Cartagine in fiamme/4. Una spedizione notturna

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4. Una spedizione notturna

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3. La spia del Consiglio dei Centoquattro 5. Ophir

UNA SPEDIZIONE NOTTURNA


Appena ebbe veduta la scialuppa di Phegor allontanarsi, Fulvia si affrettò a raggiungere Hiram, il quale durante quel colloquio si era ben guardato di mettersi troppo in vista, avendo tutto da temere da un uomo che era ai servigi del gran Consiglio dei Centoquattro, quel Consiglio sospettoso e temuto che faceva, con un semplice editto, tremare tutti gli abitanti di Cartagine.

Certo nessuno doveva essersi accorto del suo ritorno dall'esilio, essendo ormai trascorsi quasi due anni, tuttavia la sua presenza poteva sollevare qualche sospetto e non ignorava quanto la repubblica fosse severa contro coloro che la disobbedivano.

Avendo udito da Fulvia le parole minacciose pronunziate da Phegor, una profonda ruga solcò la fronte del cartaginese.

— Che cosa oserebbe tentare contro di noi quel miserabile? — chiese, guardando con una certa ansietà la giovane.

— Tu, salvandomi, ti sei esposto ad un grave pericolo — disse la giovane. — Sarebbe stato meglio che tu avessi lasciato consumare il mio corpo entro l'orribile voragine ardente di Molok.

— Hiram potrà morire ucciso da Phegor o dai carnefici del Grande Consiglio, ma non si pentirà giammai d'aver sottratta alla fine orrenda, la fanciulla che un giorno lo curò sulla dolce terra italica — rispose il cartaginese. — Quel vile spione ti vuole: lo vedremo.

— E mia madre?

— Domani sarà a bordo presso di te e quando le tenebre cominceranno a calare, la mia nave lascerà per sempre questa nefasta Cartagine.

— Partiremo?

— Sì, se mi riuscirà portare con me Ophir.

— Ophir! — esclamò Fulvia, trasalendo. — Chi è costei?

— Taci: lo saprai più tardi. Ecco dei nuovi mercanti: facciamo loro buon viso, onde mi credano un vero trafficante di Tiro.

Altre barche avevano abbordato la nave del cartaginese e altri uomini salivano per fare acquisti.

Sidone, che prima di essere stato marinaio aveva trafficato per molti anni nei porti del Levante e delle isole dell'Arcipelago greco, aveva un gran da fare a mostrare ai clienti le preziose merci che i suoi uomini esponevano sulla tolda. L'hortator pareva che non avesse fatto nessun altro mestiere in vita sua e pur sagrando e spergiurando su Tanit, il dio supremo dei fenici e su Melkarth, il dio dei navigatori, incassava talenti in buon numero, sgombrando rapidamente la stiva.

Verso il tramonto però le vendite furono improvvisamente interrotte. I mercanti imbarcavano in fretta ed in furia le merci acquistate, allontanandosi rapidamente dalla nave d'Hiram.

Già il pomeriggio era stato soffocante, annunciando un brusco cambiamento di tempo e l'aria, al mattino tranquillissima, aveva cominciato a turbarsi, rovesciando sulla città e sul porto immensi nembi di sabbia che giungevano in fitte colonne, dalle regioni interne.

Il simun, quel vento caldissimo che sconvolge il Sahara, s'annunciava formidabile e si ripercuoteva sul mare, scuotendone la sua immobilità.

— Brutta serata padrone, per la tua impresa — disse Sidone accostandosi a Hiram, che dall'alto del castello prodiero dell'hemiolia seguiva attentamente le cortine di sabbia. — Ti attenderà egualmente?

— Ophir sa che io non sono uso a mancare alle mie promesse — rispose il cartaginese. — Preferisco che la notte sia pessima piuttosto che calma.

— Quando partirai?

— Appena la stella dei naviganti avrà percorso un quarto del suo giro. Scendi a terra e va' a preparare i cavalli.

— Quanti?

— Basteranno quattro uomini di scorta.

— Ci sarò anch'io nel numero, padrone?

— Sì, tu vali per dieci. Il tuo aiutante subentrerà nel comando della nave. D'altronde nulla accadrà a bordo. Nessuno ha sospettato di noi finora.

