Cartagine in fiamme/21. Phegor e Fulvia

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21. Phegor e Fulvia

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20. Il ritorno a Cartagine 22. Roma alla conquista dell'Africa

PHEGOR E FULVIA


L'indomani Fulvia, senza aver avvertito nessuno, dormendo ancora tutti, lasciava la sua catapecchia allontanandosi rapidamente attraverso le deserte viuzze della Megara.

Rimontava verso le mura che da quella parte difendevano il porto militare; mura formidabili, alte quindici metri, formate da enormi blocchi di pietra e disposti su tre ordini con molte torri quadrate, sulle quali i cartaginesi tenevano le loro catapulte, per proteggere efficacemente le loro navi da guerra. Attraversata una delle porte, guardata da un manipolo di mercenari, prese la vasta strada che conduceva alla Borsa, ossia alla cittadella sulla cui cima torreggiava il famoso tempio d'Esculapio, una delle maggiori meraviglie di Cartagine. Quantunque il sole si fosse alzato da poco, una animazione regnava in quella via che formava una delle principali arterie della popolosa città, mettendo sulla immensa piazza del mercato dove s'affollavano, dall'alba al tramonto, i mercatanti fenici.

Lunghe file di schiavi coperti dal semplice perizoma dei cartaginesi e carichi d'ogni genere di merci, passavano scortati da aguzzini che non risparmiavano loro colpi di frusta, senza fare distinzione fra negri e bianchi; poi drappelli di soldati che, discutendo vivamente sulle pessime notizie giunte dall'Italia, guidavano colossali elefanti, che portavano sui loro massicci dorsi macchine guerresche. Fulvia, che camminava come se fosse in preda ad una specie di sonnambulismo, lasciandosi urtare dalla folla, giunta in una delle vie laterali del mercato, si arrestò dinanzi ad una casa a vari piani, che somigliava ad una torre, essendo altissima e strettissima, e che aveva un aspetto triste.

— Vado a gettare la mia sorte — mormorò passandosi e ripassandosi una mano sulla fronte. — Tutto è finito!

Si ravviò i capelli puntandoli intorno ad uno spillone di bronzo, che aveva sulla cima la testa d'un ariete; s'accomodò le vesti, e poi con un modo deciso lasciò cadere il martello di rame su una placca d'egual metallo, che ornava la porta.

Il suono non si era ancora dileguato, quando un uomo comparve sulla soglia esclamando con stupore:

— Tu?...

— Sì, io — rispose Fulvia, cercando di mostrarsi tranquilla.

— Entra — disse la spia.

Rinchiuse la porta, salirono una stretta gradinata, ed entrarono in una stanzuccia, dove non vi erano che alcuni scanni di legno e armi appese alle pareti e molte armature.

Phegor si era fermato in mezzo colle braccia incrociate e la fronte burrascosamente aggrottata.

— Tu! — ripetè.

— Sì, io — rispose nuovamente l'etrusca. — Non mi aspettavi, è vero?

— Vedi bene che io dubito persino che tu sia Fulvia; mi domando anzi se ho dinanzi una visione od una donna di carne ed ossa.

— Sono viva — rispose l'etrusca sedendosi, o meglio lasciandosi cadere su uno scanno.

— Ma da dove vieni tu?

— Dal mare.

— Non ti aveva rapita l'esiliato, insieme con Ophir?

— Lo avevi supposto?

— Ti ho veduta io a fuggire con lui, poco dopo il giuramento fattomi. Ah!... Se ti avessi raggiunta, — esclamò la spia con accento feroce, — a Cartagine non vi sarebbe più una Fulvia etrusca.

— M'avresti uccisa, come...

L'etrusca si era prontamente morsa le labbra. Fortunatamente Phegor non aveva rilevato quel «come».

