Cartagine in fiamme/20. Il ritorno a Cartagine

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20. Il ritorno a Cartagine

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19. Una fuga miracolosa 21. Phegor e Fulvia

IL RITORNO A CARTAGINE


L'acatium era già lontano dall'isola: aveva già oltrepassata la punta più orientale e muoveva verso la penisola che s'allungava sul Mediterraneo, per gettarsi fuori dalla rotta tenuta ordinariamente dalle navi, che si recavano a Cartagine od a Utica.

Nessun pericolo pareva d'altronde che minacciasse i fuggiaschi, poiché nessuna quinqueremi o triremi era in vista.

Il veterano, soddisfatto dal suo esame, andò a sedersi presso Sidone il quale non cessava di battere il tempo, pur cambiando di quando in quando qualche parola con Fulvia, che stava appoggiata alla murata poppiera, presso il timoniere.

— Quando credi che giungeremo? — chiese all'hortator.

— Non prima di questa sera, signore. I tuoi uomini non potranno resistere quanto i miei numidi. Il remo stanca presto, quando non si è abituati a quella dura manovra.

— Sarebbe pericoloso entrare nel porto di giorno — rispose Thala. — Potrebbero accorgersi che noi non siamo marinai della repubblica.

— Sei sempre deciso a bruciare la nave?

— La nostra salvezza lo esige, hortator.

— Avrei preferito conservarla per condurre il padrone in Italia od a Tiro. Bah! Il capitano è ricco e potrà acquistare un'altra nave. Ha fondi a Cartagine e anche in Grecia. Appartiene ad una delle più cospicue famiglie di Cartagine, e suo padre era suffetto.

L'alba sorgeva annunciando una splendida giornata. La brezza che aveva cominciato a soffiare dopo la mezzanotte, aveva sgombrato il cielo dai vapori, che l'avevano invaso prima del tramonto, ed il sole sorgeva raggiante dal mare, tingendo le acque di miriadi di pagliuzze d'oro.

La costa, brulla, sabbiosa e affatto priva d'abitazioni, si disegnava vagamente tutta irta di collinette sabbiose. Solo qualche misera palma, mezzo intristita dagli implacabili raggi solari, stendeva il suo ombrello di foglie quasi avvizzite. L'acatium non avanzava però colla velocità primiera cominciando i guerrieri a cedere. D'altronde nessuno aveva fretta di scoprire le alte mura e le torri di Cartagine, e nessun pericolo li minacciava, ora che avevano privata la guarnigione della nave, che le doveva servire per comunicare con Utica. A mezzodì Sidone fece fermare l'acatium in una piccola baia deserta, onde concedere ai suoi uomini alcune ore di riposo.

Cartagine ormai non era lontana e potevano, con una buona corsa, raggiungerla dopo il tramonto. Quando il calore del sole cominciò a scemare, i fuggiaschi lasciarono indisturbati la minuscola baia, riprendendo la rotta verso la capitale della repubblica. Hiram, che sentiva bisogno di respirare aria libera, si era fatto portare in coperta, sul piccolo cassero di poppa, sdraiandosi su un materassino. Sidone aveva fatto inalzare su di lui un tendalino, per ripararlo dai raggi dell'astro. Fulvia, come il solito, si era seduta accanto a lui senza parlare. Già da qualche giorno uno strano mutamento era avvenuto nella giovane etrusca. Pareva che una profonda preoccupazione avesse spento in lei l'umore piuttosto gaio, che a Hiram tanto piaceva.

— Mi sembri triste fanciulla — le disse il capitano, dopo d'aver aspirato a pieni polmoni l'aria marina e d'aver osservato attentamente l'orizzonte. — Si direbbe che Cartagine non ti fa piacere.

Fulvia crollò silenziosamente la testa, guardando le piccole onde che si rincorrevano spumeggiando e sussurrando.

— Non rispondi? — chiese Hiram, sorpreso da quel mutismo.