— Oh! Non siamo che dei pacifici ed onesti trafficanti — disse l'hortator sorridendo.

— Va', Sidone: mi aspetterai dietro il bastione, sotto il porticato della guardia.

— Conta su di me — rispose l'hortator, facendo segno ai marinai di calare in mare una scialuppa.

Hiram era rimasto sul castello, guardando l'immensa città che gli ultimi raggi del sole morente tingevano di rosso, come se un immane incendio fosse scoppiato sulle colline dell'Acropoli e s'abbattesse sulla moltitudine di terrazze, che sormontavano le bianche case.

Un vento ardente, soffocante, prorompeva di quando in quando a raffiche furiose, torcendo i palmizi dei giardini e mettendo in scompiglio le acque del porto mercantile.

Anche il Mediterraneo ne sentiva il contraccolpo, perché al di là delle dighe si udivano le onde a scrosciare cupamente contro le scogliere. Le navi, sia da guerra che mercantili, raddoppiavano frettolosamente gli ormeggi e abbassavano le antenne, onde non offrissero presa al vento.

— Portami un piccione — disse ad un tratto Hiram, volgendosi verso uno dei suoi uomini. — Bada che sia uno di quelli che Aco ha riportato a bordo.

— Conosco troppo bene i nostri per ingannarmi — rispose il numida. — E poi quelli che ha scambiati sono neri, mentre i nostri sono tutti bianchi.

— Affrettati prima che il vento diventi troppo impetuoso.

Mentre il marinaio s'allontanava frettolosamente, trasse da una tasca una minuscola tavoletta di legno sulla quale tracciò, con un pennellino intinto in una specie d'inchiostro azzurro, alcuni segni.

— Certo l'aspetterà Ophir. Purché non cada nelle mani di quel maledetto vecchio! Non importa: qualunque cosa deva succedere, io la rivedrò. L'uragano viene in mio aiuto.

Il marinaio era tornato tenendo in mano un bellissimo piccione che aveva le penne nerissime.

Hiram gli legò sotto un'ala la tavoletta, poi alzandolo lo slanciò nello spazio, dicendo:

— Va': la tua padrona t'aspetta.

Il piccione s'alzò rapido, oscillando sotto le spinte del vento, roteò per qualche istante al di sopra della nave dominando tutto il porto, poi mosse veloce verso la città, varcando i massicci bastioni.

— Perché questo andare e venire di colombi, Hiram? — disse Fulvia, accostandosi al cartaginese che cercava di seguitare collo sguardo il gentile volatile che si dileguava fra le prime ombre della notte.

— Corrispondo con una persona che m'interessa vivamente e che questa notte andrò a trovare — rispose Hiram, soffocando un respiro.

— Tu scendi a terra?

— Sì.

— E se qualcuno ti scorgesse e ti preparasse qualche agguato?

— Chi lo deve preparare?

— La spia dei Centoquattro.

— Vi è questa per lui — disse il cartaginese, battendo una mano sulla larga spada che gli pendeva dalla cintura. — Il braccio che ha vinto i tuoi compatrioti, che furono sempre i più formidabili guerrieri del mondo, non si troverà imbarazzato a squarciare la gola a quel miserabile. Intanto tu, checché debba succedere, non lascerai la mia nave. D'altronde fra qualche ora le onde irromperanno attraverso il porto e nessuna scialuppa oserà staccarsi dalla riva. Rimani qui e aspetta il mio ritorno.

— E tu vai in città con questa notte tempestosa?

— È necessario — rispose Hiram con voce ferma. — Sono due anni che aspetto questa notte.

— Qualche vendetta da compiere?

— Non te lo posso dire, Fulvia.

— Ah!... Io ho letto nei tuoi occhi il tuo segreto.

— È impossibile.

— Tu vai a trovare una donna.

Il cartaginese aggrottò la fronte.

— Che cosa ne sai tu? — chiese, quasi con ispavento. — Chi te lo disse? Forse quel Phegor?

— Oh no, non mi parlò, né di te, né di nessuna donna — rispose Fulvia.

Hiram respirò a lungo, come se gli avessero tolto un enorme peso che gli schiacciava il petto.

— Se quell'uomo avesse indovinato il mio vero essere e lo scopo del mio ritorno in questa città che mi è interdetta, sarebbe stata la fine di me e anche di Ophir.

