Così parlò Zarathustra/Parte terza/Della felicità involontaria.

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Della felicità involontaria.

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Friedrich Nietzsche - Così parlò Zarathustra (1885)
Traduzione dal tedesco di Renato Giani (1915)
Della felicità involontaria.
Parte terza - Della visione e dell'enigma Parte terza - Prima del levar del sole
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Della felicità involontaria.

Col cuore pieno di tali amarezze Zarathustra passò il mare, ma quando fu discosto quattro giornate di viaggio dalle isole beate e da’ suoi amici egli sentì d’aver vinto tutto il suo dolore; — vittorioso con fermo piede egli stava un’altra volta sul suo fato. E allora alla sua coscienza esultante Zarathustra parlò così:

«Di nuovo sono e voglio esser solo, solo col puro cielo e il libero mare; di nuovo intorno a me è pomeriggio.

Nel pomeriggio trovai per la prima volta i miei amici, nel pomeriggio anche la seconda: — in quell’ora che la luce vien silenziosamente mancando.

Giacchè tutto ciò che della felicità ancora è in cammino tra cielo e terra si elegge per sua dimora un’anima serena. Per la felicità tutta la luce s’è fatta più silenziosa.

Oh pomeriggio della mia vita! Un dì anche la mia felicità discese a valle in cerca d’una dimora; e allora trovò quelle anime ospitali.

O pomeriggio della mia vita! Quanto non gettai via per ottenere una cosa sola: quel rigoglio vivente ne’ miei pensieri, quell’aurora della mia più sublime speranza! [p. 154 modifica]

Un dì il creatore cercò compagni e figli alla sua speranza; ed ecco, avvenne che egli non potesse trovarne senza crearli da sè medesimo.

Così io sono nel mezzo dell’opera mia, recandomi tra i miei figli e partendo da loro: per amor dei suoi figli Zarathustra deve dar compimento a sè stesso.

Giacchè — in fondo — noi non amiamo che la nostra propria creatura e la propria opera; e là dove è grande l’amore per sè stessi, ivi si ha un indizio di gravidanza: questo io trovai. Ancora per i miei figli è la primavera: son tutti uniti, essi e tutti insieme scossi dal vento: alberi del mio giardino e del migliore de’ miei terreni.

E invero: dove simili alberi si trovano uniti, ivi sono le isole beate!

Ma un giorno vorrò sradicarli dal suolo e piantarli così disposti che ciascuno stia da sè: affinchè ciascun di essi apprenda la solitudine e la fierezza e la prudenza.

Nodoso e attorto egli deve ergersi presso il mare — simile a un faro vivente d’indistruttibile vita.

Là dove le tempeste irrompono nel mare, là ove s’abbeverano le fauci del monte, ciascun di loro deve trovar le sue veglie diurne e notturne, per la sua propria esperienza.

Egli deve provare e dar a conoscere di appartenere alla mia specie e alla mia stirpe, — d’essere il padrone d’una volontà tenace, taciturno anche quando parla e docile a tal segno da prendere allorchè dona — affinchè un giorno diventi il mio compagno ed uno che crei e s’allieti insieme con Zarathustra: — uno che imprima la mia volontà su le mie tavole — per la maggior perfezione di tutte le cose.

E per cagion sua e de’ suoi pari io devo dar compimento a me stesso: perciò ora fuggo la felicità e mi offro volentieri alla sventura — perchè sia questa la mia ultima prova e l’ultima mia esperienza.

E in vero, era tempo ch’io me ne andassi; e l’ombra del viandante e il più lungo dei momenti e l’ora più silenziosa mi dicevan concordi: «è proprio tempo!».

Il vento, soffiando attraverso la toppa, mi diceva: «Vieni». La porta astutamente s’apriva da sola dicendomi: «Va!». [p. 155 modifica]

Ma io era avvinto dalle catene dell’amore per i miei figli!

Il desiderio mi aveva teso quella rete: un desiderio di amore — perch’io divenissi la preda de’ miei figli e perissi in mezzo a loro.

Desiderare — per me significa aver già perduto sè stesso. Io possiedo voi, miei figli! In questo possesso è sicurezza, non desiderio.

Ma il sole del mio amore mi riscaldava: nel proprio grasso Zarathustra maturava a fuoco lento. — Allora ombre e dubbi mi assalirono.

Già io provava il desiderio del gelo e dell’inverno: «Oh, se il gelo e l’inverno potessero farmi scricchiolare un’altra volta!». Così gemetti: — E nebbie ghiacciate sorsero in me.

Il mio passato infranse i suoi sepolcri, e più d’un dolore sepolto vivo risorse: — egli non aveva fatto che dormire quanto gli bisognava, nascosto nel funereo lenzuolo.

Sicchè ogni cosa col mezzo di segni mi incitava: «È tempo!». Ma io non udivo: finalmente il mio abisso si agitò e il mio pensiero si mosse.

Oh, simile ad un abisso sei tu, mio pensiero. Quando avrò la forza di sentirti scavare senza provar terrore?

Sino alla gola sento palpitarmi il cuore, quando ti sento scavare! Lo stesso tuo silenzio sembra voglia soffocarmi, o tu taciturno come un abisso!

Mai ancora ho ardito invitarti a salire sino a me: — m’era già peso bastante il doverti portar meco! Ancora non era forte tanto da sfidare lo spirito insolente e capriccioso del leone.

Troppo orrore sempre m’inspirò la tua pesantezza: ma un giorno io ritroverò ancora la forza e la voce leonina che ti farà salire sino a me!

E quando avrò superato questo, voglio superare anche cose maggiori; e una vittoria sarà il suggello della mia perfezione!

Frattanto navigo per mari incerti; il pericolo mi lusinga, con la sua voce carezzante; io guardo dinanzi e dietro a me — e ancor non veggo la fine.

Ancor non è giunta per me l’ora della battaglia estrema — o forse sta per giungere adesso? In vero, con bellezza insidiosa il mare e la vita mi guardano da torno! [p. 156 modifica]

Oh pomeriggio della mia vita! Oh felicità che precede la sera! Oh porto in alto mare! Oh pace dell’incertezza! Quanto diffido di tutti voi!

In vero, io diffido della vostra insidiosa bellezza! Io somiglio all’amante che diffida dei sorrisi troppo carezzevoli.

Come egli respinge da sè la dilettissima, tenero anche nella sua durezza, il geloso; così io respingo da me quest’ora beata.

Lontano da me, ora beata! Con te mi venne una felicità, non voluta!

Io sono qui preparato al più profondo dolore: — tu giungesti fuor di tempo!

Lontano da me, ora beata! Piuttosto scegli la tua dimora laggiù tra’ miei figli! Affrettati, e benedici ancora prima di sera con la mia felicità!

Già la sera s’avvicina; il sole tramonta. Addio — mia felicità!».

Così parlò Zarathustra.

Ed egli vigilò tutta la notte in attesa della sua sventura; ma attese invano. La notte rimase serena e silenziosa, e la felicità, essa stessa, gli si andò avvicinando sempre più. Ma in sul mattino Zarathustra rise nel suo cuore e disse beffardamente: « La felicità corre dietro a me. Gli è perchè io non corro dietro alle donne. Poichè la felicità è sempre donna».