— Cartagine! — rispose la fanciulla, con una certa ironia. — Quali gioie mi ha dato per rivederla volentieri? Solo la schiavitù. Se non avessi lasciata colà mia madre, non ti avrei seguito, Hiram. E poi — riprese dopo un breve silenzio — hai dimenticato Phegor?

— Non ti rivedrà più mai quel miserabile — disse Hiram.

— Quell'uomo mi fiuta da lontano. Sono certa che saprà ritrovarmi. Eh! Forse non lo rivedrò con dispiacere.

Hiram alzò il capo guardandola con sorpresa.

— Tu! — esclamò.

— Che cosa ci troveresti di strano?

— Non lo odii tu?

— Sì, un giorno posso averlo intensamente odiato.

— E oggi?

— Tu sai che le donne sono capricciose.

— L'ameresti forse, tu, romana? — esclamò Hiram.

— Non ti ho ancora detto questo — rispose Fulvia.

— Ma se hai detto or ora che non lo rivedresti con rincrescimento.

— Posso avere uno scopo.

— Quale?

— È necessario che io ti aiuti e quell'uomo bisogna ammazzarlo.

— Allora ti sacrifichi per me.

— Chi lo sa.

— Fulvia, tu non sei franca con me. Vedo nei tuoi occhi un lampo strano, che prima d'oggi non ho mai osservato.

— Le donne d'Italia hanno gli occhi diversi da quelli delle cartaginesi. I miei non somigliano a quelli d'Ophir.

— Non ti dico il contrario.

— Quelli bruciano il cuore degli uomini.

— E quelli delle donne di Roma, no forse?

— Si direbbe che non hanno una tale potenza.

— Non hai soggiogato Phegor, che è un cartaginese?

Un sorriso di sprezzo apparve sulle labbra della giovane etrusca.

— Una spia! — disse poi con accento beffardo.

— Sono appunto gli uomini più difficili a conquistarsi.

— Non lo amerò mai quel Phegor — disse Fulvia con voce stridula.

— Non potresti d'altronde amarlo.

— Perché? E se lo volessi, chi me lo impedirebbe? Tu, Hiram? Non ami Ophir tu?

— Non io, perché non ne avrei alcun diritto, quantunque, quand'io ti strappai dalla morte, m'abbi detto sul ponte della mia hemiolia: «io sono la tua schiava». Quando ti dirò il motivo per cui non potrai amarlo, vedremo se tu, fiera donna d'Italia, oserai guardare ancora gli occhi della spia del Consiglio dei Centoquattro.

— Sei tu ora che non sei franco con me, — disse Fulvia; — spiegati meglio.

— Non ora.

— Aspetterò — rispose la giovane. — Vedremo se io potrò o no amare quell'uomo.

Si staccò da Hiram, s'appoggiò alla murata poppiera e non parlò più. Pareva che si fosse immersa in profondi pensieri.

L'acatium intanto continuava la sua corsa sul mare tranquillo. Una grande calma regnava nel profondo golfo di Cartagine, rinserrato ad occidente dalla costa d'Utica ed a levante dalla lunga penisola protendentesi sul Mediterraneo. Il veterano, ritto sulla prora, scrutava attentamente l'orizzonte e Sidone, sempre seduto sulla sua panca, faceva risuonare la lastra di bronzo a colpi eguali. La costa era sempre deserta e sabbiosa, però sui declivi cominciavano ad apparire folti gruppi di palme e sulle alture, torri massicce, che dovevano servire, più che da difesa, da osservatori.

Il sole stava per scomparire, quando verso ponente si delinearono sul purissimo orizzonte, tutto rosseggiante, le alte mura di Cartagine e la collina della necropoli.

— Fra due ore ci saremo — disse Thala, avvicinandosi a Hiram.

— Dove approderemo? — chiese Sidone.

— Nel porto mercantile. Sarà là che daremo fuoco alla nave, così domani non rimarrà più nulla di questo acatium, e le nostre tracce saranno perdute.

— E noi, dove andremo? — chiese Hiram.

