Dei difetti della giurisprudenza/Capitolo IX

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Capitolo IX

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Capitolo VIII Capitolo X
Se sia possibile il dare miglior sesto alla giurisprudenza d’oggidì.


Allorchè la gente saggia osserva i difetti e disordini della giurisprudenza ridotta alla pratica, non può di meno di non concepir desiderj, affinchè si truovi ad essi, se è possibile, qualche rimedio. Giusto desiderio, che nasce fors’anche in cuore di chiunque è per sua disavventura straziato da liti, e liti, alle quali non vede mai il fine. A me duole di dover dire, che al massiccio de’ suddetti difetti rimedio non c’è, e che solamente si può sperarne alcuno a gli accessorj. Cioè finchè durerà il mondo, dureranno i punti scabrosi di casi controversi e conghietturali, ne’ quali non si può scoprire la determinata verità, e biasciando i quali dubbioso resta l’intelletto anche de’ più perspicaci e sinceri ingegni, qual delle parti abbia ragione o torto. E questi casi per lo più son quelli, che son condotti davanti a i giudici: poiché gli altri, a’ quali o chiaramente, o sufficientemente han provveduto le leggi, non sogliono si di leggieri comparir ne’ tribunali. Saranno, è vero, decisi ancora questi punti controversi, come, e quando Dio vorrà, con correre la presunzione, che giusta sia stata la decision di ciascuno, ma non già la certezza; perciocchè se in seconde o terze istanze, o in grado di revisione, torneran sotto il lambicco d’altri giudici, di non poche d’esse riusciran contrarie le decisioni. Secondariamente non avrà mai fine la varietà delle teste umane, chiara cosa essendo, che dove s’incontrano materie disputabili e tenebrose, chi l’intende a una maniera, chi all’altra; chi si vale d’un principio, e chi d’un altro; e potendo disavvedutamente accoppiarsi coll’intendimento de’ giudici qualche segreto affetto, che metta un granellino nella bilancia: per conseguente non si potrà ben prevedere, qual abbia da essere la sentenza; nè dirsi con sicurezza, pronunziata che questa sia, se contenga sì o no giustizia. Oltre di che noi proviamo, che non tutti i giudici anche de’ supremi tribunali son cime d’uomini; ed anche le cime d’uomini sanno condurre tant’oltre le loro speculazioni e sottigliezze, che talvolta si perdono fra le nuvole, e credendo d’aver colto nelle reti qualche sturione, truovasi in fine, che han preso un fascio di vesciche. Non credo di parlar qui con troppa arditezza, nè con poco rispetto alla serenissima gran regina Astrea, perchè ho la sperienza dalla mia. In ogni paese, e in Roma stessa, i cui tribunali secondo me esigono maggior venerazione che gli altri, perchè quivi sta il fiore della giurisprudenza, e sono a maraviglia ben regolati i giudizj: in ogni città, dissi, uscita che è una sentenza, si suol istituire un nuovo giudizio della medesima causa. E qui salta fuori ne’ memoriali, e nelle scritture degli avvocati una tempesta di complimenti poco gustosi contra di quella sentenza, e di chi l’ha profferita, con chiamar quella francamente in tutte le sue parti iniqua, ingiusta, e tacitamente ignoranti, sciocchi, balordi i giudici, i quali hanno dipoi la virtù infusa di non andar per questo in collera, e seguitano al dispetto di quelle indiscrete dicerie a credere se stessi, e ad essere creduti dottori e maestri di prima sfera. Oh, si dirà, l’ultima perentoria sentenza, che dopo le appellazioni e revisioni taglia affatto le gambe al litigio, quella almeno tale sarà, che accerterà il pubblico, dove di sicuro albergava la ragione, e dove il torto. Io conto qui per nulla, che niun quasi de i litiganti condennato ci è, a cui non sembri ingiusto quel decreto, ch’egli pruova sì contrario alla speranza ed espettazione sua; perchè tal giudizio d’ordinario vien da ignoranza e passione: laddove quella final sentenza si dee credere procedente da scientifica cognizion de i meriti, e da animo illibato, e solamente innamorato del vero, e del giusto. Il male è, che bene spesso anche gli avvocati perdenti, benchè gente dottissima, crede lo stesso, che i clienti. E il peggio è poi, che se si potesse rimettere in giudizio quella causa già conchiusa e finita, verisimilmente potrebbono uscirne altre nuove decisioni diverse, o contrarie. Sicchè noi torniamo sempre alla conclusione di prima, cioè che la giustizia si dipigne donna velata con gli occhi coperti, per indicare, che i giudici non dovrebbono guardare in faccia ad alcuno, ed hanno da essere esenti da ogni affezione nel profferir le sentenze; ma che la medesima può anche profferirle da orbo, non per mala volontà, ma per l’astrusa verità delle cose, e per la capacità e qualità dell’intendimento, che non è la stessa in tutti.

