Cartagine in fiamme/6. L'agguato della spia

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6. L'agguato della spia

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5. Ophir 7. Un duello terribile

L'AGGUATO DELLA SPIA


I cavalli, trattenuti con pugni di ferro, si erano messi in marcia rasentando la muraglia del massiccio palazzo, mentre il vento ruggiva più forte che mai fra i muri della terrazza, spingendo innanzi a sé turbini di sabbia. Hiram e Sidone si erano messi alla testa del drappello e curvi sul collo delle loro cavalcature, cercavano di discernere quei misteriosi nemici che i marinai avevano osservati all'estremità della viuzza. Disgraziatamente l'ombra proiettata da quelle altissime case, che sembravano vere fortezze, era così fitta, da non permettere di scorgere nulla nemmeno a pochi metri di distanza.

— Che siano scappati? — si chiese Hiram che guardava soprattutto verso i portici, dove l'oscurità era densissima.

— O che i nostri uomini abbiano veduto cogli occhi chiusi — disse Sidone. — Se ci avessero preparato un agguato sarebbero già qui. Ti sembra padrone?

Hiram stava per rispondere, quando un'imprecazione gli sfuggì.

— Che Tanit fulmini quel cane!

Verso l'estremità della viuzza, in direzione della vasta piazza, sulla quale giganteggiavano i templi di Baal-Molok, si era udita improvvisamente una voce a cantare:

— ... l'imprudente crede tutto ciò che gli si dice, ma l'uomo prudente pondera tutti i suoi atti.

«... Il savio teme e volge le spalle al male; l'insensato passa oltre e si crede sicuro...»

— Io ho udito ancora questa voce e queste parole — disse Sidone arrestando il cavallo.

— Sì, la notte che abbiamo salvato la giovane etrusca — rispose Hiram, con rabbia. — Egli è Phegor, la spia del Consiglio dei Centoquattro e forse l'anima dannata del vecchio Hermon. Quel miserabile ci ha seguiti!...

— Da dove?

— Dal porto.

— Un uomo che ha relazione coi Consiglieri dei Centoquattro è troppo pericoloso, padrone — disse l'hortator.

— Hai ragione, amico: cerchiamo di raggiungerlo e uccidiamolo. Egli forse ha indovinato chi siamo.

Poi volgendosi verso i quattro numidi che lo seguivano, aggiunse:

— State uniti e preparatevi a menar le mani.

Hiram allentò le briglie e lanciò il cavallo ventre a terra in direzione della piazza che era già vicinissima.

Nel momento che stava passando dinanzi agli ultimi portici tre o quattro frecce gli sibilarono agli orecchi, senza colpirlo, mentre una voce imperiosa gridava:

— Ferma!...

— Addosso!... Passate! — gridò invece Hiram, a' suoi curvandosi sul collo del suo cavallo e staccando lo scudo di pelle di bufalo che portava appeso alla sella. — Guardatevi dai dardi!

I sei cavalli giunsero come un uragano vicino alle ultime case; ma giunti colà s'arrestarono quasi di colpo, inalberandosi, e nitrendo. Una massa enorme era improvvisamente comparsa all'estremità della viuzza, sbarrandola interamente.

— Saldi in sella! — gridò Hiram, fermando il destriero che cercava di dare indietro.

— Melkarth ci protegga — disse Sidone, aggrappandosi alla criniera. — Ci hanno presi in trappola!... Cane d'uno spione!... Colla tua pelle mi farò un nuovo scudo.

Un barrito formidabile che coprì i ruggiti del vento, uscì dall'enorme massa che ingombrava la via, impedendo ai numidi e al cartaginese di avanzare.

— Un elefante da guerra! — esclamò Hiram, facendo un gesto di furore. — Miserabili!...

— Padrone, — disse l'hortator, — bisogna sfondare quella massa.

— Diamo indietro, Sidone!...

— Se lo potremo.

Un vociare clamoroso si era alzato alle spalle dei numidi e del cartaginese. Molti uomini che si erano tenuti nascosti sotto i portici, si erano slanciati sulla viuzza, gridando:

— Eccoli!... Prendiamoli!... Hanno il passo chiuso!...

Il cartaginese aveva mandato un vero ruggito.

— Noi presi!... Ah!... Lo vedremo!... Le iene non affrontano i leoni.

Si volse e si guardò alle spalle.

Ombre si erano slanciate fuori dai tenebrosi porticati, lanciando qualche freccia.