— Mia madre possiede una casupola — disse Fulvia facendosi innanzi. — Sarà ben felice di vederti, Hiram!

— Tua...

— Mia madre!

— Ah! — fece Hiram. — Non mi ricordavo più di lei. Sarà ancora sua la casa?

— E perché no? Gliela diede il suo padrone quando l'affrancò dalla schiavitù, nessuno quindi può avergliela tolta.

— E se tua madre non vi fosse più?

— Dove vorresti che fosse andata?

— Può essere morta.

— Quando mi strapparono al suo fianco, per condurmi sulla piazza di Baal-Molok, era ancora sanissima.

Hiram imbarazzato, sapendo il delitto commesso da Phegor, era rimasto silenzioso.

— La tua casa potrà contenerci tutti? — chiese il veterano.

— Non è troppo vasta; ma vi è un terrazzo sulla cima e là potranno acconciarsi quelli che non troveranno posto nelle stanzette.

— Andremo a casa tua — concluse Thala. — Sidone, torna al tuo posto e batti i colpi affrettati. Non desidero entrare nel porto troppo tardi o troveremo tutte le porte chiuse.

L'hortator non si fece ripetere l'ordine, e l'acatium aumentò considerevolmente la corsa, dirigendosi verso il porto mercantile, che si apriva dinanzi alla città; mentre quello da guerra s'allargava nello stagno interno, lungo il sobborgo chiamato Megara, che era uno dei più popolosi e dei più belli di Cartagine. Giunto all'imboccatura, Sidone lasciò il martello e afferrò il lungo remo che serviva da timone, e spinse risolutamente l'acatium nel canale, passando fra due triremi che erano ancorate all'estremità delle gettate e che, credendola in buona fede una nave mercantile, non si mossero nemmeno. Giunti in mezzo al porto mercantile, lontani dalle lunghe file di hemiolie e d'acatium, provenienti dai porti dell'Oriente, Thala fece andare le ancore e mettere in acqua la grossa scialuppa.

— Dov'è la tua casa? — chiese poscia a Fulvia.

— In una delle più deserte vie della Megara — rispose l'etrusca.

— Sapresti ritrovarla anche di notte? Prima che il sole sorga il nostro acatium deve essere scomparso.

— Saprei andarvi anche cogli occhi bendati.

— Imbarcatevi tutti — disse ai numidi ed ai guerrieri. — Io e Sidone basteremo.

Scese coll'hortator nella stiva, radunarono quanto legname riuscirono a trovare, vi rovesciarono sopra un barile di pece, vi diedero fuoco, poi risalirono lestamente in coperta e si lasciarono scivolare nella scialuppa, troncando la fune.

— Lesti — disse Sidone ai numidi. — Diritti al canale del porto interno.

Erano appena giunti dinanzi alle gettate, quando grida echeggiarono sulle navi ancorate nel porto mercantile.

Una densa nuvola di fumo, che aveva sinistri riflessi rossastri, sfuggiva a gran volute dai boccaporti, lasciati appositamente aperti da Sidone e dal veterano.

— Fra un paio d'ore lo scafo affonderà — disse l'hortator. — Nessuno riuscirà a salvare quel disgraziato naviglio.

Numerose scialuppe, staccatesi dalle due triremi e dalle navi mercantili, accorrevano da tutte le parti in aiuto dell'acatium o per lo meno del suo equipaggio; quando però giunsero sotto i fianchi, tutto il legno era in fiamme. Cortine di fuoco correvano da poppa a prora, illuminando sinistramente il porto. I fuggiaschi, imboccato il canale, che metteva in comunicazione la rada interna con quella esterna, filarono rapidamente sulla fronte delle navi da guerra, allineate dinanzi alle gettate e presero terra all'estremità occidentale del sobborgo.

— Ciò ci risparmia dal passare sotto le porte — disse Sidone.

Infatti la Megara non era compresa fra le fortificazioni di Cartagine, perciò trovavasi fuori dalle mura, quantunque potesse comunicare liberamente colla città, essendovi vasti spazi aperti, difesi solamente da torri staccate, non essendovi pericolo da quel lato.

