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Dalla Terra alla Luna/Capitolo XXVI

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Capitolo XXVI

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Jules Verne - Dalla Terra alla Luna (1865)
Traduzione dal francese di C. o G. Pizzigoni (1872)
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FUOCO!

Il primo di dicembre era giunto; giorno fatale, chè se la partenza del proiettile non effettuavasi la sera stessa, alle dieci, quarantasei minuti e quaranta secondi, più di diciott’anni dovevano passare prima che la Luna si presentasse in quelle stesse condizioni simultanee di zenit e di perigeo.

Il tempo era magnifico; malgrado l’avvicinarsi dell’inverno, risplendeva il sole coprendo coi suoi raggianti effluvî questa Terra, che tre de’ suoi abitanti stavano per abbandonare allo scopo di andar in un nuovo mondo.

«Quanta gente dormì male nella notte che precedette quel giorno desiderato con tanta impazienza! Quanti petti furono oppressi dal pesante fardello dell’attesa! Tutti i cuori palpitarono d’inquietudine, tranne il cuore di Michele Ardan. Quest’impassibile personaggio andava e veniva colla [p. 236 modifica]solita aria affaccendata; ma nulla svelava in lui una preoccupazione speciale. Il suo sonno era stato tranquillo, il sonno di Turenna, prima della battaglia, sull’affusto di un cannone.

Dall’aprirsi del mattino, una folla innumerevole ricopriva le praterie che si estendono fin dove lo sguardo si perde intorno a Stone’s-Hill. Ogni quarto d’ora il convoglio di Tampa conduceva nuovi curiosi; quest’immigrazione, in breve, assunse proporzioni favolose, e, secondo i dati del Tampa-Town Observer, durante quel giorno memorabile cinque milioni di spettatori calcarono il suolo della Florida. Da un mese la maggior parte di tal folla bivaccava intorno al recinto e gettava le fondamenta di una città, che si è chiamata di poi Ardan’s-Town. Baracche, capanne, tettoie, tende, sorgevano per la pianura, e siffatte abitazioni effimere ricoveravano una popolazione abbastanza numerosa da far invidia alle maggiori città d’Europa.

Tutti i popoli della terra ci avevano i loro rappresentanti; tutti i dialetti; del mondo vi erano parlati. La si sarebbe detta la confusione delle lingue, come nei tempi biblici della torre di Babele. Quivi i diversi ordini delle società americane confondevansi in un’eguaglianza assoluta. Banchieri, coltivatori, uomini di mare, commissionari, sensali, piantatori di cotone, negozianti, barcaioli, magistrati vi si urtavano con una libertà primitiva. I creoli della Luigiana fraternizzavano cogli affittaiuoli dell’Indiana; i gentlemen del Kentucky e del Tenessee, gli abitatori della Virginia eleganti ed [p. 237 modifica]altieri rispondevano ai cacciatori semi-selvaggi dei laghi ed ai mercanti di buoi di Cincinnati. Con in testa il cappello di castoro bianco a larghe tese od il classico panama, vestiti di calzoni di cotone turchino delle fabbriche d’Opelousas, ravvolti nelle loro blouses eleganti di tela greggia, calzati di stivaletti a colori smaglianti, essi facevano pompa di bizzarre gale di battista e mettevano a scintillare nelle loro camicie, nei loro manichini, nelle cravatte, alle dita, e financo nelle orecchie, tutta una raccolta di anelli, di spilloni, di brillanti, di catene, di boccole, di gingilli, il cui valore non potevasi pareggiare che al loro pessimo gusto. Donne, fanciulli, servitori in vestiti non meno opulenti, accompagnavano, seguivano, precedevano e circondavano que’ mariti, que’ padri, que’ padroni, che avevan sembiante di capi di tribù in mezzo alle loro innumerevoli famiglie.

All’ora delle refezioni bisognava vedere tutta questa gente precipitarsi sulle vivande speciali agli Stati del Sud, e divorare con un appetito minaccioso per l’approvigionamento della Florida, alimenti che ripugnerebbero ad uno stomaco europeo, come rane in fricassea, scimie in istufato, fish-chowder1, sariga arrostita, o’ possum ancor sanguinante, o racoon alla graticola.

