Codice cavalleresco italiano/Libro III/Capitolo XIII
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XIII.
Arbitraggio.
L’arbitraggio è uno dei mezzi più efficaci per raggiungere il pacifico componimento delle questioni d’onore. Il verbo dell’arbitro, qualunque possa essere, è giudizio inappellabile; e se non resta «articolo del Codice cavalleresco», come un verdetto di una Corte d’onore, pure, per le parti che a lui hanno ricorso, è legge sacrosanta, che cavallerescamente e onestamente non si può disconoscere, senza recare gravissima ingiuria a chi fu chiamato a decidere della questione, e senza rendersi indegni della qualifica di gentiluomini.
L’arbitraggio è necessario:
a) per definire le contestazioni, i dispareri, i dubbi sorti tra i rappresentanti delle parti avversarie durante le trattative della vertenza;
b) per comporre amichevolmente la questione quando i mandatari non sieno concordi su i modi, su i mezzi, su la qualità e la quantità di riparazione da concedersi alla parte offesa; e ciò perchè i rappresentanti, per quanto giusti e imparziali, hanno sempre una tendenza naturale a identificarsi con il loro cliente, e quindi a tentare tutti i mezzi leciti e cavallereschi per far prevalere il loro modo di vedere e di tirare, come suol dirsi, l’acqua al proprio mulino.
L’arbitro deve essere nominato d’unanime accordo dai quattro mandatari e gradito ai due primi; ed è obbligo delle parti di accettarne le decisioni. Disconoscerle porta seco la squalifica cavalleresca.
Nota. — Le qualità che deve possedere l’eletto sono molte e non comuni.