Due numidi sollevarono Hiram, ed il drappello, preceduto da Fulvia, si mise rapidamente in marcia abbandonando la scialuppa che non era più d'alcuna utilità.

Dopo d'aver attraversato parecchie viuzze deserte, fiancheggiate da catapecchie semicadenti e da altre completamente rovinate, giunsero finalmente dinanzi alla casetta, dove alcuni giorni addietro si era fermato Phegor. La porta era ancora aperta e pareva che nessuno abitasse quella misera dimora. Fulvia, senza sapere il perché, si era fermata dinanzi al primo gradino, irresoluta.

— Che mia madre non vi sia più? — si chiese con angoscia, volgendosi verso Hiram e verso Thala.

— Saliamo e andiamo a vedere — disse Sidone.

Hiram era rimasto silenzioso; però i suoi occhi si erano fissati intensamente su quelli della giovane etrusca. Solo lui avrebbe potuto rispondere, ma non credette il momento opportuno.

Salirono la scala dopo d'aver chiusa la porta e giunsero al primo piano, formato da una sola stanza dove si trovava un misero letto. Sidone si spinse, con alcuni uomini fino al secondo, poi sulla terrazza e ridiscese dicendo:

— La casa è disabitata: non vi è nessuno.

— E mia madre? — gridò Fulvia.

— Io so che cosa è avvenuto di lei — disse finalmente Hiram, lasciandosi adagiare sul lettuccio.

Un uomo intanto aveva accese due lampade d'argilla che aveva trovato in un angolo.

— Accomodatevi come potete — disse Hiram, ai numidi ed ai guerrieri. — Lasciatemi solo con Sidone e Fulvia.

— A noi basta il terrazzo — rispose Thala. — Lassù avremo maggior frescura che qui. E poi questa casa è isolata dalle altre, vi sono dietro delle ortaglie abbandonate e nessuno si accorgerà della nostra presenza. Non potevamo trovare un luogo migliore per sfuggire alla ricerca. Buona notte, Hiram. Domani ci metteremo in campagna e cercheremo di scoprire Ophir.

Fulvia attese che tutti fossero usciti, eccettuato Sidone che si era seduto sulla soglia della porta, poi avvicinandosi con furia a Hiram e saettandolo con due occhi quasi feroci, gli chiese:

— Cos'è avvenuto di mia madre, giacché mi hai detto che tu lo sai?

— Una domanda prima — disse Hiram.

— Parla.

— Innanzi a tutto tu devi dirmi se è vero che ami Phegor.

— Quale interesse hai tu? Che cosa t'importa il saperlo?

— Lo saprai dopo: l'ami o no?

— Ma che cosa t'importa? — ripetè Fulvia quasi con ira. — Non ami Ophir tu?

— È vero.

— Allora lascia che il mio cuore palpiti per chi meglio mi piace. Io non sono più tua schiava, dal momento che mi hai rifiutata.

— Fulvia! — esclamò Hiram.

— Che cosa vuoi? — chiese la giovane etrusca, incrociando con una mossa nervosa le braccia e guardandolo beffardamente.

— Mi ameresti tu?

— Io? Una romana? Amare un cartaginese! Ah! Siamo nemici...

— E Phegor che cos'è adunque?

— Lui è un altro uomo — rispose Fulvia con voce secca, tagliente. — Le spie non hanno patria.

— È un miserabile!

— Ciò non m'interessa affatto.

— Un vile!

— Ve ne sono tanti al mondo.

— Tu non devi amarlo.

— Chi me lo impedirebbe?

— Io!

— Perché?

— Perché egli ha uccisa tua madre!

Fulvia vacillò portandosi le mani al petto e divenne spaventosamente pallida.

Stette un momento ritta, poi si appoggiò contro la parete guardando, cogli occhi dilatati, il capitano cartaginese.