Ma qual sequela variissima di liquori o di bevande veniva in soccorso de’ cibi indigesti! Quali grida eccitanti, qual simpatico vociare echeggiava nelle bar-rooms o taverne ornate di bicchieri, [p. 238 modifica]di caraffe, di fiaschi, di bottiglie dalle forme stranissime, di mortai per pestare lo zucchero e di pacchi di paglia!

— Ecco il giulebbe colla menta! gridava uno di quegli spacciatori con voce stentorea.

— Ecco il sangaree col vino di Bordeaux! ripeteva un altro in tuono stridulo!

— Ed il gin-sling! diceva uno.

— Ed il cockstail! Il brandy-smash! vociava l’altro.

— Chi vuole assaporare il vero mint-julep, all’ultima moda? chiedevano que’ destri mercanti facendo passare rapidamente da un bicchiere all’altro, come un giocatore fa colla noce moscata, lo zucchero, il limone, la menta verde, il ghiaccio pesto, l’acqua, il cognac e l’ananas fresco, che compongono questa bevanda ristorante.

E però, di solito, tali inviti rivolti ai gorguzzoli assetati dall’azione bruciante delle spezie si ripetevano, s’incrociavano nell’aria e producevano un frastuono assordante. Ma quel giorno, quel primo dicembre tali grida erano rare. I venditori inutilmente si sarebbero arrochiti a tentare gli avventori. Nessuno pensava nè a mangiare nè a bere, e alle quattro del dopopranzo, quanti spettatori circolavano nella folla che non avevano ancora preso il loro lunch abituale! Sintomo ancora più significativo, la passione violenta dell’americano pei giochi era vinta dalla commozione. Al vedere i birilli del tempins sdraiati sul fianco, i dadi del creps che dormivano ne’ loro bussolotti, la roulette immobile, il cribbage abbandonato, le carte del [p. 239 modifica]whist e del ventuno, del rosso e nero, del monte e del faro, tranquillamente rinchiuse ne’ loro involti intatti, comprendevasi che l’avvenimento del giorno assorbiva qualunque altro bisogno e non lasciava adito a qualsiasi distrazione.

Fino a sera un’agitazione sorda, senza clamori, come quella che precede le grandi catastrofi, corse tra la folla ansiosa. Un indescrivibile malessere regnava negli animi, un torpore penoso, un sentimento indefinibile che stringeva il cuore. Ciascuno avrebbe voluto «che tutto fosse finito.»

Tuttavia, verso le sette quel pesante silenzio si dissipò come per incanto. La Luna si alzò sull’orizzonte. Più milioni di evviva ne salutarono l’apparizione. Essa era esatta al convegno. I clamori salirono fino al cielo; gli applausi scoppiarono da tutte le parti, mentre la bionda Febe brillava pacificamente in un cielo ammirabile, ed accarezzava quella folla inebbriata da’ suoi raggi più affettuosi.

In quel momento comparvero i tre intrepidi viaggiatori. Al loro aspetto le grida raddoppiarono d’intensità. Unanimamente, istantaneamente il canto nazionale degli Stati Uniti sfuggì da tutti i petti anelanti, ed il Yankee doodle, ripetuto in coro da cinque milioni di esecutori, innalzossi come una tempesta sonora fino agli ultimi confini dell’atmosfera.

Poi, dopo quell’invisibile slancio, l’inno tacque, le ultime armonie si spensero a poco a poco; i rumori si dissiparono, e solo un cheto susurro ondeggiò sopra quèlla folla sì profondamente impressionata. Intanto il Francese e i due Americani erano [p. 240 modifica]passati oltre la cinta riservata, intorno alla quale pigiavasi l’immensa turba. Essi erano accompagnati dai membri del Gun-Club e dalle deputazioni mandate dagli Osservatorî europei. Barbicane, freddo e calmo, impartiva tranquillamente gli ultimi ordini. Nicholl, colle labbra strette, le mani incrociate dietro il dorso, camminava a passo fermo e misurato. Michele Ardan, sempre spigliato, vestito da perfetto viaggiatore, colle uose di cuoio, il carniere al fianco; liberissimo ne’ suoi larghi vestiti di velluto marrone, collo sigaro in bocca, distribuiva sul suo passaggio calorose strette di mano con una prodigalità principesca. Egli era inesauribile di vena, d’allegrezza; rideva, scherzava, faceva de’ tiri da biricchino al degno J. T. Maston; in una parola mostravasi «francese,» e, quello che è più, «parigino» fino all’ultimo secondo.

