Cartagine in fiamme/7. Un duello terribile

Da Wikisource.
7. Un duello terribile

../6. L'agguato della spia ../8. Un salvataggio miracoloso IncludiIntestazione 31 dicembre 2016 75% Da definire

6. L'agguato della spia 8. Un salvataggio miracoloso

UN DUELLO TERRIBILE


La gettata non aveva in quel luogo alcuno sfogo, perché terminava contro un'altissima torre costruita su uno scoglio che chiudeva, da quel lato, una parte del canale che metteva fuori del porto.

Hiram era quindi certo di sorprendere la spia, la cui voce era echeggiata poco prima in vicinanza della torre. Se non era prontamente tornato sui propri passi e non aveva raggiunto il passaggio del bastione, aveva ben poche probabilità di scappare alla terribile lama del fiero capitano del grande Annibale.

— Se non sei fuggito, ti scoverò — disse Hiram saltando su un mucchio di casse e di barili, che ingombravano la gettata. — E t'inchioderò contro le mura del torrione, o ti affogherò in mare. Tu sai troppe cose ormai e sei troppo pericoloso.

Non scorgendo alcuno, tornò verso la scialuppa, dicendo ai suoi uomini che la montavano:

— Schieratevi sulla gettata voi e impedite il passo a chiunque cercasse di raggiungere la porta del bastione.

— Sì, padrone — risposero i numidi, levando dalla cintura certe specie d'asce, molto pesanti e dalla lama larghissima.

Il cartaginese mosse audacemente verso il torrione, tenendo gli occhi fissi sui cumuli di merci scaricate il giorno innanzi dai velieri, temendo che lo spione lo assalisse a tradimento o che cercasse di sfuggirgli scivolando silenziosamente fra le casse e le botti.

Già non distava dal torrione che una cinquantina di passi, quando vide una forma umana balzare rapidamente in piedi e gettarsi contro il muraglione merlato che chiudeva la città.

— Ah!... Ah! — esclamò Hiram, slanciandosi prontamente, a sua volta, contro l'enorme bastione. — Ti ho sorpreso, birbante! è inutile che tu cerchi di scapparmi: dietro di me ci sono sei uomini pronti ad accopparti.

L'uomo, vedendosi ormai scoperto, era tornato in mezzo alla gettata, dicendo con voce fremente:

— Sono stato uno stupido.

— Lo credo anch'io, Phegor.

— Come sai il mio nome tu, che vieni da Tiro?

— So anche il bel mestiere che tu fai — aggiunse Hiram con voce ironica. — Pagano bene dunque i vecchi del Consiglio dei Centoquattro, per tenere in piedi giorno e notte le loro spie?

— Spia! — esclamò Phegor, stridendo i denti. — Sarà necessario far abbordare al più presto la tua hemiolia e darla alle fiamme.

— E poi?

— E poi ucciderti, se sarai ancora vivo domani, ciò che dubito.

— Spero di spaccarti il cuore prima che sorga l'alba.

— Phegor non ha paura e la sua mano è lesta.

— Ed i mercatanti di Tiro hanno buone daghe fuse nelle migliori armerie dell'Arcipelago e dell'Asia. Vediamo un po' che cosa sai tu fare.

— Non avvicinarti.

— Anzi voglio ben vedere se sei pallido o se tremi dinanzi alla morte.

Hiram con un salto improvviso si era gettato sullo spione, però questi, che pareva agilissimo e che si teneva in guardia, fu lesto a sfuggirgli.

— Ti fermerai bene quando ti troverai sotto il torrione — disse Hiram, incalzandolo.

Phegor si era arrestato cinque passi più indietro, raggomitolandosi quasi su se stesso e presentando a Hiram la punta d'una daga molto lunga, simile a quella che usavano gli iberi.

Per essere più libero si era sbarazzato del mantello di lana oscura, mostrando il petto coperto di una corazza a squame ed a lamine d'acciaio, disposte in modo che mentre s'adattavano alla forma del busto ed a tutti i suoi moti, sdrucciolavano l'una sotto l'altra, secondo che le braccia s'alzavano o il dorso si curvava. Anche la testa dello spione era difesa da un elmetto di bronzo, colle barbozze alle guance, sormontato da un grosso bottone che poteva servire da cimiero.

— Per Melkarth! — esclamò Hiram, vedendolo così ben coperto di metallo. — Ti preparavi a partire per la guerra forse, spione?... E avevi paura della mia daga, quando mi hai gettato contro l'elefante?