Vegniamo a gli esterni difetti, e a gli accessori della giurisprudenza. E primieramente quanto al corpo delle leggi di Giustiniano, torno a dire, che m’unisco anch’io colla repubblica legale in protestarle degne di gran venerazione, e in credere, che contengano innumerabili e maravigliosi lumi per ben giudicare del tuo e del mio. Contuttociò chieggo licenza di ripetere, non esser già quello un libro caduto dal cielo, nè il più perfetto modello, che si possa mai immaginare dell’umana giurisprudenza. V’ha delle leggi, che non s’accordano insieme, anzi sono contrarie, come dopo molti altri ultimamente ancora osservò D. Francesco Rapolla dottissimo lettore dell’università di Napoli nel lib. 2, de Jurisconsulto. V’ha eziandio in non poche leggi, anzi in assaissime d’esse, dell’oscurità; e questa fa un bel giuoco a chi le maneggia per far loro dire quel che vogliono ora in una, ed ora in altra maniera. Truovasi del superfluo in moltissime leggi, che a nulla servono per gli nostri tempi. Potrebbonsi perciò abbreviar di molto que’ libri. Quel che è peggio tante leggi han servito e servono anche per accrescere le liti. Tacito, che a’ suoi dì scrisse, Antehac flagitiis, nunc legibus laboramus, che avrebbe mai detto alla vista di tante leggi raccolte per ordine di Giustiniano? Certo è, che Platone, ed altri saggi filosofi furono di sentimento, che le leggi avessero da essere ben poche, ma molto osservate. La ragione allegata dal primo, è questa: « Apud quos plurimæ leges, ibi et lites, itemque mores improbi ». Però sarebbe da vedere, se fosse giusto il sentimento di coloro, che bramerebbono un corpo più compendioso di leggi. Fra gli altri Niccolò Vernuleio, Instit. Politic., lib. III, tit. 2, quæst. 4, propose come cosa utile e desiderabile: « Ut pro tot indigestis legum voluminibus, unum breve haberemus, et perspicuum juris compendium ». Questo approvato da i principi riuscirebbe ben più facile alla memoria e alla pratica di chi si applica allo studio della giurisprudenza. Nè differente era la brama del Multzio, Repræsent. Majestat. Imperial. part. 2, cap. l, § 6. « Multi (dice egli) de jure romano e finibus Germaniæ expellendo; alii de illo in ordinem et compendium redigendo, novoque corpore juris formando, cogitarunt. Quorum sententia utinam obtineret ». E certo si potrebbe proporre alla bilancia de’ saggi questo problema: cioè se tornasse più il conto alla nostra giurisprudenza, che i principi facessero comporre un esattissimo e chiaro estratto e compendio metodico di tutte le leggi di Giustiniano, convenevoli all’uso de’ nostri tempi, risecando le superflue, le riprovate, e le contrarie, o pure il ritenerle nello stato, in cui sono, benchè scure a molti de’ legisti, e difettose per altri capi.1

Chiunque ha letto l’opere del Cuiacio, di Francesco Balduino, di Francesco Hottomanno, e d’altri simili autori, benchè di troppo animati contra di Triboniano, non può non confessare, trovarsi di molti nei nel corpo del Gius civile. L’esser anche stato creduto Triboniano cagione, che si sieno perdute l’opere di tanti eccellenti giurisconsulti romani, sulla rovina de’ quali egli innalzò i trofei della sua gloria, diede motivo a varj lamenti del Budeo, e ad un’elegante orazione composta per bizzarria d’ingegno dall’avvocato di Gennaro Napoletano contra di lui, che si legge nella sua Respublica Jurisconsultorum. Che più? Lo stesso Baldo nel Cons. 122 § verba testam. in fin. lib. 1, confessava che le leggi erano difficili ad intendere, e parer bene spesso, che vogliano una cosa, quando ne prescrivono un’altra, e che perciò vi prendono frequenti granchi i maestri, non che gli scolari. E qualora sembrasse meglio ad un principe il liberarle da tale oscurità, forse l’analisi metodica fatta da Daniel Venatorio del Codice, e delle Pandette, potrebbe servir d’esemplare per sì fatta impresa. Insegnandoci poi la pratica, che tanti giudici pedanei2, e dottorelli intendano poco il latino, e meno quel delle leggi di Giustiniano, meglio