— Se ti avrei uccisa! — gridò digrignando i denti. — Anche se tu fossi riuscita a lasciare l'Africa, non ti avrei dimenticata. Avevo fatto un orribile giuramento: quello di offrirti al fuoco divorante di Baal-Molok. Sarei stato capace di venire a cercarti perfino entro le mura della tua orgogliosa Roma.

— Sicché ho fatto bene a ritornare — disse Fulvia beffardamente.

— Sì, perché non mi sarei giammai consolato della tua morte.

— Tanto mi ami dunque?

— Tanto, che per te rinnegherei la mia patria e non esiterei a diventare un romano.

— Mi piace saper ciò.

— Perché? — chiese Phegor con inquietudine.

— Almeno mi darai una prova di questo tuo amore.

— Te ne ho date.

— Quando?

— Lasciando fuggire quel maledetto capitano, mentre avrei potuto farlo arrestare durante il banchetto.

— E riprenderti la rivincita più tardi, è vero Phegor? — chiese Fulvia, con ironia.

— Tu crederesti...

— Che la spia del Consiglio dei Centoquattro abbia subito avvertiti i mercenari che stavano nascosti nei giardini della villa.

— Ah... Fulvia!...

— Ti conosco, Phegor.

— T'inganni: sei ingiusta.

— Lasciamo andare: io non sono qui venuta per farti dei rimproveri, bensì per mantenere il mio giuramento e per assicurarmi con una prova, se tu veramente mi ami.

— Parla dunque.

— Che cos'è avvenuto d'Ophir? — chiese Fulvia.

— T'interessi ancora della figlia di Hermon? — chiese Phegor con una certa sorpresa.

— Più di quello che credi. È viva o morta?

— È stata salvata a tempo, mentre stava per annegarsi.

— Dove si trova ora?

— Tu vuoi che tradisca i segreti di chi mi paga.

— Ti rifiuteresti di darmi una prova della tua immensa affezione per me?

Phegor ebbe una breve esitazione, poi rispose:

— È qui, in Cartagine.

— Nel palazzo di Hermon?

— Non lo so ancora.

— Sposa?

— Il vecchio ha ben altro da fare in questo momento che d'occuparsi del matrimonio di Ophir.

— Lo so.

— Chi te lo disse?

— Ciò non ti deve importare.

— Il suo fidanzato è anche lui vivo?

— Sì, anzi sono i suoi servi che vegliano sulla sicurezza d'Ophir. Ha paura del capitano, di quell'Hiram, mentre si dice che sia morto.

— Lui!... è qui invece.

— A Cartagine? — esclamò Phegor, balzando in piedi. — Per la dea Istar! È un essere invulnerabile? Come è riuscito a sfuggire alla morte, la notte che fu assalito? Io so che era stato portato nella fortezza di Argimurus in fine di vita.

— L'avranno creduto moribondo, mentre non lo era affatto — rispose Fulvia.

— Ed è fuggito?...

— Se ti dico che è qui.

— L'hai proprio veduto tu?

— L'ho lasciato poco fa.

Una bestemmia sfuggì dalle labbra della spia. Afferrò Fulvia pei polsi e la scosse brutalmente dicendo:

— Tu mi dirai dove si trova. Ho un vecchio conto da saldare con lui.

— Io invece non ti dirò nulla — rispose l'etrusca con voce calma.

— No?...

— No.

— Maledetto Baal-Molok! — bestemmiò Phegor furibondo. — Che io non possa spezzare mai la tua resistenza?

— È questa la prova del tuo affetto per me? — chiese Fulvia con sarcasmo.

Quelle parole furono come tante gocce gelate per Phegor. Lasciò i polsi della giovane e fece alcuni passi indietro.

— Hai ragione, — disse poi; — sono irascibile e troppo cattivo.

Tornò a sedersi di fronte a Fulvia, attese qualche istante per riacquistare il suo sangue freddo, poi chiese:

— Infine che cosa vuoi da me? Non abusare però della passione terribile che tu mi hai acceso in cuore.