— Ah! — gridò Phegor. — Ti sei accorto che sono stato io a prepararti l'agguato?

— Brutto cane!... Mi aspettavi colà dunque?

— No, ti avevo seguito, certo che tu saresti andato a baciare i bellissimi occhi di Ophir.

Hiram, udendo quelle parole, si era arrestato, guardando con smarrimento lo spione.

— Miserabile! — esclamò finalmente. — Chi sei tu? Uno spirito maligno o un essere che tutto indovina?

— Mi chiamo Phegor — rispose la spia.

— Tu sai allora chi sono, se il nome della figlia adottiva del vecchio Hermon, è uscito dalle tue labbra.

— Ma no, tu sei un mercatante di Tiro — rispose Phegor, ironico.

— E che t'ucciderà.

Hiram si era nuovamente gettato contro la spia, vibrandogli un formidabile colpo di daga che risuonò fragorosamente sulle piastre metalliche dell'avversario. Stava per rinnovare il colpo, quando una manata di sabbia lo colpì in viso.

— Traditore! — gridò retrocedendo. — Tenti di accecarmi!... Tu non sei un soldato, sei un bandito. Prendi!... Para questa!

Phegor balzò in piedi allungando la sua spada, ma non ebbe il tempo di toccare la corazza del guerriero.

Ci voleva ben altro per un uomo della forza e dell'abilità d'Hiram! Un secondo colpo di daga che non fu capace di parare e che lo colpì sull'elmetto facendogli rintronare il cervello, costrinse la spia a rompere nuovamente la sua guardia ed a dare ancora indietro.

— Sfonderò le tue piastre — gridò Hiram incalzando sempre furiosamente.

La poderosa daga, maneggiata da un braccio robustissimo, cadeva fulminea su Phegor, il quale, stordito dalla rapidità di quell'attacco, non riusciva che a parare malamente le botte che lo coglievano di traverso, sui fianchi e sull'elmetto. Invano il disgraziato saltava coll'agilità d'una gazzella a destra ed a manca e moltiplicava finte e parate.

La daga d'Hiram lo minacciava sempre, obbligandolo a perdere senza posa terreno.

Il torrione non era che a una diecina di passi e dietro la scogliera le onde rumoreggiavano sinistramente, pronte ad accogliere, vivo o morto, lo spione.

— Tieni testa, dunque — disse ad un certo momento Hiram. — Non vedi che dietro a te vi è la morte?

— La scorgo già, o meglio la sento — rispose Phegor con voce affannosa. — Tu sei invincibile.

— Te lo avevo detto io che non mi saresti sfuggito.

— Accordami un istante di riposo.

— Per che farne? Nemmeno quello ti salverà dalla mia daga. Tu sei sfinito, mentre io sono come un uomo che ha appena cominciato a vibrare qualche colpo, così per giuocare.

— Desidero parlarti.

— O cerchi invece di approfittare per sfuggirmi? Delle spie non mi fido io...

— Non vedi che sono quasi addosso alla torre e non odi il mare a rompersi furiosamente contro la scogliera?

Hiram ebbe un lampo di compassione pel miserabile. Fece due passi indietro e s'appoggiò alla daga dicendo:

— Ti accordo ancora qualche istante di vita. Che cosa vuoi dirmi?

— Volevo chiederti, prima di morire, se tu ami l'etrusca.

— Fulvia?

— Sì.

— Il mio cuore non batte che per la figlioccia del vecchio Hermon.

— Perché l'hai salvata allora?

— Perché un giorno suo padre mi raccolse, quasi morente, sulle rive del lago Trasimeno e mi curò non già come un nemico, bensì come un amico.

— Non l'ami dunque? — chiese per la seconda volta Phegor, con uno scatto di gioia selvaggia.

— Ti ho detto di no.

— Allora puoi uccidermi: morrò contento.

— E che!... Ti eri forse illuso tu, cartaginese innanzi a tutto e spia per di più, che quella fanciulla che è una straniera, quasi una romana, si lasciasse corteggiare da te? Ah! Tu non conosci le donne d'Italia.

— Che importa a te — rispose Phegor che ebbe tuttavia un sussulto. — A me bastava che diventasse mia e non d'altri. Tu le dirai ora, giacché ieri sera non ha lasciata la nave per venire all'appuntamento, che le avevo fissato, che io prima di preparare a te l'agguato, ho spento sua madre.

— Miserabile! — urlò Hiram, scagliandosi innanzi colla daga tesa. — Sei morto!

Phegor con un salto da leone si era già scostato dalla torre gettandosi sulla scogliera.

