Cartagine in fiamme/3. La spia del Consiglio dei Centoquattro

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3. La spia del Consiglio dei Centoquattro

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3. La spia del Consiglio dei Centoquattro
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LA SPIA DEL CONSIGLIO DEI CENTOQUATTRO


Hiram, udendo la risposta datagli da Sidone, si voltò a guardare la giovane etrusca, che si era appoggiata alla murata di babordo, fissando i suoi sguardi sulla calata, con profonda angoscia.

— Phegor! — disse. — È dunque pericoloso quell'uomo, Fulvia?

— Sì, Hiram. Ti ho detto che egli è una spia del Consiglio dei Centoquattro.

— Cartaginese, lui?

— Sembra che sia un suddito di Massinissa.1

— Ah! — fe' il cartaginese. — Il nostro vecchio e feroce nemico. Dove l'hai conosciuto tu?

— Frequentava la casa del generale Famea, della cui moglie ero schiava.

Un sorriso di profondo disprezzo apparve sulle labbra del cartaginese.

— Famea! — ripetè. — Ecco il generale su cui contano questi mercatanti. Ci vuol ben altro per le legioni romane! Quell'uomo puzza di traditore ed il grande Annibale non s'ingannava mai sui suoi pregiudizi. Che cosa vuole quel Phegor da te?

— M'ama.

— Un simile miserabile! E tu?

— Quando egli mi parlava del suo amore, — disse Fulvia con voce triste, — io pensavo alla mia bianca casetta, al mio giardino profumato, al mio lettino su cui languì il forte guerriero cartaginese...

— A me pensavi?

— A te!

Hiram si passò una mano sulla fronte, mormorando:

— Terribile destino! Troppo tardi!

Poi tornando a guardare Fulvia le chiese:

— E tu credi che mi tradirà?

— Io non lo so, eppure ho paura di quell'uomo.

— Che non è stato capace di salvarti dalle fauci di Baal-Molok — disse Hiram con una certa ironia. — L'uomo è molto forte?

— Se non è forte è pericoloso e te lo ripeto, guardati da lui!

— Al momento opportuno saprò ucciderlo — rispose Hiram. — Va' a riposarti Fulvia: qui non corri alcun pericolo. I miei cinquanta numidi, che mi sono devotissimi, veglieranno su di te e non si lasceranno sorprendere da nessuno.

La giovane si allontanò silenziosamente, accompagnata da Sidone che era stato incaricato di condurla in una delle cabine di poppa.

Hiram era tornato a sedersi sulla banchina dell'hortator, prendendosi la testa fra le mani.

Quando Sidone ritornò era ancora là, cogli sguardi fissi sul colombo che continuava a tubare per la coperta, nessuno essendosi più occupato di lui.

— Padrone, — disse il vecchio ed atletico pilota, cercando di attenuare il tono rude della sua voce, — che cos'hai deciso?

— Che domani a notte io andrò a trovare Ophir.

— E se ti sorprendessero? Tu non sei stato graziato e se sapessero che sei qui non ti risparmierebbero.

Hiram alzò le spalle.

— Che importa a me la morte — disse poi con voce triste. — Che cosa sarebbe la mia vita senza Ophir? Senza il suo dolce sguardo mi troverei come smarrito in una eterna tenebra. Vili mercatanti, che hanno bisogno delle nostre braccia per difendere i loro traffici e poi ci disprezzano, come se il nostro sangue non valesse il loro.

— Tu l'avrai egualmente, padrone — disse l'hortator, commosso dallo scatto d'ira del fiero guerriero. — Il padre della fanciulla ignora la tua presenza e nessuno ha sospetti su di noi. Forse che i fianchi del nostro naviglio non racchiudono merci di Tiro? Chi non può crederci onesti trafficanti? Vengano a bordo e noi venderemo.

— Sì, tu hai avuto una buona idea, Sidone. Mi occorrono cavalli. Puoi tu procurarmeli per domani, dopo il tramonto?

— È cosa facile, padrone.

— Mi accompagnerai?

— Anche nel deserto dei mauritani, se tu lo vorrai.

— Devo rivederla!

— E se la sposassero?

Un lampo terribile incendiò gli occhi del cartaginese.

— Ho cinquanta uomini, — disse poi, — vedremo se saranno veramente devoti.

— Lo dubiti?

— No, Sidone.

— Quando tu comanderai sapranno morire da prodi. Io ne rispondo e sono un numida al pari di loro. Va' a dormire, padrone. Veglio io e puoi fidarti di me.