— Tenete testa a quei miserabili voi! — gridò Hiram volgendosi verso i quattro numidi che parevano non aspettassero che un suo ordine per slanciarsi. — Caricate a fondo, a gran colpi di daga e stringete gli scudi. Contano sulle frecce, ma voi avete le daghe.

— E l'elefante? — chiese un marinaio.

— Io e Sidone basteremo a sbarazzare la via. Su, caricate a fondo e tenete occupati, per qualche minuto, quei traditori.

Mentre i quattro numidi, copertisi il viso cogli scudi, si preparavano a sgomberare la via, Hiram si era volto verso Sidone che guardava ferocemente l'enorme elefante, la cui mole ostruiva completamente la viuzza.

— Sei sicuro del tuo colpo? — gli chiese.

— Sì, padrone — rispose l'hortator.

— Se fallirai, moriremo tutti.

— Il filo della mia daga è terribile e taglierà netto il tendine del colosso. Fa' giuocare il tuo cavallo e non occuparti d'altro.

— Scendi.

— È fatto, padrone.

Sidone con un rapido volteggio si era slanciato a terra, tenendo nella sinistra il largo scudo di pelle e nella destra la daga di bronzo.

Hiram con due poderosi colpi di tallone aveva fatto fare al suo cavallo un salto innanzi, gridando contemporaneamente:

— Largo!... Chi arresta i pacifici viandanti?

— Ferma! — rispose una voce. — Non vedi che vi è un elefante da guerra dinanzi a te?

— Chi lo ha mandato?

— Il Consiglio dei Suffetti.

— Perché?

— Le spie dei romani pullulano in Cartagine e se tu sei un africano arrenditi e nulla avrai da temere.

— Sono un mercatante di Tiro e non sono abituato a vedermi chiudere il passo, — rispose Hiram. — Largo o uccido!...

— Attacca, dunque — rispose la voce di prima. — Bada però che l'elefante ha una sbarra di bronzo nella proboscide e non risparmierà nessuno.

— Sotto, Sidone — disse Hiram.

L'hortator scivolava già silenziosamente sotto gli ultimi portici, guatando il colosso che pareva non potesse né avanzare, né indietreggiare, tanto era stretta la via. Hiram si guardò alle spalle e vedendo che i suoi quattro numidi caricavano furiosamente colle daghe alzate, spinse risolutamente il cavallo contro l'elefante, facendolo inalberare e mandare grida selvagge.

Il pachiderma aveva alzata la tromba, pronto ad accoppare d'un sol colpo uomo e cavallo, ma aveva da fare con un guerriero che sapeva il suo conto. Giunto a dieci passi dal mostruoso animale, Hiram aveva fatto fare al suo destriero un improvviso dietro fronte, senza però allontanarsi di troppo. L'astuto cartaginese cercava di attrarre sopra di sé tutta l'attenzione del colosso, per lasciar tempo a Sidone di fare il suo colpo.

— Arrenditi! — gridò una voce. — Sei preso.

— A chi arrendermi? — rispose Hiram, continuando a far volteggiare il cavallo.

— Alle guardie dei Centoquattro.

— Non ho affari con voi.

— Il passo è chiuso.

— Lo apriremo. Sotto, Sidone!...

L'hortator non aveva bisogno d'incoraggiamenti. Era uscito silenziosamente dal porticato, tenendo ben stretta in pugno la pesante daga e si era cacciato fra le zampe del pachiderma, senza che questo, troppo occupato a sorvegliare Hiram ed il cavallo che gli volteggiavano quasi sotto il naso, si fosse accorto. L'audace numida era così giunto inosservato dietro al colosso. Alzò la daga e colpì furiosamente una delle gambe posteriori, recidendo, netto, il tendine.

L'elefante mandò un barrito spaventevole, poi diede indietro non ostante le urla degli uomini, che erano sdraiati sulla sua groppa.

Sidone scivolò contro il muro dell'ultima casa, passò sotto il porticato e raggiunse il proprio cavallo, balzando rapidamente in sella.

— È fatto, padrone — disse a Hiram. — Fra qualche minuto la via sarà libera.

— Richiama i nostri uomini.

Verso l'opposta estremità della viuzza si udiva un cozzar di ferri ed uno scrosciare di corazze, accompagnati da grida e bestemmie.

A quanto pareva i quattro numidi avevano trovato degli uomini dinanzi a loro e battagliavano ferocemente.

