undici compagni del veterano erano a terra, mentre la triremi riprendeva la corsa verso il capo occidentale dell'isoletta. Gli amici del capo erano tutti un po' attempati, ma robustissimi ancora, gente incanutita nelle battaglie, capaci di far ancora tremare formidabili nemici. Erano avanzi di quel famoso esercito che il grande Annibale, dopo d'aver disfatte più volte le legioni romane, aveva ricondotti in Africa per tentare, nell'infausta giornata di Zama, la salvezza ultima della repubblica cartaginese. Tirata la barca in secco, e nascostala dietro un'alta duna di sabbia, il drappello salì la collina rifugiandosi nella torre, dove già si trovavano i numidi mandati in cerca di viveri.

Fu subito tenuto consiglio fra i veterani, Sidone e Fulvia, e fu deciso di nulla intraprendere fino al ritorno dei messi, mandati in esplorazione sulle coste settentrionali dell'isola.

Non fu che dopo il mezzodì che ne giunse uno, trafelato dalla lunga corsa e madido di sudore dal capo alle piante. La sua prima parola fece strappare un grido di gioia a tutti:

— Il padrone è vivo!...

— Vivo! — esclamò Fulvia, portandosi una mano al cuore.

— Sì... sì... laggiù...

— Respira prima — gli disse Sidone.

Il numida aspirò tre o quattro boccate d'aria per prendere fiato, poi disse:

— È vivo... ferito però.

— Gravemente! — chiese Sidone.

— Non abbiamo potuto saperlo.

— Il padrone è un uomo troppo robusto per morire — disse l'hortator. — Basta per ora che non sia morto: questo è l'importante. Dove si trova?

— Nella fortezza dell'isola.

— Chi te lo ha detto?

— Un pescatore che ha veduto giungere una quinqueremi accompagnata da un'altra nave da trasporto e che ha veduto sbarcare un ferito.

— Era proprio il padrone poi quello?

— Mi ha dato tanti particolari sul ferito da non poterci ingannare. E poi basterebbe una sola cosa per dissipare qualsiasi dubbio.

— Quale? — chiese Fulvia.

— Noi numidi abbiamo tutti la pelle quasi nera, mentre quella del ferito era solamente un po' abbronzata.

— E non ha veduto sbarcare altri, quel pescatore? — chiese Sidone.

— No, pilota.

— Che cosa sarà accaduto dei nostri camerati? Che siano stati tutti distrutti?

— Non lo so, pilota.

— Tu non dubiti che quel ferito sia il padrone.

— È lui, — rispose il numida; — ne sono proprio certo. Me lo ha descritto troppo bene.

Sidone si volse verso il veterano:

— Tu, signore, conosci quella fortezza?

— Ci sono stato per due anni e conosco anche il passaggio segreto — rispose il vecchio guerriero.

— Se questa sera noi tentassimo il colpo, avresti nulla da dire?

— Che siamo tutti pronti a seguirti.

In quell'istante anche il secondo numida, non meno trafelato del primo, giungeva affannato.

— Il padrone è vivo! — gridò.

— Lo sappiamo — rispose Sidone. — Facciamo i nostri preparativi per andarlo a salvare.