sarebbe, che si compilassero in lingua volgare quelle stesse leggi, formandone un solo estratto o sia compendio, come fecero Bartolo, Baldo, Paolo da Castro, il Saliceto, ed altri, consigliandosi nulladimeno intorno a ciò non col solo Accursio, Bartolo, ed altri vecchi interpreti, ma ancora co i più eruditi, da’ quali gran lume ha ricevuto la giurisprudenza ne’ due prossimi passati secoli. Il che sia detto colla sommessione dovuta a chi ha più giudizio di me. Finalmente Giustiniano domina, e in quella parte d’imperio, che gli han lasciato per misericordia i diversi statuti e le consuetudini de i luoghi in Italia, io per me non oserei d’inquietarlo.

Vegniamo più tosto ad un mondo, che è ben altro, che quello di Giustiniano, cioè alla giurisprudenza moderna. Finalmente con leggere due tomi in foglio, o quattro o cinque in quarto delle leggi di Giustiniano, corredate dalle chiose, noi abbiam valicato un real fiume, che sia Po, sia Danubio, sia Tigri, o Eufrate, non è più che un fiume. E tanto più prendendo i soli testi delle leggi senza le chiose. Ma qualor s’entra nella giurisprudenza d’oggidì, eccoci in mare, e mare vastissimo. Non potè Giustiniano preveder tutti i casi sottoposti a liti, nè risolvere tutti i dubbj, risultanti dalle diverse circostanze, e dalle innumerabili azioni e volontà degli uomini. Son venute migliaia d’altri Ulpiani, Papiniani, Triboniani dopo il secolo XI, che han prestato questo rilevante soccorso alla giurisprudenza, con decidere infinite quistioni, piantar innumerabili conclusioni legali, secondo le quali oggidì si regola il Foro. E quindi è saltato fuori quel diluvio di libri, che formano le biblioteche de’ legisti, in cadauna nondimen delle quali, non ostante la gran copia de’ volumi, più son quei che mancano, che quei che vi fanno comparsa. Ma, siccome accennammo al Cap. IV, se mai ci fosse chi si figurasse migliorato colla sterminata abbondanza di libri di tal professione lo stato della giurisprudenza: convien avvisarlo caritativamente, ch’egli è tuttavia forestiere nel mondo. Da che son risorte le lettere in Europa, quasi tutte l’altre scienze ed arti, trattate da valorosi ingegni, han guadagnato col depurarsi da molti errori, coll’acquistare maggior luce di verità, e col divenir utili più di prima, o almeno non nocive, come in addietro, al pubblico. Dimandate, qual utilità abbiano recato e rechino tante e tante fatiche de’ legisti date alla luce: chi è conoscente di queste merci, e sincero, tosto con parole rotonde vi risponderà, non essere per questo cessata, o abbreviata nè pure una lite, anzi essersi aperto un largo campo a moltiplicare ed eternar le controversie forensi. Potersi da gran tempo chiamar la giurisprudenza un ampiissimo paese, dove la sottigliezza, la sofisticheria, o se vogliam dire l’acutezza di tanti autori legisti, ha seminata e sparsa un’infinità di cespugli, spine, e roveti: di maniera che tante son le opinioni, tante le contrarietà ne’ punti legali, che non si sa più, dove posare il piede per ravvogliere la vera desiderata ragione di non fallar ne’ giudicj. Di qua poscia è proceduto e procede un inconveniente gravissimo, che essendosi imbrogliata la facoltà legale coll’incredibil confusione delle opinioni, le quali combattono l’una coll’altra, e portano la livrea di probabili, perchè ciascuna fiancheggiata da una squadra di laureati campioni: i giudici son divenuti padroni ed arbitri della giustizia, figurandosi eglino di potere in buona coscienza seguitar più questa che quella opinione, e dar la vittoria più tosto a quel litigante lor caro, che all’altro, in una occasione, e fare l’opposto in un’altra di somigliante materia. Così ha detto il Fusari, il Cencio, il Gutierez, il Riminaldo seniore, il Cardinal de Luca, e v’ha due decisioni della ruota romana: occorre egli di più per giudicar sanamente di questa controversia? senza badare, Se tanti altri autori, ed anche decisioni, e forse più calzanti (al che poco si bada da taluni) combattono in contrario.