— Se odi ancora quel maledetto cantore, uccidilo. Egli rappresenta il pericolo.

— Chiamerò in coperta dieci uomini e se ritorna non so se rientrerà in Cartagine. Riposa tranquillo, padrone.

Hiram prese fra le mani il colombo e discese la stretta scala che conduceva nelle cabine di poppa.

La notte passò, contrariamente ai timori manifestati dal guerriero cartaginese, tranquillissima.

Phegor non si fece più vedere, né la sua voce si fece udire fra il sussurro delle onde del porto Mercantorum, come lo chiamavano i romani. L'alba sorgeva rapidissima, diffondendo le sue tinte rosee pel cielo limpidissimo e colla comparsa delle prime luci, tutto il porto si svegliava. Torme d'uomini sbucavano dai boccaporti delle navi, ancorate su una triplice linea dietro i vascelli da guerra che, durante la notte, si allineavano dinanzi all'imboccatura del porto onde preservare la città da un improvviso colpo di mano da parte dei romani, fidandosi i cartaginesi ben poco della pace pattuita, dopo che il Senato della potente repubblica latina aveva manifestata l'intenzione di distruggere perfino l'ultima casa di quei fortunati trafficanti.

Sulle calate che si estendevano dinanzi alle muraglie merlate e massicce, lunghe file di schiavi giungevano da tutte le parti. Erano quasi tutti prigionieri di guerra, in attesa di sbarcare i preziosi tessuti provenienti dalle isole dell'Arcipelago greco e dai porti dell'Asia Minore, o lo stagno od il rame che quegli arditi fenici andavano ad acquistare nella lontana Inghilterra, od in quel misterioso continente che estendevasi tra le coste dell'Africa e dell'America, e che doveva essere quell'Atlantide scomparsa più tardi, non si sa come, sotto i flutti, senza lasciar traccia di sé.

Hiram che, come tutti i naviganti, era abituato a dormire pochissimo, era salito in coperta mentre i suoi uomini traevano dalla stiva, disponendoli lungo i bordi, grossi colli che altri marinai subito aprivano traendo delle statuette di pietra, di bronzo, d'avorio o di terracotta, articolo molto ricercato in quei tempi e che costituiva un commercio fiorentissimo, non avendo i fenici rivali nella fabbricazione di quelle minuscole divinità, che trovavano largo spaccio fra le popolazioni africane e anche fra gl'iberi ed i galli.

Ora invece traevano da quei colli superbi vasi di vetro o di bronzo, meravigliosamente lavorati dagli abili artefici di Tiro; terraglie di squisita manifattura, e svariati oggetti d'avorio per la toletta delle ricche cartaginesi, o quelle anfore d'oro e d'argento che formavano l'ammirazione di tutti i popoli del bacino del Mediterraneo, fino da epoche oltremodo lontane; o armi provenienti da Cipro, formate con quel bronzo fenicio che per la sua tempra si distingueva fra tutti gli altri.

Oppure spiegavano al di fuori dei bordi, per meglio attrarre l'attenzione dei compratori, immense fasce di porpora, quella stoffa meravigliosa che solo i fenici sapevano tessere e tingere.

Hiram, che per quanto guerriero, non si scordava di appartenere ad un popolo di mercatanti, sorvegliava attentamente quell'esposizione di oggetti scomparati, eppure meravigliosi, premendogli anche di nascondere, agli sguardi degli equipaggi delle vicine navi, il suo vero essere.

Pareva che avesse perfino dimenticato la giovane romana e gli avvenimenti della notte. Ciò d'altronde non doveva stupire, poiché i fenici ed i cartaginesi che formavano una colonia dei primi, prima di essere guerrieri erano grandi trafficanti.

La sola idea di vendere li assorbiva tutti e non era raro il caso che in mezzo alle più sanguinose battaglie discutessero di traffici, né più né meno di quello che fanno oggidì gli americani del settentrione. La voce di Fulvia lo interruppe però dalle sue attenzioni.

— Ecco una nave da guerra tramutata in un mercato — disse la romana, non senza un leggero accento ironico.

— Ah! Tu Fulvia — rispose il cartaginese che stava osservando una magnifica collezione di pettorali adorni di pietre preziose, di anelli, di braccialetti e di collane d'ambra. — Tu non meravigliarti di questa esposizione dei prodotti delle famose fabbriche di Tiro. Oggi devo figurare un mercatante e non già un guerriero.

