Dagli Epigrammi (Alfieri, 1912)/I e II. Sonet d'un Astesan an difeisa dl stil d' soe Tragedie

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I e II. Sonet d'un Astesan an difeisa dl stil d' soe Tragedie

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I e II. Sonet d'un Astesan an difeisa dl stil d' soe Tragedie
Dagli Epigrammi (Alfieri, 1912) III. Tutto rosso fuor che il viso

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I e II [cxxi e cxxii].1

Sonet d’un Astesan an difeisa dl stil d’soe Tragedie.

Son dur, lo seu, son dur, ma i parlo a gent
Ch’ han l’anima tant mola e deslavà,
Ch’a l’ è pa da stupí, s’ d’ costa nià
I piazo appena appena a l’un per cent.
Tutti s’amparo ’l Metastasio a ment,
E a n’ han l’oríe, ’l coeur, e j’ eui fodrà:
I’ Eroi ai veulu vede, ma castrà
’L tragic a lo veulu, ma impotent.
Pure j m’ dugn nen pr vint, fin ch’as decida
S’as dev troné sul palc, o solfegièe,
Strassè ’l coeur, o gatiè marlait l’orìa.
Già ch’ant cost mond l’un l’autr bsogna ch’as rida,
I’ eu un me dubbiet, ch’i veui ben rumiè,
S’ l’ è mi ch’ son d’ fer, o j’ Italian d’ potìa.


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S’ l’ è mi ch’ son d’ fer o j’ Italian d’ potìa
L’era pa un dubbi mai ch’ a dveissa andè,
(Com’ i’ sento purtrop, ch’ ven d’arrivè)
A ferì i Piemonteis pi ’n là ch’ l’ orìa.
L’ è un me dubbiet insomma, e as dev nen piè
Per voi, pi ch’ per l’Italia quanta a sia;
E peui, d’un povr’ autour a la babìa,
Com’ a la vostra, sfog bsogna ben dè.
Me sonetass, post ch’ a va comentà,
Parlava an general, e solament
A coi ch’ an pi ch’ ’l coeur, l’orìa dlicà.
Direu, s’ a veulo vnine a ’cmodament,
Ch’ nè lor d’ potìa, né d’ fer mi son mai stà:
mi d’ fer dous, lor d’ pauta consistent.


Note

  1. L’accusa che l’A. si sentí piú spesso ripetere quando, nel 1783, vennero primamente pubblicate le sue tragedie, fu durezza (Vegg. il son. Non più scomposta il crine, il guardo orrendo, e la sat. I Pedanti), e pare che anche dalla sua nativa Asti si levasse qualche voce a muovergli siffatto rimprovero, se il 23 aprile di quello stesso anno compose, a Roma, il primo dei surriferiti sonetti; del quale gli Astigiani dovettero sentire fortemente la puntura, poichè con l’altro, composto a Venezia il 7 di giugno, il nostro Poeta cercò di far, in qualche maniera, ammenda di ciò che avea detto. Un particolare interessante riguardo al primo di questi sonetti è che fu, per la prima volta, stampato di propria mano dall’A., che si valse, a tale uopo, di una piccola tipografia portabile, atta a quattordici righe, e non piú. (Vegg. Renier, Op. cit., LXI e segg.). Poiché a qualcuno dei giovani, anche intelligenti, potrebbe riuscir ostico il dialetto astigiano, non credo inutile porre qui una traduzione letterale dei due sonetti:

    I. Son duro, lo so, son duro, ma io parlo a gente che ha l’anima tanto fiacca e slavata, che non c’è da stupire se di questa genía io piaccio appena all’uno per cento. Tutti imparano a memoria il Metastasio, e ne hanno foderate le orecchie, il cuore e la mente; gli Eroi li vogliono vedere, sí, ma castrati, il tragico lo vogliono vedere, sí, ma impotente. Pure io non mi do per vinto, finché non si decida se sul palcoscenico si deve tonare o solfeggiare, agitare il cuore o accarezzare un poco l’orecchia. Giacché in questo mondo uno deve ridere dell’altro, io ho un piccolo dubbio, e voglio ben ben rumirarlo, se io son di ferro, o se gli Italiani di fango.

    II. Se io son di ferro o gli Italiani di fango non era un dubbio che dovesse andare a colpire i Piemontesi piú in là che l’orecchia, come io sento che, purtroppo, è accaduto. Era un mio dubbierello, insomma, e non lo dovevate prendere per voi piú che per l’Italia intera; e poi, bisogna pure concedere sfogo alla parlantina di un autore, come lo concedereste alla vostra. Il mio sonettaccio (giacché bisogna commentarlo) parlava in generale e solamente a quelli che piú che il cuore han delicata l’orecchia. Direi (se si deve venire ad un accomodamento) che né loro di fango, né io sono mai stato di ferro; o io di ferro dolce e loro di fango consistente.