— Che tu mi aiuti a far felice l'esiliato.

— Io?

— Io farò felice te: lo sa anche lui.

— L'ameresti tu?...

— Sei stupido, Phegor? — rispose Fulvia con un certo disprezzo. — Se io l'amassi non lo aiuterei a conquistare Ophir.

— Ancora Ophir?

— Si amano.

— Lo so — disse Phegor.

— Tu devi aiutarla a fuggire.

— Dalla casa del vecchio Hermon?

— È necessario.

— Sarebbe un tradimento. Hermon mi paga.

— Ed Hiram ti darà il doppio.

— La cosa allora è diversa; tuttavia l'impresa non sarà facile. Come potrei io solo farla fuggire?

— Avrai aiuti finché vorrai, uomini scelti, gente di spada che non darà indietro dinanzi a nessun pericolo.

— E quando Hiram l'avrà in sua mano?...

— Quando egli e la sua fidanzata saranno in salvo, e la loro nave si sarà allontanata...

Un sordo singhiozzo aveva interrotta la frase. Gli occhi di Fulvia si erano coperti d'un velo umido.

— Si direbbe che piangi — disse Phegor aggrottando la fronte.

— T'inganni — rispose Fulvia con un sorriso forzato. — Pensavo in questo momento alla mia Etruria, dove loro, sposi felici, andranno a soggiornare, mentre io dovrò rimanere qui straniera, su una terra che non è mia.

— Nessuno ci impedirà di lasciare Cartagine — disse Phegor che era diventato improvvisamente cupo. — Chissà se allora, di questa immensa città, rimarrà una pietra. Continua.

— Quando saranno partiti io sarò tua.

— Basta, però se tu dovessi ingannarmi, io mi vendicherò di te.

— So chi sei.

Phegor si era alzato.

— Questa sera tu tornerai qui — disse. — Vedrò che cosa potrò fare. Il capitano pagherà, è vero?

— Quello che vorrai.

— Allora si può tradire anche Hermon — disse Phegor.

Un sorriso di sprezzo comparve sulle labbra dell'etrusca.

— Vile! — mormorò poi fra sé.

A sua volta si era alzata.

— A questa sera — disse. — Addio Phegor.

Uscì senza volgersi indietro, scese frettolosamente la scala e s'allontanò attraverso le viuzze della bassa Cartagine. Camminava colla testa bassa e, di quando in quando, calde lagrime cadevano sulla sua bianca veste.

— La punizione sarà terribile — mormorava. — Addormentati e vedrai di che cosa sarà capace una donna dell'Etruria!

Aveva raggiunte le grandi arterie della città. Gruppi di persone le ingombravano, discutendo ad alta voce, la via. Soldati e borghesi parevano in preda a una viva eccitazione, e tutti i volti erano cupi, come se qualche tremenda calamità stesse per piombare sull'opulenta colonia fenicia. Una parola colpì Fulvia:

— La guerra!

Infatti terribili avvenimenti erano accaduti il giorno innanzi, spargendo un profondo terrore fra la popolazione.

L'esercito cartaginese, stanco delle ruberie che Massinissa da tempo compiva coll'appoggio e l'approvazione di Roma, a danno della repubblica fenicia, era stato, ventiquattro ore prima, terribilmente sconfitto.

Cinquantamila uomini, scelti fra il fiore delle truppe mercenarie dei cartaginesi, erano stati tremendamente battuti sotto Oroscopa, dalle falangi del vecchio re numida; e, come se quel disastro non bastasse, lo stesso giorno, Roma aveva dichiarata la guerra alla disgraziata repubblica.

Quando Fulvia rientrò nella sua catapecchia, trovò tutti i compagni di Thala intorno ad Hiram.

Anche là dentro era penetrata la notizia della disastrosa sconfitta delle truppe cartaginesi; e quegli uomini di guerra discutevano, non meno degli altri, sul grave avvenimento. Vedendo l'etrusca tacquero tutti, interrogandola cogli sguardi.