Il peggio è, essere giunto il credito di questi novelli legislatori sì alto, che più alla lor gran sapienza si presta fede, che alla legge stessa: vizio notato e compianto fino a i suoi tempi da Curzio juniore nel consiglio 43, n. 5. S’è anche veduto asserito ne i lor libri, e fino in qualche decisione, che basta l’opinione ed autorità di un solo di questi infallibili maestri del torto e diritto, per rendere dubbiosa una causa, e giustamente sottoposta ad una transazione: quod pro meo sensu est periculosum, come scrisse il suddetto Cardinal de Luca de fideicom. Diser. 140, num. 4. Anzi qualora in una controversia si ha un solo dottore, che ne parla in terminis, e la decide, si dee stare alla di lui sentenza, finchè si truovi, e venga allegato un altro, che tenga opinione diversa: che così insegna il Graziano, Discept. Forens., 531, n. 29, con altri ivi riferiti. E questa nobil conclusione la troviamo autorizzata dalla Decis. 55 della ruota romana, riferita dal Pacichelli nel suo Trattato de Distantiis al § et e contrario. Che se si tratta di consulenti, benchè tenuti nella maestosa corte d’Astrea per uffiziali d’ultimo rango: pure per parere del Magonio, tom. 2, Decis Luc. 15, n. 27, corteggiato da altri non men poderosi colleghi, si dee credere più ad uno d’essi, che a i ripetenti, e a chiunque è stato pubblico lettore, ed ha stampate le sue letture; forse perchè questi ultimi si fan belli con delle sole leggi, cioè son disusati e rancidi editti, e la preeminenza è dovuta alla moda, o sia alle ingegnose ed invincibili riflessioni di chi fa allegazioni e consulti. Ed è in fatti antica la lite fra i testuali e i prammatici, o vogliam dire i cattedratici e i pratici. Ma non si credesse taluno, che succedesse sovente il trovarsi nelle dispute forensi un solo legista, che avesse profferito il sentimento suo. La pratica c’insegna, che poco v’ha, che non abbia trovato qualche contradittore; ne si può negare, che lo studio della moderna giurisprudenza non sia un seminario di contrarietà, e un ostinato campo di battaglia: tante son le opinioni e conclusioni legali sostenute dagli uni, contradette da gli altri. I nostri legisti italiani, siccome gente, che non vuole sconciare il proprio lucroso mestiere, ancorchè meglio di me conoscano le magagne dell’arte loro, pure non s’inducono quasi mai a sparlarne, ne si lagnano di trovar sì fiera guerra di dottrine; anzi potrebbe darsi, che taluno degli avvocati e de giudici se ne compiacesse, perchè più facili e frequenti riescono in tal maniera le liti, e il modo di sostenerle, e la libertà di giudicare a suo talento, senza paventare rimorsi di coscienza. Contuttociò verso il fine del secolo XVI, si vide con lodevol opera Girolamo Zanchi da Bergamo scoprire le contrarietà de’ principali consulenti. Siccome ancora s’è veduto dopo la metà del secolo prossimo passato arditamente mettersi a divulgar le piaghe della moderna giurisprudenza il baron Paolo Francesco Perremuto, legista siciliano, con raccogliere in cinque tomi un’ infinità di discrepanze, e contrarietà de i comentatori delle leggi, de’ consulenti, e delle decisioni stesse della