— Aspetta prima che ti squarci il cuore, spia! — ruggì Hiram, stringendolo da presso.

Phegor con un secondo salto sfuggì a quel nuovo attacco, poi lasciata cadere la daga e l'elmo si precipitò fra le onde che rumoreggiavano sinistramente, balzando e rimbalzando.

— Annegati, infame! — gridò Hiram, scendendo rapidamente la scogliera, colla speranza che i cavalloni glielo rigettassero sulla spiaggia.

Phegor era scomparso. Le onde lo avevano portato al largo o le sabbie del fondo, mosse e rimosse da quella formidabile ondulazione, l'avevano sepolto? Invano Hiram percorse tutta la scogliera e scrutò attentamente i cavalloni.

— Se è vero che si è annegato, né io né Fulvia abbiamo più da temere. Il mio segreto è scomparso con lui ed ora non sono altro che un onesto trafficante fenicio. Povera Fulvia!... Come le annuncerò la morte di sua madre? Cartagine le è stata funesta. Per ora nascondiamole l'orrendo delitto di quel mostro.

Fece un'altra corsa sulla fronte della scogliera, poi, convinto che Phegor si fosse proprio annegato, ritornò sulla gettata dove i suoi uomini lo aspettavano sempre allineati, impedendo qualsiasi passaggio.

— All'hemiolia — disse.

Balzò nella scialuppa e fece ritorno alla nave.

Fulvia lo aspettava in preda ad una vivissima ansietà. Quando però se lo vide dinanzi, senza alcuna ferita, una gioia intensa si diffuse sul suo bellissimo viso.

— Ucciso? — gli chiese.

— L'ho costretto a precipitarsi nelle onde — rispose Hiram. — Non poteva tener fronte alla mia daga.

— Sei un prode.

— Sono un soldato — rispose Hiram.

— Che sia proprio morto?

— Non l'ho più veduto tornare a galla.

La giovane etrusca respirò a lungo.

— Non era per me che tremavo, era per te — disse poi.

— Non occupiamoci più di lui; domani manderò alcuni uomini a cercare il suo cadavere.

Le strinse la mano e si ritrasse a prora, dove aveva la sua stanzaccia, mentre l'etrusca spariva sotto il casseretto di poppa.

Tutta la notte il simun soffiò con estrema violenza, facendo danzare disordinatamente le navi, però verso l'alba le raffiche diminuirono rapidamente ed i cavalloni si spianarono, se non fuori del porto, almeno nell'interno. Quando Hiram e Sidone risalirono sul ponte, le sabbie che travolge il vento d'Africa, non cadevano più ed uno splendido sole saliva sul mare, facendo scintillare vivamente le acque del Mediterraneo.

— Manda alcuni uomini fuor del canale, lungo la scogliera della torre — disse all'hortator. — Vorrei assicurarmi se la spia è veramente morta.

— Hum! — fece Sidone. — Questa notte il mare è stato troppo cattivo e chissà ove sarà andata a finire quella carcassa.

— Sarei più tranquillo se si potesse ritrovare quel cadavere.

— Andremo a esplorare lungo la scogliera, padrone. Ecco i mercatanti che giungono. Faremo una buona giornata oggi e questa sera, se lo vorrai, ci metteremo in viaggio per Utica.

Parecchie imbarcazioni, montate da mercatanti e guidate da schiavi, si staccavano già dalle calate, dirigendosi verso le navi fenicie, che si trovavano in buon numero nel porto, non essendo la sola hemiolia d'Hiram che portava le ricchezze delle isole dell'Arcipelago greco e delle opulenti città dell'Asia Minore.

Tre o quattro scialuppe avevano abbordato l'hemiolia e alcuni vecchi mercatanti erano saliti a bordo, dove già i marinai s'affaccendavano a esporre quanto ancora rimaneva del loro carico, composto, quasi esclusivamente di pezze di porpora, articolo, come abbiamo già detto, carissimo e molto ricercato e che solo i fenici sapevano preparare, non possedendo che essi soli il segreto di quella meravigliosa tinta fiammeggiante.