— Che splendide porpore!

— Ve n'è anche per te.

— Per me! Una povera fanciulla dell'Etruria coprirsi di queste stoffe meravigliose!

— E perché no?

— Non sono una nobile io.

— Nessuno m'impedirebbe di crearti tale — rispose Hiram, guardando la bella fanciulla. — Forse che non potrei imbarcare qualche principessa di Tiro o di Cipro?

— Una povera contadina...

— Romana.

— Che vuoi dire?

— Lo so io: una razza privilegiata che purtroppo debellerà il mondo.

— Anche Cartagine?

— Cartagine! — esclamò Hiram con amarezza. — Quelle mura che sembrano siano invincibili, un giorno crolleranno sotto gli sforzi inumani della tua razza. Questo popolo di mercanti che disprezza le armi, la forza, l'audacia, che ha abbandonato al suo destino il grande Annibale che avrebbe potuto fiaccare per sempre la potenza romana e che in premio delle sue vittorie esiliò nell'Asia lontana, un giorno andrà ramingo pei lidi sabbiosi di quest'Africa, che ci nutrì e che ci diede la ricchezza. Hiram legge nel futuro: Cartagine diventerà un nido di sparvieri e più mai la sua bandiera mostrerà i suoi colori sulle cerulee onde del Mediterraneo.

— Eppure anche tu sei un trafficante — disse Fulvia. — La tua nave è piena dei meravigliosi prodotti dei porti del Levante.

Hiram guardò Fulvia quasi con stupore, poi tratta la spada di bronzo che portava alla cintura, con pochi colpi tagliò i ricchissimi drappi di porpora che i suoi marinai avevano spiegati sopra i bordi, lasciandoli cadere in mare.

— Sono tessuti che solo Tiro può dare, — disse, — e che valgono bei talenti. Ecco che cosa ne fa un guerriero delle sue merci. Le offre, senza rimpianto, alle onde.

— Perché Hiram? — gridò Fulvia che si era curvata sulla murata, guardando con angoscia quelle stoffe preziose scomparire sotto i flutti.

— Lì dimostro che un guerriero non potrà mai essere un mercatante — rispose il fiero cartaginese. — Vendo per ingannare: le mie mani conoscono l'arco, la mazza, la lancia e la spada e non la misura.

Un grido che s'alzava di sotto la nave lo interruppe:

— Si vende costà?

Hiram si era curvato sulla murata. Una scialuppa aveva abbordato l'hemiolia cozzandovi contro con violenza, per attrarre l'attenzione dell'equipaggio. La montavano quattro remiganti e sette od otto mercatanti avviluppati in ampie vesti che coprivano parte dei loro visi.

— Sì, qui si vende — rispose subito Sidone. — Vasi, gioiellerie, oggetti d'avorio, stoffe, terraglie, tutto insomma ciò che producono gli inarrivabili artefici di Tiro e di Cipro.

— Lascia cadere la scala: abbiamo denaro da spendere.

— E noi premura di vendere — rispose Sidone, mentre i suoi uomini lasciavano andare le scale di corda.

Tre uomini, due attempati ed uno che pareva giovane, quantunque procurasse di tenersi il mantellone molto alzato sul viso, salirono a bordo dell'hemiolia, la cui coperta era ormai ingombra di merci.

Fulvia aveva subito fissati i suoi sguardi sul più giovane dei tre mercanti e aveva provato un brivido così forte che non era sfuggito a Hiram.

— Che cos'hai? — gli chiese il cartaginese.

— Lui!

— Chi lui?

— L'uomo che ieri sera ci ha seguiti.

— Phegor?

— Sì, lui.

— Lo uccido.

— Qui, in pieno giorno, colle navi da guerra così vicine? Tu ti esporresti al pericolo di tradirti Hiram: egli è una spia del Consiglio dei Centoquattro.

— Forse hai ragione, Fulvia — rispose il cartaginese. — Questo non è il momento per spacciarlo, ma se fosse venuto qui per ridarti nelle mani dei sacerdoti di Baal-Molok?

— Se ti ho detto che mi ama alla follia!... Ha tutto l'interesse di salvarmi anziché di perdermi.

— E perché è venuto qui?

— Forse per parlarmi.

— Indicamelo.

— È il più giovane dei tre, quello che è camuffato da mercante numida.

