Cartagine in fiamme/9. A colpi di frusta

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9. A colpi di frusta

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8. Un salvataggio miracoloso 10. Verso Utica

A COLPI DI FRUSTA


Il vecchio Hermon si era messo a passeggiare pel terrazzo in preda ad una agitazione vivissima, che faceva sorridere malignamente la spia. Pareva furioso, perché sbatteva irosamente l'ampio mantello di lana che lo avvolgeva e minacciava di sfondare i leggeri calzari sulle pietre e di far scoppiare le corregge dorate che li trattenevano intorno ai suoi magrissimi polpacci.

Dopo di aver fatto sette od otto giri intorno a Phegor, che lo guardava sogghignando, fingendo una impassibilità che probabilmente non provava, s'era arrestato, dicendo coi denti stretti:

— Tu mi dici che Hiram è qui?

— Sì.

— Ne sei ben certo?

— Una spia non scorda le fisionomie degli uomini. Egli è oggi un mercante di Tiro.

— E non più il formidabile guerriero che decise sul lago Trasimeno la vittoria di Annibale colla cavalleria numida?

— L'ho provato io poche ore or sono quanto il suo braccio sia possente. Nessun capitano mercenario di Cartagine avrebbe potuto tenergli testa. Nelle armi ben pochi possono lottare con me, eppure mi gettò in mare.

— Tu!... Il Gran Consiglio si sarebbe ingannato sulla tua valentia?

Phegor fece un gesto sdegnoso.

— Lancia davanti a me tutti i capitani della repubblica o tutte le spie dei Centoquattro e dei Suffetti e vedrai chi sarà il vinto ed il vincitore — disse. — Ma quello è invincibile, sai, mio signore. Va' a provarlo tu o manda qualcuno che tu creda forte come i grandi guerrieri che dormono nella grande necropoli.

— Ed egli è qui?

— Sì, nel porto.

— Non sa dunque quale pena spetta agli esiliati?

— Pare che se ne rida.

— È Melkarth, lui?

— Chi lo sa.

— Che cosa vuole?

— Ophir.

— E poi?

— Va' a indovinare che cosa voglia! Io non posso leggere nei suoi pensieri. Sorveglio, indago, ma null'altro. Pensa però che i consoli romani sono come tanti re e che egli potrebbe sognare di rovesciare la repubblica, i Centoquattro, e anche i Suffetti. Che cosa diverrebbe allora Cartagine? Queste però sono forse fantasie ed è meglio che torniamo a Ophir.

— Tu mi hai detto che la scorsa notte lo ha ricevuto.

— E te lo riconfermo.

— Su questa terrazza.

— L'ho veduto io l'esiliato a salire su una fune che gli era stata gettata da quassù.

— Da chi? — urlò il vecchio.

— Ciò potrai saperlo dalla schiava favorita di Ophir.

— La farò frustare a sangue finché confesserà tutto, dovesse morire.

— Bada che le donne dei numidi hanno la pelle dura — disse Phegor ironicamente.

— E le braccia dei miei schiavi, scelti fra gli iberi delle isole, sono più dure delle pelli numidiche.

Si volse verso il fondo dell'ampio terrazzo dove un uomo del deserto, nero come un tizzone, stava immobile, come se aspettasse gli ordini del suo padrone, e gli disse:

— Fa' condurre Sarepta nella stanza del bagno.

— Che cosa vuoi fare? — chiese Phegor, mentre lo schiavo si allontanava rapidamente.

— Farla parlare.

— Purché non sia uscita con Ophir. Che Tanit mi fulmini se io m'inganno!

— Che cosa vuoi dire?

— Se si fosse recata da lui?

— Dall'esiliato?

— Eh!... Non mi stupirei.

— Lei!... Una fidanzata che fra due giorni sarà sposa di Tsour!

— Il figlio d'un mercatante, è vero?

— E dei più ricchi di Cartagine.

— Le figlie dei guerrieri non ameranno mai i trafficanti di porpore e di vasi — disse Phegor. — Sarebbe come costringere un'etrusca ad amare un gallo, un iberico od un greco.

— Chi spezzerà il mio volere?

— Chi? L'esiliato.

— Hiram?

— L'hai dimenticato?

— La sua nave è nel porto...

— Dei mercanti.

— Questa sera non esisterà più. Una mia parola ed il Consiglio manderà tutte le triremi ad incendiarla.

Phegor ebbe un sinistro sorriso: aveva raggiunto il suo scopo.