— Di Ophir! Ancora codesto nome. Chi è?

Il cartaginese guardò Fulvia senza rispondere.

— Hai ragione amico — disse la giovane, con una certa tristezza. — Io non ho il diritto di conoscere i tuoi segreti, specialmente io che appartengo ad una razza nemica della tua.

— È una fanciulla — disse Hiram. — Colei che mi ha salvata la vita può conoscere le angosce che dilaniano il cuore del guerriero.

— Me l'ero immaginato — disse la romana, abbassando lentamente la testa. — Tu l'ami.

— E questa sera la rivedrò. Ecco che l'uragano comincia ad infuriare, è il buon momento. Sidone a quest'ora deve aspettarmi.

— Guardati dai tradimenti, Hiram.

— Saprò evitarli.

— E se tu morissi?

— I miei uomini ti ricondurranno in Italia, insieme con tua madre. Ho dato già gli ordini opportuni.

Sguainò la spada provandone il filo colla punta del pollice, poi, soddisfatto di quell'esame, disse:

— In acqua la grossa scialuppa, coi quattro uomini che ho scelto. Portate il mio scudo e la mia corazza.

Un uomo comparve sulla tolda, mentre il grosso canotto veniva abbassato, quantunque foltissime ondate s'infrangessero, con frequenti muggiti, sul tribordo della nave.

Il simun infuriava in quel momento con estrema violenza e le onde irrompevano con furia estrema attraverso lo stretto, che comunicava col Mediterraneo. Le raffiche, sempre più soffocanti, più ardenti, si succedevano con frequenza terribile, sconvolgendo il porto e mettendo a dura prova gli ormeggi delle navi. Lampi sinistri, dai bagliori cadaverici, balenavano al di sopra dell'Acropoli, accompagnati da rumori stridenti che parevano prodotti da centinaia di carri pieni di ferraglie trascinati a corsa sfrenata, attraverso le nere nuvole che ormai avevano coperto il cielo.

Hiram si era accostato alla murata sotto la quale ondeggiava pesantemente il gran canotto, montato da quattro uomini armati di archi e di daghe. Fulvia gli si era avvicinata.

— Parti, Hiram? — gli chiese dolcemente.

— È necessario — rispose il cartaginese.

Fulvia ebbe un sospiro che non sfuggì a Hiram.

— Oh!... Non temere per me — disse il guerriero. — Questa spada che io ho portato dall'Italia e che vinse a Cannes ed al lago Trasimeno, non la vinceranno i miei compatrioti!

— Guardati!...

— Che cosa temi tu dunque?

— Piangerei se l'uomo che io ho curato nel mio paese ed al quale devo la mia vita dovesse soccombere! — disse.

— Tornerò, Fulvia: Hiram è un guerriero del grande Annibale.

— Felice te se la rivedrai!

— Perché mi dici così?

— L'ami?

— Ah!... Questo è vero, l'amo molto, intensamente.

— Addio Hiram.

— Addio Fulvia.

Il cartaginese cinse rapidamente la corazza, si mise in capo un elmetto che portava sulla cima una piuma di struzzo, imbracciò lo scudo e si calò lungo la scala di corda, mentre la giovane romana, appoggiata sulla murata, lo guardava scendere con occhio triste.

— Al largo — disse il cartaginese ai quattro uomini che si trovavano nella scialuppa.

Con una poderosa spinta i marinai allontanarono l'imbarcazione che le onde, già altissime, minacciavano d'infrangere contro il tribordo dell'hemiolia e si misero ad arrancare con gran lena, dirigendosi verso la gettata che non era lontana che poche diecine di metri.

— Lunga la battuta — disse Hiram, che teneva il lungo remo che serviva di timone. — Attenti alle ondate.

Il porto, sotto i colpi furiosi della burrasca, assumeva a poco a poco un aspetto spaventoso, specialmente alla luce dei lampi che non cessavano un solo istante.

Hiram teneva con mano ferma il remo, nondimeno di quando in quando alzava gli occhi verso la nave e li fissava su Fulvia, che stava sempre appoggiata sulla murata.