— L'ho visto — disse la giovane accostandosi ad Hiram, che appariva più pallido del solito.

— Chi?

— Phegor.

— Ophir?

— Viva.

Un grido di gioia sfuggì dal petto del guerriero.

— Viva!... Viva! — esclamò, mentre un intenso rossore gl'imporporava il viso. — Tu Fulvia mi ridai la vita!

— È qui, ma non so ancora dove, — rispose Fulvia: — e Phegor me l'ha confessato.

— E tu hai osato rivedere quell'uomo? Se ti avesse uccisa?

Fulvia alzò le spalle.

— Una schiava di meno! — disse poi.

— Sei libera ora.

— Ah!... È vero.

Si sedette accanto al letto di Hiram e gli narrò il colloquio che aveva avuto colla spia.

— Pagalo ed egli sarà nostro — concluse. — Mezza della mia fortuna è sua, purché Ophir sia mia.

— Ed un buon colpo di daga dopo — aggiunse Sidone. — M'incarico io di regalarglielo.

— Soprattutto affrettiamoci — disse il veterano. — Avanti che le navi romane giungano in vista di Cartagine, noi dobbiamo aver finito ogni cosa. La città non potrà reggere a lungo all'urto della potenza romana.

— E dovremo noi fuggire? — chiese Hiram con dolore. — Il mio sangue si ribella ad un tale pensiero.

— E che cosa vorresti fare Hiram? — chiese Thala un po' cinico. — Andare a offrire la tua spada ed il tuo braccio al Consiglio dei Centoquattro ed ai Suffetti, a quella gente che ti esiliò a Tiro come un pericoloso, perché avevi combattuto per la gloria e la grandezza di Cartagine col grande Annibale?

— Qui non si tratta né di consiglieri, né di Suffetti — rispose Hiram. — È l'esistenza della patria che è in giuoco.

— Se io fossi al tuo posto non darei più una stilla di sangue ad una patria così ingrata e così vile, da denunziare a Roma le pretese di Annibale, che altro non mirava che alla salvezza di Cartagine e che abbandonò al suo destino, costringendolo a suicidarsi per non cadere vivo nelle mani dei suoi nemici, che tante volte aveva sconfitti. Occupati di Ophir e lascia che questi orgogliosi mercatanti, se la cavino come potranno.

Hiram scrollò la testa senza rispondere.

— È vero che non merita il tuo aiuto! — insistette Thala.

— Quando credi che io possa essere guarito? — chiese il cartaginese.

— Fra dieci giorni, io spero.

— È giunta la dichiarazione di guerra, che tu sappia?

— Non lo credo: per ora non deve trattarsi che d'una minaccia. I numidi però, che hanno ora debellato l'esercito cartaginese, non rimarranno certo colle mani alla cintola. Conosco troppo bene l'odio intenso che nutre verso la tua patria il vecchio Massinissa.

— Ragion di più per difendere la patria — rispose Hiram.

— Tu mediti qualche colpo di testa.

— Non lo nego.

— Non fidarti dei tuoi compatrioti.

— Non rifiuteranno un guerriero di più.

— E valoroso come sei tu — disse Fulvia.

— Tu farai quello che vorrai — disse il veterano. — Prima che la guerra venga dichiarata, passerà non poco tempo e quando tu avrai Ophir, vedremo quale idea prevarrà e se tu...

Un colpo secco, battuto alla porta, interruppe il vecchio guerriero.

Tutti si voltarono mettendo mano alle daghe ed un grido di stupore sfuggì da tutte le bocche:

— Phegor!

La spia dei Centoquattro era comparsa sulla soglia.

— Tu qui! — esclamò Fulvia muovendogli incontro minacciosa. — Come hai saputo che noi siamo in questa casa?