— Vuoi dare a me l'incarico, Signore? Ti assicuro che l'hemiolia di quell'uomo non uscirà più mai nel Mediterraneo e che non tornerà più mai a Tiro.

Hermon stava per rispondere quando lo schiavo africano ricomparve dicendo:

— Sarepta è qui colla padrona ed un'altra fanciulla che io non ho mai veduto.

— Una nuova schiava?

— Non lo so, mio signore, però non mi pare una cartaginese.

— Vattene! — disse il vecchio.

— Questo è il momento di farla parlare — disse Phegor. — Invece di una avrai due schiave da far sferzare.

— Parli di Ophir? — gridò Hermon, guardandolo ferocemente.

— No, dell'altra che ha comperato, e forse su qualche nave fenicia.

— Su quella d'Hiram?

Phegor aveva guardato Hermon sgomentato. Un sospetto terribile gli era nato nel cervello.

— Signore, — disse, — interroga solamente la schiava favorita di Ophir.

— E anche la nuova.

— No! — gridò Phegor che era grigiastro, ossia pallido come gli uomini dell'Africa. — No, non ora. E poi Sarepta parlerà.

— Vieni.

Scesero la gradinata che conduceva negli appartamenti interni e, giunti a pianterreno, entrarono in una vasta sala, dalle pareti marmoree, in mezzo alla quale si trovava una vasca d'acqua alimentata da un pesce enorme, che vomitava il liquido da un gran numero di buchi, che crivellavano il suo corpo. Un altro schiavo negro, di forme erculee, brutto come un gorilla, colla fronte bassa e la testa coperta da una massa di riccioli, si era fatto innanzi, interrogando collo sguardo il capo del Consiglio dei Centoquattro.

— Fa' scendere Sarepta, la schiava d'Ophir, — disse Hermon, — e prepara la tua frusta di pelle d'ippopotamo. Voglio divertirmi quest'oggi e cacciare la noia che mi rode, rigando a sangue la pelle d'una giovane donna. La carne venduta deve ben servire talvolta a qualche cosa.

L'ercole negro si allontanò quasi strisciando e dopo qualche minuto rientrava tenendo stretta per una mano Sarepta, la bellissima numida d'Ophir.

La disgraziata, sotto le dita formidabili del gigante, che le attanagliavano il polso, mandava dei gemiti a malapena soffocati.

Vedendo Hermon, la bronzea faccia della schiava, si era alterata, dimostrando un terrore impossibile a descriversi. Hermon fissò sulla schiava uno sguardo terribile, poi scuotendola ruvidamente le chiese:

— Tu hai accompagnata stamane Ophir è vero?

— Sì padrone — rispose Sarepta.

— Dove siete andate?

— Nel porto mercantile.

— A che cosa fare?

— La padrona avendo saputo che erano giunte delle navi fenicie si è recata a bordo d'una di quelle per fare degli acquisti.

— Che cosa ha preso?

— Dei piccioni viaggiatori.

— Dei piccioni! — esclamò Hermon, guardandola sospettosamente.

— Quelli che possiede son quasi tutti ammalati e tu sai, padrone, che quelli dei fenici sono i migliori e anche i più belli.

Hermon guardò Phegor; questi alzò le spalle dicendo:

— Continua.

— E poi che cos'ha acquistato da quei mercatanti? — chiese il vecchio rivolgendosi alla schiava.

— Una fanciulla.

— Non vi sono abbastanza donne dunque qui?... È bella?

— Bellissima.

— Greca o ibera?

— Non lo so, padrone.

— Quale capriccio ha preso Ophir per acquistare un'altra schiava?... Ne capisci qualche cosa tu Phegor.

— Anche troppo — rispose la spia.

— Che cosa vuoi dire?

— Che Ophir ha veduto stamane l'esiliato a bordo della sua nave.

— Avrebbe osato tanto! — gridò il vecchio che era diventato improvvisamente furibondo.

Le sue mani piombarono sulle spalle seminude della schiava, stringendogliele così fortemente da strappare a Sarepta un grido di dolore.

— Parla!... Dimmi tutto! — urlò.

— Che cosa vuoi che dica? — chiese la numida che tremava tutta.

— Ophir ha parlato col comandante di quella nave?

— Non lo so, signore, perché io sono rimasta sulla scialuppa.

— È impossibile che tu non l'abbia veduta.

— Ti assicuro, padrone, che io non ho veduto nulla.

— Tu m'inganni!... Mocar, falla parlare.