Sonarono le dieci. Il momento di prender posto nel proiettile era venuto, e la manovra necessaria per discendervi, le lastre di chiusura da invitare, lo sgombro della grue e della impalcatura inclinata sulla boccaccia della Columbiad, esigevano un certo tempo.

Barbicane aveva regolato il cronometro coll’approssimazione di un decimo di minuto sopra quello dell’ingegnere Murchison, incaricato di dar foco alle polveri col mezzo della scintilla elettrica; i viaggiatori rinchiusi nel proiettile potrebbero così seguire coll’occhio l’impassibile ago che segnerebbe l’istante preciso della partenza.

Il momento dei saluti era giunto. La scena fu [p. 241 modifica]commovente; a dispetto della febbrile sua allegrezza, Michele Ardan si sentì intenerito. J. T. Maston aveva ritrovato sotto le sue secche pupille una vecchia lagrima, senza dubbio riserbata per quest’occasione. Egli la versò sulla fronte del suo caro e bravo presidente.»

«Se partissi? disse, sono ancora in tempo!

— Impossibile! mio vecchio Maston, rispose Barbicane.»

Alcuni istanti più tardi, i tre compagni di viaggio erano insediati nel proiettile, di cui avevano vitato al di dentro la lastra d’argento; e la bocca della Columbiad, sciolta interamente, aprivasi libera verso il cielo.

Nicholl, Barbicane e Michele Ardan erano definitivamente murati nel loro wagon di metallo.

Chi potrebbe dipingere l’universale agitazione, che toccava allora l’estremo grado?

La Luna avanzavasi sopra un firmamento di ammirabile purezza, spegnendo sul suo cammino i fuochi scintillanti delle stelle; essa percorreva allora la costellazione de’ Gemelli, e trovavasi quasi a mezza strada dall’orizzonte e dallo zenit. E però di leggieri doveva ognuno comprendere che si pigliava la mira oltre la meta, come il cacciatore mira più innanzi della lepre che vuol colpire.

Pesava sopra tutta questa scena un silenzio spaventoso. Non un soffio di vento sulla terra! Non un soffio ne’ petti! I cuori non osavano più di battere. Tutti gli sguardi attoniti fissavano l’aperta gola della Columbiad. Murchison seguiva coll’occhio l’ago del suo cronometro. [p. 242 modifica]Appena quaranta secondi, e poi l’istante della partenza sonava... ma ogni secondo durava un secolo.

Al ventesimo ci fu un fremito universale, e alla mente di tutti gli astanti corse il pensiero che gli audaci viaggiatori rinchiusi nel proiettile contassero del pari que’ terribili secondi! Sfuggirono alcune grida isolate:

«Trentacinque! — trentasei! — trentasette! — trentotto! — trentanove! — quaranta! Foc!!!»

Tosto Murchison, premendo col dito l’intercettore dell’apparecchio, ristabilì la corrente e lanciò la scintilla elettrica nel fondo della Columbiad.

Una detonazione spaventosa, inaudita, sovrumana, di cui nulla varrebbe a dar un’idea esatta, nè gli scoppi del fulmine, nè i boati delle eruzioni, si produsse istantaneamente. Un’immensa colonna di fuoco sprigionossi dalle viscere del suolo, come da un cratere. La terra si sollevò, e poche persone a mala pena poterono per un istante scorgere il proiettile che fendeva l’aria vittoriosamente tra fiammeggianti vapori.

Note

  1. Vivanda di pesci diversi.