ruota romana, non che d’altri insigni tribunali: libro d’incredibil fatica, e libro utile, non già per introdur la pace e concordia in questa nobil professione, ma solamente per somministrar armi da offesa e difesa a chiunque l’esercita. Ed io so, che uno de’ nostri legisti tante giunte avea fatto all’opera d’esso Perremuto, che se ne sarebbe formato qualche altro torno. Que’ valentuomini eziandio, che nell’anno 1730 in Milano ridussero in compendio le decisioni della poco fa mentovata ruota romana in quattro tomi, non dissimularono il torbido di quell’acque, dove pur tutto dì si vanno a dissetare i nostri legisti con dire: « Sæpe occurrebat opinionum pugna, decisorum repugnantia, et frequentissima legum et constitutionum antinomia ». Non fo io qui menzione de i tre tomi di Eliseo Danza, che portano il titolo di Pugna Doctorum, perchè quello è un titolo fallace, nè ad esso corrisponde la sostanza dell’opera. Dirò bensì, che dopo Giovanni Belloni, e dopo Orazio Cardon, Anton Maria Corazio in tre tomi raccolse da varj autori le opinioni comuni legali, che correvano a’ suoi tempi, cioè sul principio del secolo prossimo passato, e potrebbe riputarsi quella sua fatica utile al buon regolamento de i tribunali, sé il Zevallos, mentovato da me di sopra, non avesse circa i medesimi tempi mostrata l’incertezza di queste opinioni comuni coll’opposizione d’altre comuni senza numero, che percuotono i medesimi suggetti, cioè con levare affatto la maschera a questa si rinomata scienza, facendola conoscere per colma e ricolma d’incertezze, e tutta in preda alle sofisticherie e a gli arbitrj de’ dottori, e de’ giudici. Nè già ha essa dopo di quegli scrittori acquistata fermezza alcuna, stante la continua mutazion delle opinioni, prevalendo ora le une, ed ora le altre, secondo il bisogno degli avvocati, e il beneplacito de’ giudici. Nè s’ha da immaginar tosto, che per trovarsi or questa, or quell’altra opinione accreditata da più e più autori stampati, acquisti mai forza di legge ne’ tribunali. In altre occorrenze di chi ha da sostenere il contrario, o inclina a giudicare diversamente, essa perderà il credito. E tanto più, perchè esaminando la maggior parte di cotali opinioni colla filateria de’ suoi seguaci, si truova, avere i dottori l’un dopo l’altro a guisa delle grue seguitato quel primo dottore, che la spacciò perchè così esigeva l’interesse delle lor cause, e senza ben esaminarne la sodezza de’ motivi e delle ragioni. E divien peggiore il male, perchè avvezzandosi i legisti a questa comoda maniera di dar per provate e stabilite le opinioni legali con allegar gli autori, non si avanzano mai nella teorica, nè si procacciano la scienza e le ragioni delle cose, riposandosi troppo sull’altrui fede e dottrina: abuso osservato da Benvenuto Stracca nelle sue Annotazioni all’opere del Cravetta, dove dice: « Evenit nonnumquam, ut veluti ovem unam saltantem sequuntur aliene, ita et doctores faciant, magni doctoris vestigia sectantes, mequum ab iniquo separare ulterius non studentes; licitum ab illicito discernere non amplius cogitantes; bonum et æquum nascere minime, ut par est, laborantes ».