— Lasciate quei cani! — gridò loro Sidone.

Il galoppo di quattro cavalli lanciati a corsa sfrenata si fece subito udire.

— Il passo è libero! — esclamò in quel momento Hiram.

Infatti l'elefante, che non cessava di barrire spaventosamente, si era ritirato verso la piazza e là era caduto sulle ginocchia, scaraventando a terra gli uomini che lo montavano.

— Ci siete tutti? — chiese Hiram, vedendo i suoi uomini a giungere.

— Sì, padrone.

— Alla carica!... Non occupatevi dell'elefante.

I sei cavalli ripresero la corsa, mentre dietro di loro si udivano altri uomini a gridare a squarciagola:

— Ferma!... All'armi!

Hiram sbucò sulla piazza fiancheggiato da Sidone e seguito dai quattro marinai. L'elefante, mezzo rovesciato su un fianco, gemeva rumorosamente mentre, gli uomini che lo montavano, scappavano in tutte le direzioni.

— Via! — gridò. — Diritti al porto.

Attraversarono la piazza colla velocità di un lampo e scesero verso le vie che conducevano ai muraglioni del porto, senza essere altro molestati.

— L'abbiamo scappata bella, padrone — disse l'hortator quando giunsero dietro i formidabili bastioni che coprivano le gettate. — Che il vecchio Hermon si fosse accorto di qualche cosa?

— Non so che cosa dire, Sidone — rispose Hiram. — Credo però che l'agguato sia stato preparato da quel Phegor. Non l'hai udito a cantare?

— Sì, padrone. Che cosa c'entra quell'uomo nei nostri affari?

— È una spia; me l'ha detto l'etrusca, ed una spia del Consiglio dei Centoquattro e fors'anche dei Suffetti.

— Non rimarremo a lungo sotto le mura di Cartagine. Non mi ci trovo bene. L'aria può diventare, certo, da un momento all'altro cattiva.

— Ed è perciò che andremo a respirare quella più salubre di Utica. Oggi vendi quanto ci rimane, a qualunque prezzo, e domani leveremo le ancore.

— Purché non sia troppo tardi.

— Siamo in cinquanta e le nostre braccia sono solide.

— E pronte a menare le mani — aggiunse Sidone.

Erano allora giunti dinanzi alla porta che metteva nella galleria aperta sotto il bastione. Hiram balzò a terra e consegnò a Sidone il proprio cavallo, dicendogli:

— Torna presto: rimanderò a terra la scialuppa.

— Il padrone dei cavalli non abita lontano e gli ho detto di non coricarsi. Avrò così occasione di tenere d'occhio la spia, se si farà vedere da queste parti. Con un buon colpo di daga aggiusteremo i conti.

— Sii prudente.

— Non temere per me, padrone. Sai che ben pochi mi tengono testa.

La guardia notturna aveva aperta la porta e riconoscendo nei numidi i trafficanti di Tiro, che erano già passati alcune ore prima, diede senz'altro il passo. Nel porto mercantile la bufera non era cessata e grosse ondate entravano attraverso la bocca del Mediterraneo, flagellando poderosamente le navi da guerra della repubblica e sollevando con mille scricchiolii, i velieri dei trafficanti africani ed asiatici.

Folate di vento ardentissimo passavano sopra le massicce bastionate, con forti ruggiti, curvando le alberature delle leggere acatium, quelle svelte veliere dell'Arcipelago greco, che abbondavano sempre nell'ampio porto cartaginese.

I quattro numidi, non ostante la furia delle ondate, gittarono in acqua la scialuppa e con pochi colpi di remo condussero Hiram a bordo dell'hemiolia.

Il cartaginese aveva appena i piedi sulla tolda, quando un'ombra gli si levò dinanzi.

— Fulvia! — esclamò. — Che cosa fai qui, a quest'ora inoltrata, mentre la tua cabina è comoda e riparata dagli spruzzi dei cavalloni?

— T'aspettavo — rispose semplicemente la fanciulla.

— Perché? Che cosa temevi?

— Cartagine può essere per te più pericolosa di quello che credi.

— Più nessuno si ricorda di me — rispose Hiram.

— Ne sei ben certo?

Il cartaginese guardò la fanciulla con un certo stupore.

— Che cosa vuoi dire Fulvia? — chiese.

— Io ho udito un uomo a pronunciare il tuo nome.

— Quando?

— Pochi minuti dopo che tu avevi attraversato il bastione.