Il gigantesco negro aveva preso una frusta di pelle d'ippopotamo, che stava appesa alla parete e si era gettato su Sarepta, come una belva feroce. Un colpo secco che parve lo scoppio d'una castagnola risuonò, accompagnato subito da un urlo di dolore. La terribile frusta era caduta sulle spalle della schiava, lacerandole la camicia e lasciandole sulle nude carni un solco sanguinoso.

La misera era caduta sulle ginocchia, torcendosi disperatamente le mani e gridando:

— Grazia, padrone!... Grazia!...

— Tu guasti troppo le tue schiave — disse Phegor.

— Avrò denari bastanti per surrogarle sempre — rispose il vecchio Hermon. Poi rivolgendosi verso Sarepta le chiese:

— Parlerai?

— Sì, padrone — rispose la numida con voce strozzata dai singhiozzi.

— Hai veduto Ophir parlare col capitano della nave?

— Sì.

— Perché non me l'hai detto prima?

— Non osavo.

— Si è trattenuta molto sulla nave?

— No.

— Che cosa hanno detto?

— Non lo so perché io ero rimasta nella barca.

— Perché Ophir ha comperato quella schiava?

— Non me lo disse. Tu puoi uccidermi, ma io non ti posso dire quello che non so.

— Dov'è quella schiava?

— Nelle stanze d'Ophir.

— Sei sicura che l'abbia comperata da quel fenicio?...

— Lo ignoro, lo giuro su Tanit.

— Un'altra volta sarai più obbediente col tuo padrone e non ti scorderai che la carne comperata e pagata, si può fare a pezzi impunemente.

Sarepta si era alzata gemendo e si era avviata verso la porta, seguita dall'erculeo schiavo. Hermon era rimasto silenzioso, col capo chino sul petto, come se fosse assorto in un pensiero tormentoso.

— Che cosa decidi signore? — chiese Phegor vedendo che non riprendeva la parola.

— Furie di Tanit e di Baal-Hammon! — gridò il vecchio. — Consigliami tu ora. Devo affrontare Ophir?

— E perché no?

— Ho paura di quella fanciulla — rispose Hermon.

— Non è nemmanco tua figlia!...

— Se lo fosse non esiterei ad affrontarla. E poi fra due giorni deve andare sposa a Tsour e quella ragazza sarebbe capace di mandare a male tutto e di rifiutarsi di dargli la mano.

— Guasterà ugualmente tutto, ora che Hiram è qui. Non illuderti, vecchio Hermon.

— Tu sai dove si trova ancorata la sua nave?

— Vi sono stato a bordo.

— Tu?

— Sì, insieme con alcuni mercanti miei amici.

— Io so che tu sei fedele e devoto alla repubblica. Che cosa dovrò fare ora?

— Te l'ho detto; dare battaglia a Ophir. Bada: tu corri il pericolo di finire malamente le nozze fra tua figlia adottiva e quel ricco mercatante. Hiram non è uomo da rinunciare al suo amore. Se è venuto qui, vuol dire che ha qualche progetto e tu sai se egli è uomo d'azione e risoluto.

— Sono deciso...

— A vedere Ophir?

— Sì, purché tu mi accompagni. Tu sei più forte di me.

— Le donne non mi fanno paura, siano cartaginesi, greche, numide, ebree o romane.

— Vieni allora... ah!... Mi scordavo una cosa. Avresti paura tu di gettare nel porto, con una pietra al collo, una fanciulla?

— Quando il capo del Consiglio me lo comanderà io obbedirò. È Sarepta forse?

— No, la schiava che Ophir ha comperata dall'esiliato.

— Domani non sarà più viva: dammi il tuo negro e penseremo a farla sparire.

— Tu vali tanto oro quanto pesi, Phegor. Accompagnami.

Uscirono dalla sala del bagno, risalirono lo scalone e dopo aver attraversato alcune splendide gallerie tutte adorne di quei magnifici vasi che i fenici disperdevano pel mondo antico, bussarono ad una porta di legno di cedro, con enormi borchie di metallo.

— Sei tu, padre? — chiese dall'interno Ophir. — Puoi entrare, le mie stanze sono sempre aperte per te a qualunque ora del giorno.

— Non mostrarti così esitante, signore — disse Phegor, vedendo che il vecchio pareva spaventato. — Il padrone sei tu.

Spinsero la porta e si trovarono in una specie di salotto che aveva il pavimento e le pareti di marmo verde a striature nerastre, d'un effetto superbo. Ritta dinanzi a un'enorme coppa di basalto, entro cui zampillava e rumoreggiava un getto d'acqua, stava Ophir tutta occupata a profumarsi, con unguenti misteriosi, le bellissime braccia che, secondo il costume, aveva nude. Vedendo dietro Hermon la spia, aggrottò impercettibilmente le sopracciglia nerissime, che segnavano sopra gli occhi un'arcata superba e solidissima.