Tutti gli stati del mondo antico dipendevano, in quell'articolo, dai fenici, nessuno essendo mai riuscito a fare nemmeno delle imitazioni di quella magnifica stoffa, che era sinonimo di potere imperiale, e che solo i ricchi potevano permettersi il lusso di portare, pagandola quasi a peso d'oro. Eppure quella tinta era a portata di mano di tutte le popolazioni costiere, poiché i fenici la traevano da certi molluschi, gasteropodi, dei generi murex e purpura, conchiglie entrambe comuni in tutto il Mediterraneo, fissando poi la tinta con un po' di bicarbonato di soda e succo di limone. Anche oggidì i ragazzi di Tiro ne usano per tingere in rosso od in azzurro-violaceo i loro stracci di lana, ma l'industria non si vale più di quel mezzo, pel numero immenso di conchiglie che occorrerebbero per trarre una quantità apprezzabile di quello splendido colore, che aveva la proprietà di diventare sempre più bello e più vivace alla luce del sole, invece d'impallidire e smarcire.

Sidone, come il giorno innanzi, si era incaricato delle vendite, contrattando con accanimento cogli ingordi mercatanti cartaginesi, mentre Hiram, che temeva di essere riconosciuto, si teneva in disparte chiacchierando con Fulvia dietro la panca dell'hortator.

Già le ultime pezze, dopo parecchie ore di dibattito, stavano per passare nelle mani dei compratori, assieme agli ultimi vasi che si trovavano ancora a bordo, quando Hiram, che teneva costantemente gli sguardi fissi sulle gettate, rispondendo distrattamente alle domande della giovane etrusca, ebbe un sussulto foltissimo.

— Che cos'hai Hiram? — chiese Fulvia.

— Viene.

— Chi?

— La fanciulla che amo.

Fu l'etrusca che questa volta ebbe un sussulto e che divenne pallidissima.

— Dov'è? — chiese cercando di rendere ferma la voce e di fingere una certa noncuranza.

— La sua scialuppa gira in questo momento la punta estrema del molo d'Agger. Viene dallo stagno tunetico.

Fulvia aveva fissati gli sguardi nella direzione che Hiram le indicava. Una superba imbarcazione, che aveva i bordi dorati, montata da otto schiavi negri, s'avanzava rapidissima, sotto la spinta di corti remi, dalla pala larghissima, che venivano maneggiati a due mani, senza appoggio, come usano oggidì gl'indiani dell'America meridionale e dei grandi laghi del Canada. Nel centro, mollemente sdraiata su un largo cuscino di porpora, con una mano abbandonata lungo il bordo, in modo che le dita sfioravano l'acqua, stava una bellissima fanciulla, tutta vestita di lana bianca, leggerissima e molto scollata, colle braccia nude, adorne di braccialetti d'oro in forma di spirale e con in capo uno strano cappello in forma di tiara, di metallo prezioso, adorno di perle e di smeraldi.

Accanto le sedeva una schiava dalle carni molto abbronzate, coperta solo da una specie di perizoma a righe multicolori e che reggeva un mezzo ombrello formato di foglie di palma, alternate a ricchissime piume di struzzo bianche e nere.

— Verrà a bordo della tua hemiolia? — chiese Fulvia.

— Me l'ha promesso.

— A che cosa fare?

— Per assicurarsi forse se io sono sfuggito all'agguato tesomi da Phegor, nei dintorni della sua casa. Deve aver udito i barriti dell'elefante ed il cozzare delle armi dei miei uomini, dall'alto della sua terrazza.

— È una cartaginese quella fanciulla?

— Sì, Fulvia.

— Appartiene alla tua razza, meglio così.

— Perché dici codesto?

— Perché se fosse stata d'una razza diversa... — disse l'etrusca coi denti stretti.

— Prosegui.

Non udendo più nessuna risposta, Hiram si era voltato.

Il viso della giovane etrusca aveva assunto un aspetto così selvaggio, che il cartaginese non potè fare a meno di lasciarsi sfuggire un gesto di stupore.

I suoi occhi mandavano lampi sinistri, le sue labbra rosee e carnose come ciliege mature, si erano ritirate mostrando i piccoli e bianchissimi denti, ed i suoi graziosi lineamenti erano diventati duri, quasi leonini.

— Che cosa volevi dire, Fulvia? — chiese Hiram, inquieto.

— Ero pazza — rispose l'etrusca, sforzandosi di sorridere. — Quella fanciulla è Ophir, è vero?

— Sì.

— La sognavi tu, quando nella mia bianca casetta, io ti cantavo le dolci canzoni del mio paese per addormentarti?

— No: non la conoscevo.

— L'hai conosciuta dopo, qui, in Cartagine?

— Sì, Fulvia.

— Ecco una risposta che mi rende lieta.

— Ma perché, Fulvia?

— Guarda: ti saluta colla mano e... e non vedi, aggrotta le sopracciglia. Forse non ama troppo vedere presso di te un'altra fanciulla, e straniera per di più.