Più fieramente poi si sono scatenati varj eruditi giurisconsulti, massimamente in Germania, contra della moderna giurisprudenza, con pretenderla corruttrice dell’antica, e delle stesse leggi, che pur si decantano si venerabili; con far conoscere gli abbagli presi da Accursio, e da altri vecchi o moderni spositori d’esse leggi; e con deplorarne la smoderata istabilità, ed insoffribil discordia. Antonio Fabro, giurisconsulto di mirabil ingegno, fors’anche troppo sottile, più tomi compose de erroribus pragmaticorum, contra de’ quali combattè ancora Edoardo Caldera portoghese. Ora trovandosi in così miserabile stato la giurisprudenza, non illustrata, ma offuscata da tanti volumi, non sollevata, ma oppressa dagl’innumerabili scrittori suoi: si cerca, se non potendosi, come abbiam detto, rimediare a gl’interni suoi difetti, qualche rimedio almen resti a gli esterni. Io qui primieramente dico, che appartiene a i principi saggi, e gelosi del bene de’ suoi sudditi, il rivolgere i lor pensieri più serj a questo non lieve bisogno della Repubblica. La giustizia non è già volata via da questo inondo, come finse qualche antico poeta, forse adirato in rimirare i disordini de’ suoi tempi, de’ quali nondimeno niun tempo va senza. Abita tuttavia la giustizia in terra, e ci abita, benchè maltrattata, benchè perseguitata di tanto in tanto in questo o in quel tribunale, e benchè suggetta a varie disgustose burle, che le fanno i signori dottori, suoi cortigiani, che pur vivono del di lei pane. Cioè per loro interessati fini talmente essi la vestono, l’abbigliano, l’imbellettano, e dipingono, che arriva a non conoscerli più per quella che è; quand’anche i giudici timorati di Dio la cercano, non san distinguerla dalla sua nemica ingiustizia. Però che han fatto i più famosi principi della terra in addietro per togliere questo brutto inconveniente? Il meglio che han potuto si sono sforzati di liberar la povera giustizia da gli abusi, e dal predominio, che sopra di lei ha presa la prepotenza de’ suoi astuti cortigiani, con far nuove leggi, con abolir le inutili, ed altre introdotte dagli ufiziali e servi della medesima giustizia, in una parola con riformare la giurisprudenza de’ tempi loro. Abbiamo da Suetonio al cap. 44 della vita di Giulio Cesare, primo fra gl’imperadori romani, ch’egli « Jus civile ad certuni modum redigere, atque ex immensa diffusaque legum copia optima quæque et necessaria in paucissimos conferre libros destinavit ». Ma non fu lasciato vivere tanto da poter eseguire si nobil idea. Venne Marco Aurelio Antonino, celebratissimo fra i romani augusti, il quale per attestato di Capitolino « Jus magis vetus restituit, quam novum fecit ». E Tertulliano scrivendo sotto Settimio Severo Augusto al Senato romano il suo Apologetico, nel cap. IV così diceva: « Nonne et vos quotidie, experimentis illuminantibus tenebras antiquitatis, totam illam veterem et squallentem silvam legum novis principalium rescriptorum et edictorum securibus truncatis et cæditis? ». Costantino il Grande anch’egli, adocchiato sì grave sconcerto, vi mise le mani. Sono parole di Nazario nel di lui Panegirico: «Novæ leges regendis moribus, et frangendis vitiis constitutæ veterum calumniosæ ambages recisæ, captandæ simplicitati laqueos perdidere ». Ma di poco rilievo furono somiglianti rimedj. Però Teodosio Augusto il minore si avvisò di supplir meglio al bisogno con far compilare il suo Codice appellato teodosiano, in cui « detersa nube voluminum, in quibus multorum nihil explicantium ætates attritæ fuerant, compendiosam divalium constitutionum scientiam proposuit ». Ciò non ostante continuò, anzi crebbe lo sconcerto della giurisprudenza, finché venuto Giustiniano Augusto all’osservare, quanto al corso della giustizia pregiudicasse la soverchia copia delle leggi, e i tanti volumi de’ giurisconsulti precedenti, ridusse in un corpo finto le leggi imperiali, che le sentenze de’ più accreditati legisti, e bandì tutta l’altra farragine delle opinioni legali, come imbrogliatrice e seminatrice di discordie nel regno d’Astrea.