Quella commozione profonda e terribile, ebbe però la durata di pochi secondi. L'etrusca si riaccostò ad Hiram e curvandosi sopra, gli chiese coi denti stretti: — Chi te lo disse?

— Lui, Phegor, la notte che incalzandolo colla spada, lo precipitai in mare presso il torrione della gettata.

La fanciulla si nascose il viso fra le mani; e Hiram vide trapelare attraverso le dita delle grosse lagrime che cadevano al suolo.

— Fulvia, — disse, — sono dolente di averti detto questo; ma almeno saprai chi è quella spia.

Fulvia staccò le mani. Non piangeva più e una fiamma sinistra balenava invece nei suoi occhi profondi.

— Quell'uomo mi ha rubata la vita e qualche cosa d'altro ancora! — gridò. — Domani sarò da lui.

— Per dirgli che è un assassino? — chiese Hiram.

— Tu non conosci Fulvia — rispose l'etrusca, che pareva in preda ad una viva esaltazione. — Quell'uomo è mio e rimarrà mio, lo voglio.

— Che cosa vuoi fare, fanciulla?

— Io sola lo so.

— Una tua parola potrebbe perderci tutti.

— Non uscirà dalle mie labbra.

— Pensaci, Fulvia.

— Sono etrusca e poi romana.

— E vuoi andarlo a trovare?

— È necessario.

— Perché?

— Se vuoi avere Ophir bisogna che lo riveda. Sai tu dove quella fanciulla si trova ora? A Utica od a Cartagine?

— E tu vorresti?

— Tutto vorrò.

— Per me?

— Non ti abbiamo salvato da una morte certa? Se mio padre non ti avesse raccolto e mia madre curato, saresti tu ancora vivo? No, saresti morto ignorato fra gli spasimi, fra i canneti del lago Trasimeno, in una pozza di sangue.

— E non bastava quello?

— La fanciulla che affrettò la tua guarigione ha altro da compiere ancora. Allora era il corpo ferito; ora è il cuore del guerriero che sanguina. La donna etrusca guarirà anche quello.

— Fulvia tu sei grande! — esclamò Hiram.

L'etrusca scrollò le spalle, mentre un amaro sorriso le sfiorava le labbra.

— Che cosa potrò fare io per te? Dimmelo, Fulvia.

— Non mi hai salvata la vita?

— Anche tuo padre salvò la mia.

— Senza esporsi a gravi pericoli, mentre tu affrontasti una popolazione intera.

— Sicché tu vuoi recarti da Phegor?

— Domani mattina.

— Non andarci: quell'uomo ti sarà fatale.

Fulvia per la seconda volta scrollò le spalle.

— Che m'importa — disse poi. — Chi ho ormai sulla terra io?

— Ed io?

— Oh! Tu ami Ophir e quando quella fanciulla sarà tua, te ne andrai ben lontano da Cartagine, se non vorrai perderla nuovamente.

— Tu avrai sempre un posto sulla mia nave e la protezione del mio braccio — disse Hiram.

— È troppo necessario a Ophir — rispose la giovane con sottile ironia. — E poi io voglio riposare sul suolo che ricopre la salma di mia madre.

— Tu rimarrai qui sola, esposta agli orrori della guerra, l'ultima forse, che combatterà Cartagine?

— Hai detto? — chiese la giovane rialzandosi di scatto.

— I tuoi muovono nuovamente alla conquista della mia patria.

— I romani?

— Sì, i nostri eterni nemici.

— Cartagine ancora assalita! — esclamò poscia, quasi con gioia selvaggia. — La patria della tua Ophir!

— Tutti lo affermano — disse Hiram con voce triste.

— Allora è più che mai necessario che io veda Phegor — disse tranquilla. — Sidone veglia su di te.

E uscì dalla stanzetta senza aggiungere altre parole, salendo al piano superiore dove si trovava il suo lettuccio.

Sulla terrazza, i guerrieri di Thala ed i numidi, affranti dal faticoso maneggio dei remi, dormivano già profondamente russando.