Hiram si volse lentamente e osservò i tre mercanti che stavano esaminando i vasi di metallo e di vetro, le terraglie e le stoffe che Sidone mostrava loro, vantando il loro valore e la loro finezza. Phegor fingeva d'interessarsi, mentre invece di quando in quando sbirciava intensamente la giovane etrusca, saettandola coi suoi piccoli occhi nerissimi, che avevano il lampo di quelli dei serpenti.

Era un giovanotto di venticinque o vent'otto anni, dai lineamenti duri e angolosi, colla pelle assai abbronzata e di statura alta.

Era magro e muscoloso come un vero mauritano e al pari di quei fieri scorridori dell'Atlante, portava un ampio mantello di tela grossolana, di colore oscuro, con un largo cappuccio che gli nascondeva quasi interamente il viso.

— Il tipo del vero traditore — disse Hiram, facendo un gesto di disgusto. — Quell'uomo deve avere il cuore perverso come quello delle iene. L'ami tu Fulvia?

— Io! Un'etrusca!

— Allora lo temi.

— Sì e molto.

— Accostalo: vediamo che cosa vuole da te, sta' però in guardia a non lasciarti sfuggire nulla sul conto mio.

— Non temere — rispose la giovane.

Si era staccata dalla murata di poppa avvicinandosi lentamente al gruppo formato dai mercanti e da Sidone, in modo da passare dietro lo spione del Consiglio dei Centoquattro.

Phegor, accortosi di quella mossa, lasciò cadere a terra una pezza di porpora che stava contrattando accanitamente e colla scusa di osservare alcuni vasi di bronzo, si voltò vivamente, fissando i suoi occhi su Fulvia, poi approfittando del momento in cui pareva che nessuno facesse attenzione a lui, essendo i marinai occupati ad aprire le balle che continuavano ad affluire dalla stiva, le si accostò.

— Lo sapevo che ti avevano condotta qui — le disse sottovoce. — Chi sono questi uomini che hanno osato strapparti ai sacerdoti di Molok?

— Lo vedi: mercanti di Tiro.

— Li conoscevi prima?

— Non li ho mai veduti.

— E perché ti hanno salvata allora?

— Ti rincrescerebbe che io sia ancora viva?

— Avrei dato tutto il mio sangue per strapparti all'orribile supplizio.

— Perché nulla hai tentato, Phegor?

— Che cosa potevo fare io solo? Mi avrebbero preso e cacciato senza altro entro la fornace ardente.

Poi, dopo essersi guardato intorno sospettosamente, riprese con una profonda inquietudine:

— Intendono di trattenerti a bordo questi uomini?

— Per ora sì.

— Come schiava? I fenici sono abituati a rubare le fanciulle.

— Non sono affatto schiava — rispose Fulvia.

— Allora torna alla tua casa dove la tua vecchia madre ti aspetta.

— Sa che mi hanno salvata?

— Gliel'ho detto io. Questa sera io sarò ad aspettarti sulla calata di Cothon.

— E se questi uomini non mi lasciassero scendere a terra?

— Ciò riguarda te e non me: io ti attendo e tu dovrai venire — disse Phegor con voce minacciosa.

— E se si opponessero? Mi credo libera, ma se invece m'ingannassi e fossi schiava?

Un lampo sinistro illuminò gli occhi di Phegor.

— Un sospetto gettato da me su questi naviganti basta per perderli.

— Tu saresti capace... — chiese Fulvia con indignazione.

— Di farli credere spie dei romani e massacrarli tutti, da primo all'ultimo.

— Questi generosi che mi hanno salvata?

— Ecco un'altra accusa che basterebbe a perderli egualmente. M'obbedirai? Lo voglio e tu sai di che cosa sono capace io! Anche di uccidere tua madre.

— Phegor, sei un miserabile — disse la giovane, gettando su di lui uno sguardo ripieno d'odio.

La spia del Consiglio dei Centoquattro alzò le spalle, poi disse con impeto selvaggio:

— T'amo alla frenesia e purché tu diventi la mia donna, mi sentirei capace di dar fuoco anche a Cartagine e di tradire la mia patria. A questa sera Fulvia.

— E se non mi lasciassero, ti ripeto.

— Troverò io il modo di costringerveli, allora — concluse Phegor. — Addio.

Raggiunse i suoi due compagni che avevano contrattato dei vasi e delle pezze di stoffa e ridiscesero tutti e tre nella scialuppa, mentre altri mercanti invadevano la coperta seguiti da parecchi schiavi.


Note

  1. Re della Numidia, fedele alleato dei romani e che cooperò poderosamente alla rovina di Cartagine.