Ma che? que’ medesimi, che risvegliarono dopo alcuni secoli in Italia la giurisprudenza di Giustiniano, e si dichiararono spasimati adoratori d’essa, si videro, come dicemmo, ben presto ribelli a gli ordini chiarissimi dello stesso Augusto col commentar le sue leggi, coll’interpretarle, e poi lasciata affatto la briglia a i loro ingegni, con farla da legislatori, e ristrignere, ampliare, limitare, ed anche talvolta riprovare l’intenzion di quelle leggi, e la volontà del legislatore sovrano. E perciocchè, siccome dicea Baldo nel Consiglio 398 «la discordia nelle opinioni è cosa naturale ne i dottori3 »; s’è in fine formato quel caos di opinioni ed incertezze, che noi troviamo nella scienza legale, e viene spezialmente deplorata da chi ha la disavventura di dover litigare, ed è confessata nel Dottor volgare del Cardinale de Luca, onorato censore della ua professione, là dove dice, parere « che la legge si sia quasi tutta ridotta ad opinioni, come pare che si verifichi anche nella medicina, e in tutte l’altre scienze e professioni ». Nè già paragone alcuno c’è fra lo scompiglio, in cui trovò Giustiniano la facoltà legale, e quel d’oggidì: perchè nello spazio di secento anni, da che in Italia si risvegliò lo studio delle leggi romane, tale e tanta è stata la fecondità de i dottori utriusque in Italia, Germania e Spagna, che più libri ha prodotto questa professione, che ciascun’altra. E noi correremmo pericolo di restarne affogati, se per compassione che s’è avuta alle povere nude sardelle, non si fossero condennati tanti libri vecchi e rancidi di questa scienza, come letture, e consigli, a vestirle, affinchè non si muoiano di freddo. Nè si vuol tacere, che anche nella giurisprudenza è entrata la moda. Quegli Azoni, Bartoli, Baldi, Odofredi, Bellameri ecc. che tanta figura fecero una volta nel mondo, e non compariscono più nelle biblioteche legali, o se pur vi stanno appiattati in qualche cantone, non godono più il privilegio d’essere studiati o consultati, perchè a i soli libri de i due prossimi passati secoli, e del presente, è riserbata la gloria d’istruire i nostri legisti. Ora se gli antichi hanno di mano in mano cercato di riformare ed espurgare la giurisprudenza, che è un giardino, il quale al rovescio de’ veri, quanto più è coltivato, tanto più si riempie di sterpi e spine: non ci sarà egli principe alcuno, che in casa sua pensi a soccorrere la malmenata giustizia con qualche saggio ed utile rimedio? La lor cura si stende a togliere tanti altri abusi e mali del pubblico. È egli forse picciolo, e da trascurare, quello del regolamento della giustizia, che vien riguardato da chicchessia per uno de’ più importanti del governo civile? Ma qual sarà questo rimedio?

Note

  1. « In Parigi nell’anno 1689 un Legista Anonimo pubblicò un Libro con questo titolo: Les loix civiles dans leur ordre naturel, dove fa vedere, quanto sieno disordinate ne’ Digesti le materie, e male applicate a i titoli, o pure oscure. Nota eziandio le molte cose inutili e superflue, e le non poche ripetizioni della medesima cosa, oltre ancora a varie sottigliezze dell’antica Giurisprudenza, che non son da approvare. A questi disordini tenta quell’Autore di provvedere con dare un’altro ordine e forma alle leggi d’essi Digesti. Per conto ancora dell’Istituta di Giustiniano, pretende Arrigo Kestnero nelle sue Dissertazioni De Defectibus Juris Civilis, quella essere un’opera difettosa, perchè mancante del gius della Natura, e de’ principj del gius pubblico, e perchè v’ha delle dottrine inutili, un metodo poco lodevole, e delle meschine ragioni ».
  2. giudici per cause minori (che non avevano la sedia curule). V. dotta dal tardo latino pedaneus (D.E.I.)
  3. « anzi, come notò il Panciroli nel de Clar. Leg. interpr., lo stesso Baldo " parum sibi constans sæpe numero contrarius reperitur "»