— Che pensi a me? — si chiedeva il cartaginese, scuotendo il capo. — Strana fanciulla che io non ho avuto ancora il tempo di conoscere. Bah! Follie!... Non vi è che Ophir per me. Mio sogno costante, luce dei miei occhi, mio unico pensiero!... La morte, ma vederti: fanciulla divina che per due anni ti ho pianto laggiù, in Tiro!...

I quattro numidi, che erano quattro veri èrcoli, in pochi colpi di remo superarono le onde che si frangevano furiosamente contro le calate, spruzzando perfino le muraglie dei bastioni e assicurarono l'imbarcazione ad un anello di ferro, finché Hiram fu sbarcato.

— Tiratela a terra e seguitemi — disse il cartaginese.

I quattro ercoli, in due colpi alzarono la scialuppa, onde impedire ai cavalloni di sfracellarla contro la gettata, presero le loro daghe ed i loro archi e raggiunsero il padrone.

— Vedete nessuno? — chiese Hiram che si era fermato dinanzi al bastione.

— Nessuno oserebbe venire qui, con questa notte tempestosa — rispose uno dei quattro. — Fra poco i cavalloni spazzeranno la gettata.

— Avanti!

A trenta passi dal luogo ove erano sbarcati s'apriva la porticina che metteva nel corridoio aperto sotto l'enorme muraglia e che era guardata da alcuni mercenari.

— Abbiamo affari urgenti in città — disse loro Hiram facendo scivolare nell'istesso tempo, come già altra volta, alcune monete d'argento. — Siamo i trafficanti di Tiro.

Attraversarono il corridoio che era illuminato da alcune lampade di terracotta, sospese alle vòlte ed entrarono in città. Proprio in quel momento il simun si scatenava con estrema violenza, ruggendo attraverso le strette vie della metropoli cartaginese ed i merli delle muraglie.

Nembi di sabbia cadevano da tutte le parti, mentre il cielo s'illuminava sotto la luce dei lampi.

— Qui padrone — disse una voce che partiva di dietro l'angolo d'un bastione.

— Sei tu, Sidone? — chiese Hiram.

— Affrettati od i cavalli mi scapperanno. Non riesco più a frenarli.

Il cartaginese ed i suoi quattro numidi raggiunsero l'hortator, il quale faceva sforzi disperati per tenere addossati al muro sei bellissimi cavalli, di statura piuttosto bassa e dalle groppe poderose.

— Ti ha seguito nessuno? — gli chiese Hiram.

— Non ho incontrato anima viva venendo qui. Tutti gli abitanti si sono ben tappati nelle loro case.

I sei uomini balzarono in sella, sella per modo di dire, poiché non consisteva che in una pelle di iena trattenuta da una larga cinghia e priva di staffe, non conoscendosene ancora l'uso in quell'epoca, né presso i romani, né presso i cartaginesi.

— Tenetevi tutti presso di me e snudate le daghe — disse Hiram mentre allentava le briglie. — Malgrado tutte le nostre precauzioni, possono averci preparato un agguato.

— Presso la casa della bella Ophir forse, ma non qui — disse Sidone. — D'altronde saremo pronti a menare le mani, è vero ragazzi?

— Tutti — risposero i numidi sguainando le daghe larghe e pesanti.

Si erano lanciati a corsa sfrenata, salendo verso la parte della città, dove abitavano i ricchi mercanti, i consiglieri della repubblica e dove si trovavano i più superbi templi.

Cartagine non valeva, per estensione, né per numero di abitanti, Roma, la sua fiera rivale; tuttavia occupava tutta la costa occidentale dell'odierno golfo di Tunisi, coprendo tutto l'istmo e si dice che non contasse meno di duecentomila anime, numero ragguardevole per quelle lontane epoche. Hiram che la conosceva a menadito, attraversò tutta la parte occidentale, passando per viuzze tortuose e completamente deserte, fiancheggiate da case di pietra in forma di parallelogramma e sormontate da terrazze e si arrestò, dopo un quarto d'ora di galoppo furioso, in mezzo ad una vasta piazza che era circondata da immensi templi di forma quadrata, sorretti da una moltitudine di colonne.

— Nulla nemmeno qui? — chiese ai suoi uomini che scrutavano attentamente le tenebre.

— No, padrone — rispose l'hortator.

— Scendete, amici, e tenete i cavalli per le briglie. Cerchiamo di non far rumore.