— Non sei solo, padre — disse, continuando a strofinarsi le braccia.

— È Phegor che mi segue. Già lo hai più volte veduto nella nostra casa — rispose Hermon con aria imbarazzata.

— È vero — disse Ophir senza degnare d'uno sguardo la spia. — Che cosa vuoi, padre?

— Volevo chiederti che cosa sei andata a fare stamane nel porto mercantile.

— Una semplice gita in barca — rispose Ophir.

— E nient'altro?

La giovane fece un gesto d'impazienza.

— Sono una tua schiava dunque io, per renderti stretto conto di ciò che faccio?

— No, tu sei padrona in casa mia. Diversamente non ti avrei adottata come figlia. Volevo solamente chiederti chi è la donna che hai acquistata.

— Una bellissima schiava.

— Posso vederla?

— No per ora — rispose seccamente Ophir, continuando a strofinarsi.

— Perché?

— Un mio capriccio.

— Ophir! — gridò Hermon.

La giovane si volse con una posa fiera, sostenendo impavidamente lo sguardo irato del vecchio.

— Ebbene, che cosa c'è? — chiese con voce tranquilla. — Eppure oggi non soffia il simun, ed il tempo è splendidissimo.

— C'è... c'è... — rispose il vecchio alquanto imbarazzato... — che tu dimentichi che quando il sole avrà illuminato due volte la necropoli, tu sarai sposa di Tsour.

— Io non l'ho affatto dimenticato.

— Ma, sì!...

— In qual modo?

— Recandoti sola a bordo d'una nave fenicia.

— Non vi trovo nulla di male. Anche le mie amiche ci vanno a comperare ciò che a loro occorre. E poi io non ero sola.

— Hai parlato al capitano senza che la tua schiava favorita fosse presente.

— Per contrattare dei piccioni e dei profumi per la mia toletta non sono necessari dei testimoni.

— Quando però una fidanzata va a parlare con un uomo che conosce e che non è il suo futuro sposo, sì — aggiunse Hermon.

Ophir a quelle parole trasalì. S'interruppe dal profumarsi le bellissime braccia e guardando il vecchio con un'apprensione che non sfuggì a Phegor, il quale la spiava attentamente disse:

— Non so che cosa tu voglia dire, padre.

— Lo sappiamo bene io e Phegor.

— Allora spiegatevi.

— Oseresti affermare che tu non conosci il capitano di quella nave?

— Prima di stamane io non l'avevo mai veduto. E poi non ho mai avuto alcuna relazione con navigatori fenici che abitano a Tiro.

— E quello invece di essere un navigatore fosse un guerriero, uno di quei capitani che Annibale condusse con sé in Italia?

Questa volta Ophir impallidì, pure facendo uno sforzo supremo rispose sempre calma, fingendosi estremamente stupita:

— Un guerriero?... Un capitano di Annibale?... Io credo che di quei valorosi nessuno sia uscito vivo dalla terribile battaglia di Zama.

— T'inganni.

— Può darsi.

— E lo hai veduto molte volte, prima che io lo facessi esiliare da Cartagine per impedirgli di corteggiarti.

— Hiram! — esclamò incautamente Ophir, con uno scatto di collera.

— Ah!... Vedi se lo ricordi ancora? — gridò Hermon.

— Non è un delitto rammentarsi qualche volta degli amici di mio padre e dei prodi che diedero il loro sangue per la patria. Insomma che cosa vuoi concludere?

— Che il comandante che tu sei andata a trovare stamane, non è un fenicio, bensì Hiram.

Per la seconda volta la giovane manifestò un profondo stupore, poi alzando le spalle disse:

— Le persone, o la spia che ti ha narrato ciò, ti hanno grossolanamente ingannato. Quel capitano fenicio non rassomigliava affatto a quel povero Hiram.

— Tu lo credi?

— Sì.

— Eppure io ho le prove che Hiram è tornato, quantunque non debba ignorare che gli esiliati che osano riporre i piedi in patria vengono considerati come nemici della repubblica e come tali trattati. Egli ha certo saputo da qualche suo amico che tu sei stata fidanzata a Tsour ed è subito venuto, sfidando la pena di morte che lo attende. Il Consiglio dei Centoquattro però veglia su coloro che sono stati sfrattati e questa sera Hiram non uscirà vivo dal porto.