— Vuoi spaventarmi Fulvia?

— No, Hiram.

— Chi ha pronunciato il mio nome?

— L'ha gridato dalla gettata.

— Ma chi?

— Phegor, la spia dei Centoquattro.

Fra la giovane ed il guerriero vi furono alcuni istanti di silenzio.

— Phegor ha gridato il mio nome? — chiese finalmente Hiram, con agitazione. — Sei certa di non esserti ingannata?

— Non mi sono ingannata — rispose Fulvia. — Fra il fragore delle onde e le urla del vento, io ho udito distintamente la sua voce beffarda a gridare: «L'esiliato di Tiro si tien la etrusca!... Si guardi da Phegor!..»

— È dunque uno spirito maligno quell'uomo? Io l'ho incontrato nel centro della città e per poco non mi ha fatto uccidere.

— Ti ha preparato un agguato?

— Sì, Fulvia.

— E dove sei andato tu?

— A trovare una fanciulla.

— Quella che ti mandò quel piccione?

— Sì.

— Ed è? — chiese la giovane con angoscia.

— Una fanciulla, ti ho detto.

— Ah!... E l'ami?

— Intensamente.

— Appartiene alla tua razza?

— È cartaginese come me.

— Me l'ero immaginato. Tu sei fuggito dall'esilio per rivederla.

— Sì.

— Una fanciulla di alta condizione, senza dubbio.

— L'uomo che l'ha adottata come figlia, è uno dei più cospicui trafficanti di Cartagine e membro influentissimo del Consiglio dei Centoquattro.

— È lui allora che ti ha fatto esiliare?

— Sì, lui — rispose Hiram con rabbia. — Egli si era accorto che noi ci amavamo e mi fece sfrattare da Cartagine, come un capitano pericoloso per la salvezza e la tranquillità della repubblica. Già, avevo combattuto col grande Annibale, avevo sparso per questi miserabili e avidi mercatanti il mio sangue nella tua Italia e mi hanno proscritto. Era il premio del mio valore.

— E l'ami? — insistette Fulvia.

— Tanto che per lei, come vedi, giuoco la mia vita.

La giovane etrusca fece alcuni passi verso la murata di babordo, aspirando fragorosamente il vento, poi passandosi una mano sulla bella fronte, disse:

— È una cartaginese: ha il diritto d'amarti.

— Che intendi di dire con codeste parole, Fulvia? — chiese Hiram, con inquietudine.

— Pensavo che le razze nemiche separate da un gran baratro di sangue, non potrebbero amarsi — rispose l'etrusca con uno scatto improvviso.

— Perché?

— Noi etrusche...

— Continua — disse Hiram, vedendo che si volgeva da un'altra parte, senza proseguire.

— Lui!...

— Chi?...

— Phegor!... L'odi?

Un urlo di rabbia era sfuggito dalla labbra del guerriero.

Fra il rumoreggiare dei cavalloni, frangentisi contro le gettate e i fianchi delle navi ed i sibili stridenti del vento, la voce della spia si era fatto nuovamente udire.

— La etrusca è a bordo!... Il trafficante la pagherà!... L'agguato in terra si sfugge talvolta, ma sul mare... Ah!... Ah!... Ah!...

— Giù la scialuppa! — gridò Hiram agli uomini di guardia che stavano accovacciati a prora, dietro ai geni tutelari che s'ergevano sul coronamento.

— Che cosa vuoi fare Hiram? — chiese Fulvia.

— Raggiungerlo e ucciderlo.

— E domani?

— Morto non parlerà più.

— Lascia che vada io.

— Non è un romano colui.

— Una mia parola può calmarlo ed evitare a te chissà quale pericolo.

— Tu! Da quell'uomo?... No, checché debba succedere. È pronta la scialuppa?

— Sì padrone — rispose una voce.

Hiram balzò sopra il bordo prima che Fulvia avesse pensato ad arrestarlo e si lasciò scivolare lungo la fune.

— Non comprometterti con quell'uomo! — gli gridò dietro la giovane etrusca. — Egli può perderti.

— La vedremo — rispose il cartaginese, mentre i suoi uomini davano dentro ai remi a tutta lena.

La scialuppa in pochi istanti giunse sotto la gettata.

— Aspettatemi qui — disse Hiram balzando a terra e sfoderando la daga. — Signor spione, ora farete i conti con me. Eccovi chiuso il passo: o battersi o affogare.