— Non ho fatto altro che seguirti — rispose Phegor. — D'altronde non è la prima volta che vengo in questa catapecchia.

— Bada che non sia anche l'ultima — disse Hiram facendo un segno ai suoi numidi.

Sidone e cinque dei suoi uomini erano passati rapidamente dietro a Phegor per impedirgli di uscire.

La spia non si turbò affatto di quella mossa.

— Vengo da... mettiamo pure da amico, se non vi spiace — disse col suo solito accento beffardo.

— Che bell'amico! — esclamò Sidone.

— Tu sei nato per fare il marinaio, gli altri i guerrieri, io la spia — rispose Phegor. — Anche il mio è un mestiere e talvolta più necessario del tuo.

— Che cosa vuoi da noi? — chiese Hiram alzandosi da sedere. — Sei venuto per tradirci?

— Ti ho detto che vengo da amico. Questa volta sarà il vecchio Hermon che tradirò invece. L'ho promesso a quella fanciulla e manterrò la promessa! Purché tu...

— Lo paghi — disse Fulvia, con disprezzo velato.

— Phegor è abituato a vendere i suoi servigi — rispose la spia.

— Un talento ti basterebbe? — chiese Hiram.

— Non ne guadagno uno in cinque anni — rispose Phegor. — Tu paghi come un re.

— E ci aiuterai a rapire Ophir?

— M'impegno io di dartela nelle mani, purché i tuoi amici mi aiutino. Non l'avremo senza lotta, perché il suo fidanzato ha preso le sue precauzioni onde non gliela portino via.

— Quando ne avrai bisogno, i miei numidi e i miei guerrieri, saranno a tua disposizione — disse Hiram.

— Non sarà però né per oggi né per domani — disse la spia, la cui fronte si era oscurata. — Noi dovremo attendere che un terribile avvenimento, già non lontano, piombi su Cartagine e faccia perdere la testa al vecchio Hermon, a Tsour, al Consiglio e anche a tutta la popolazione.

— Che Roma dichiari la guerra? — chiese Hiram.

— Che la dichiari! — esclamò Phegor. — La repubblica ormai si è data nelle mani dei romani.

— Che cosa dici tu?

— Gli ambasciatori che abbiamo spediti a Roma, per reclamare contro le continue spogliazioni che Massinissa compie a nostro danno, sono tornati la scorsa notte.

— E che cosa hanno ottenuto? — chiese Hiram con voce sibilante.

— Patti vergognosi! — rispose Phegor. — Cartagine è ormai nelle mani di Roma. Come stato non esiste più.

— È impossibile!...

— È come ve lo dico: si è messa a discrezione del Senato romano.

— Senza combattere! — gridò Hiram.

— E chi avrebbe combattuto? Non abbiamo più esercito.

— E la flotta?

— Senz'armi che cosa potrebbero fare i nostri marinai?

— Senz'armi, hai detto?

— Il Consiglio si è impegnato di consegnare ai romani tutto quello che possediamo. Domani duecentomila armature, tutte le spade, le lance, le azze e perfino le macchine guerresche, verranno imbarcate, insieme con trecento ostaggi e spedite in Italia.

— Ed ora che il nostro popolo è inerme...

— Roma c'intima la guerra — disse Phegor.

— È una infamia! — esclamò Fulvia. — Roma si disonora.

— Quelli sanno fare bene i loro affari — rispose Phegor con una certa noncuranza. — Suonano per Cartagine gli ultimi giorni di vita.

— Non cadremo senza lotta — gridò Hiram. — La mia spada sarà ai servigi della patria ancora una volta, dovessi perdere Ophir. Thala, bisogna che io guarisca tosto.

— Sempre eroe! — mormorò Fulvia guardandolo con ammirazione.

— Addio signore — disse Phegor. — Presto avrai mie nuove e allora ti dirò dove hanno nascosta Ophir. Per ora ti basti sapere che si trova qui e che è viva.