— Ophir sa che io l'amo e sa che io, venendo qui per vederla, ho giuocato la mia vita.

— È vero — disse Fulvia con un sospiro e con una leggera punta d'ironia. — Non si potrebbe amare una nemica della propria patria. È bella!... Bella, Hiram... È degna d'un valoroso come sei tu. Possa la sua dolce voce addormentarti e renderti felice come ti rendevo io, sulle rive tranquille e ombrose del lago Trasimeno.

Ciò detto si era allontanata rapidamente, avviandosi verso poppa, mentre la barca dorata di Ophir, giungeva sotto la scala di corda che Sidone aveva fatto subito abbassare.

La giovane cartaginese, lesta come un uccello, si era aggrappata alla scala innalzandosi rapidamente sull'hemiolia.

Appena si trovò dinanzi ad Hiram, fissò su di lui i suoi profondi occhi neri, nei quali balenava un lampo di risentimento.

— I naviganti di Tiro usano portare delle donne a bordo dei loro legni? — chiese, con una certa acredine.

— No — rispose Hiram.

— Eppure poco fa vi era una fanciulla al tuo fianco. Mi sarei ingannata?

— È una schiava etrusca che io ieri sera strappai alle fauci infuocate di Baal-Molok.

— Ho udito narrare, da Hermon, che alcuni uomini audaci avevano arrestato i sacerdoti del dio nell'esercizio delle loro funzioni.

— E quella è la fanciulla che io tolsi a loro — disse Hiram.

— Sei stato tu?

— Sì, io.

— Solo contro tutti i mercenari di Cartagine?

— Non sono un guerriero e non ho combattuto, come tuo padre, col grande Annibale?

— E se ti avessero ucciso per salvare una miserabile schiava?

— Schiava!... Non lo era, quand'io la conobbi, quasi bambina e quando suo padre, invece di trucidarmi come un nemico di Roma, mi raccolse nella sua casa come un ospite gradito e mi curò dal colpo di lancia che mi aveva gettato morente al suolo. L'astario romano non ebbe il tempo di finirmi ed il padre della fanciulla mi ridiede la vita.

— Ho avuto torto a dubitare di te, Hiram, — disse Ophir; — ma io t'amo. E la donna che ama dubita di tutto e di tutti. Del sole che irradia i suoi raggi sull'uomo amato; del vento caldo del deserto che ne abbronza la pelle; delle raffiche marine che gl'insidiano la vita; dell'aria che respira. Tu sai come fummo separati e tu sai anche quanto abbiamo sofferto in questi due anni che ti esiliarono a Tiro, come un nemico pericoloso. Fammi vedere quella fanciulla a cui devi la tua vita. Ti giuro che l'amerò come una sorella. Venga con me: sarà mia amica e ci aiuterà nella nostra felicità, se è vero che tu non l'hai mai amata.

Hiram la guardò sospettosamente.

— Tu temi qualche cosa? — le chiese.

— No, Hiram.

— E se venisse riconosciuta?

— Chi oserebbe disputarmela? Hermon è uno dei capi più influenti dei Suffetti ed un membro del Consiglio dei Centoquattro.

— La condurrai a Utica?

— Sì.

— Domani all'alba io getterò le mie ancore dinanzi alla città. I miei uomini sono pronti a qualunque sbaraglio ed io ad uccidere l'uomo che il vecchio Hermon ti ha destinato.

— Tu farai quello che meglio crederai. Io non ho mai amato quell'uomo che Hermon vorrebbe impormi, perché è un mercatante come lui. Sii prudente però: se Hermon ha un sospetto, farà guardare la villa da qualche grosso stuolo di mercenari. Tu sai che egli tutto può e che in Cartagine è come un re. Fammi vedere la fanciulla, ora.

Hiram ebbe una breve esitazione, poi si diresse verso la poppa e s'accostò a Fulvia che stava appoggiata alla murata, fingendo di guardare le scialuppe dei trafficanti che tornavano verso le calate cariche di merci, quasi al punto di affondare.

— Fulvia! — disse.

La giovane etrusca parve che non avesse udita la voce del guerriero, perché non si mosse.

— Fulvia? — ripetè Hiram, toccandole una spalla.

La giovane a quel contatto trasalì, poi lentamente si staccò, dalla murata, guardandolo con due occhi che parevano umidi.

— Che cosa vuole mio fratello?

— Ophir vuol vederti.

— Perché?

— Teme che tu mi ami — sussurrò Hiram.

— S'inganna — rispose l'etrusca con voce dura. — Eccomi!