— E tu faresti uccidere un innocente? — chiese Ophir, fremente d'ira.

— Melkarth se lo prenderà nel suo grembo — disse Phegor che fino allora era rimasto muto.

— E sterminerete tutto l'equipaggio?

— Faremo di meglio — disse Hermon. — Bruceremo nave e uomini insieme. Vengano poi i mercatanti di Tiro a reclamare!... Cartagine è ancora troppo potente per non farsi temere. Vieni Phegor. Andiamo al Consiglio a far firmare l'ordine per la battaglia; già non avrà molto da pensare per far prendere d'assalto quell'hemiolia sospetta.

Il vecchio, che sembrava assai irritato, uscì seguito dalla spia. Ophir era rimasta immobile dinanzi al tavolo di toletta, come fulminata dalla terribile minaccia che poteva costare la vita a Hiram.

— È quel miserabile di Phegor che lo ha riconosciuto — mormorò finalmente la giovane, rabbrividendo. — È necessario fare avvertire subito Hiram del pericolo che corre. Se prima di questa sera non ha lasciato il porto, egli è perduto e la mia felicità sarà per sempre spezzata. Tsour mio sposo?... Mai, meglio la morte!...

Assicurò la porta che metteva sulla galleria, servendosi d'un doppio gancio, poi chiamò sottovoce:

— Fulvia!...

L'etrusca che già forse non aveva perduto una sillaba di quel colloquio, fu pronta a entrare nel salotto di toletta.

Se Ophir era ancora pallida, Fulvia non lo era meno.

— È perduto! — disse la giovane cartaginese con voce rotta.

— Ho udito tutto — rispose l'etrusca, la cui voce tremava — È Phegor, l'infame spia che ha avvertito tuo padre dell'arrivo d'Hiram.

— Bisogna salvarlo, Fulvia. Io non sopravviverò alla sua morte.

— Tanto dunque lo ami?

— Più della mia vita.

L'etrusca abbassò il capo come se avesse cercato di nascondere una rapida alterazione del suo viso, poi disse come parlando fra sé:

— Quel prode merita la tua affezione.

Ad un tratto Ophir prese per una mano la fanciulla e guardandola bene in viso le chiese all'improvviso:

— E tu hai mai provato nulla per lui?

— Per chi?...

— Per Hiram.

— Le donne d'Italia non amano i nemici della loro patria — rispose Fulvia. — Possono ammirarli, possono anche amarli come fratelli, ma dare a loro il cuore mai! Hiram già lo sa.

— Avevo per un istante creduto...

— Che cosa?

— Di aver in te una segreta rivale.

— Ti sei ingannata.

— Eppure tu l'hai conosciuto prima di me ed è stato curato nella tua casa; Hiram me l'ha detto.

— Era un uomo ferito.

— Tu dunque mi aiuterai a salvarlo ancora?

— Sì.

— E come faremo noi ad avvertirlo?

— Non abbiamo i piccioni che ci ha dati? Essi sapranno trovare facilmente l'hemiolia. Forse Hiram aveva preveduto questo pericolo e ci ha dato appositamente il mezzo di poterlo avvertire e sicuramente.

— Ecco la sua salvezza! — esclamò Ophir. — Non potremo però lanciarli prima che il sole sia tramontato. Certo Hermon ha incaricato degli schiavi di vegliare su di me e potrebbero scorgerli e ucciderli a colpi di freccia.

— Giungeranno egualmente in tempo?

— L'hemiolia d'Hiram non verrà assalita in pieno giorno, di ciò sono certa. Le triremi aspetteranno la notte fitta, onde le altre navi fenicie non s'accorgano subito. Potrebbero accorrere in aiuto dei loro fratelli di Tiro.

— E noi?...

— Domani all'alba partiremo per Utica, poiché è nella villa che Hermon possiede sulle coste del Mediterraneo, che farà celebrare le mie nozze.

— E vi sarà anche Phegor?

— Lo ignoro.

— Se mi riconoscesse? Ti ho già detto che mi ama alla follia.

— Ragione di più per imporgli il silenzio.

— Se mi obbedirà — rispose Fulvia con un sospiro.

— Vieni, fanciulla, andiamo a vedere i nostri piccioni. Questa sera dormiranno a bordo dell'hemiolia coi loro compagni. Ah!... Tu Hermon cerchi di attraversarmi la via e sacrificare la mia vita con quel figlio di mercatanti?... Tu non conosci ancora Ophir.