Dei difetti della giurisprudenza/Capitolo XII

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Capitolo XII

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Dell’indifferenza richiesta ne’ giudici.


Non v’ha persona, la qual faccia un po’ di riflessione a i primi principj della ragione, che non sappia, dovere il giudice, allorchè gli si presenta qualche causa, spogliarsi affatto d’ogni desiderio, amore e odio, timore o speranza, ne inclinanare in favore d’alcuna delle parti, se non dappoichè le ragioni da lui credute più forti dell’una parte l’inducono, e in certa maniera lo sforzano a profferir la sentenza contro dell’altra. Questo, dissi, da ognuno si sa; ma non sanno già i più, che non è già si facile l’esecuzione di questa necessaria regola, e che non di rado dalla pratica riesce troppo diversa la teorica. E ciò perchè i giudici non sanno, o non vogliono por mente alle burle, che a noi fanno le interne occulte nostre passioni. Queste medesime passioni, che si nascondono, il nostro prevaricare in tante altre occasioni o nel maneggio della roba altrui, o ne i contratti, o nel nuocere alla riputazione, o a i giusti vantaggi del prossimo nostro, possono e sogliono così furbescamente far breccia nel cuore de i giudici, che persuadendosi d’essere sul principio affatto indifferenti, pure appena dedotta al lor tribunale qualche lite, sentono in sè stessi inclinazione, che vinca più tosto l’una, che l’altra parte. Nè parlo qui di giudici privi di coscienza, e capaci di vendere la giustizia a chi promette od esibisce di più. Intendo di giudici timorati di Dio, di giudici, che non prendono regali, e che si credono di sempre giustamente giudicare, anche allora che per disavventura pronunziano sentenze ingiuste. Noi non siamo avvezzi a sottilmente disaminare gli andamenti del nostro amor proprio, nè a penetrar nelle fibre de’ varj nostri affetti. Ma se mai ve n’ha bisogno, allora è, che un uomo prende a giudicare della roba, o della riputazione, o della vita altrui. Per conto della roba, questa allora si mette in mano del giudice. Egli ne divien come padrone, e sta l’una e l’altra parte aspettando di riceverla dalla sua bocca. Gran disordine, e insieme gran torto, che si fa alla repubblica, e al privato, se il giudice la dia a chi non la dee avere, benchè in sua coscienza egli si figuri di darla a chi essa è dovuta.

Ora suppongo io per cosa certa, che niun uomo dabbene posto a sedere in tribunale profferisca mai sentenza, in cui non sia persuaso, che più forti ragioni assistano a chi egli concede la vittoria. Ma questo non basta. Prima di esaminar le ragioni, s’ha da esaminare il cuore, per vedere se vi s’annidasse qualche segreto impulso di desiderare, e di trovar più buone e stringenti le ragioni dell’una, che dell’altra parte. Ed oh quante ve ne possono essere! Ed essendovi, non si può dire, che leva non osservata lavori dentro dell’uomo per muoverlo in favore dell’una delle parti. Allora insensibilmente, e senza avvedersene, chi dee esser giudice, comincia a diventare avvocato della parte, a cui è più portato l’affetto. Allora anche le ragioni deboli prendono aria di vigorose in un intelletto, che a cagione della mal conosciuta passione non si truova nell’equilibrio, in cui dovrebbe essere. Anzi va egli cercando nel magazzino del suo sapere altre ragioni, altri amminicoli, per poter pure con bastevole fondamento determinarsi per quella parte. E vi si determina in fine colla coscienza quieta, perchè non discerne ruota alcuna, che internamente l’abbia spinto, fuorchè le ragioni, a sentenziare così. Sudi pure allora un dotto avvocato per intendere una fondata scrittura pel suo cliente, si sfiati in un contradittorio: già la sentenza era data, e il suo cliente avea da avere il torto.

Ma quali son queste passioni, che possono ammaliare il cuore anche de’ più venerandi vecchioni, scelti per maneggiar le bilance dalla giustizia? Si possono ridurre a quattro, cioè all’amore, all’odio, alla speranza, e al timore. Per amore e odio io intendo quel che riguarda le persone. Se di due litiganti l’uno gode poco della buona grazia del giudice, e più se è segretamente odiato da lui o a dirittura, o per cagion de’ parenti, o per altro motivo: io ho una cattiva nuova da dargli: egli vuol litigare, ed ha torto. Per lo contrario chi ha la fortuna di essere nel ruolo de i di lui amici, si rallegri. Purchè mai si possa, in suo favore si dichiarerà la fortuna. Oltre al suo visibil proccuratore ed avvocato egli ne ha un invisibile, che perora sempre per lui in cuore del Giudice. Nè occorre dire: il giudice è uomo onorato e dabbene, saprà spogliarsi d’ogni passione. Non niego, che possa darsi, e si dia talvolta. Un bel detto abbiamo di Cicerone, che ci farà conoscere, qual diritto sentimento avessero fino i gentili dell’ufizio de’ giudici. « Neque (così egli, lib. 3 de Offic.) contra rempublicam, neque contra jusjurandum ac fidem, amici sui caussa vir bonus faciet. Nec si judex quidem erit de ipso amico; ponit enim personam amici, quum induit judicis. Quum jurato dicenda sententia sit (ed appunto giuravano i giudici romani di sentenziare pel giusto secondo la propria coscienza) meminerit Deum se adhibere testem ». Tenga a mente anche il lettore questo buon uso de’ romani. Non niego, dissi, che si truovino giudici sì padroni di se stessi, che sappiano deporre ogni riguardo d’amicizia, con attendere solamente il valor delle ragioni senza parzialità; ma insieme, che non è da tutti il farlo, ed esservi sempre pericolo, che senza avvedersene più inclini un giudice a favorir chi è amico, che chi non è tale. Naturalmente pende l’intelletto verso dove pende l’affetto. Nè ad assicurar molti da ogni esenzione di parzialità, basta il dire: Io ho avuto davanti gli occhi Dio; Dio che non è accettator di persone; Dio, che in far giustizia non mira in faccia di chichessia. Perciocchè Dio, che è Dio, sa e può ben farla da par suo; ma gli uomini, creature troppo imperfette, non tutti si possono promettere una totale indifferenza, ove si tratta di giovare, o di nuocere a persona amata in confronto d’altra, con cui non passa amicizia alcuna. Quegli ancora, che qui per disavventura fallano, non hanno di che accusarsi al confessore, perchè s’avvisano d’aver sentenziato giustamente a tenore della lor coscienza; ma senza avvedersi, quanto a quella sentenza abbia influito l’interna raccomandazione dell’amicizia.

Per conto della speranza intendo io lo sperar qualche proprio vantaggio, sia esso di vil guadagno, sia di piacere a chi possa giovare in varie differenti maniere, assai note nel mondo, e massimamente se si tratta di potenti, di ricchi, o di ministri del principe. Una gran tentazione allora (mi sia lecito il dirlo) si sveglia nell’interno del giudice. Così far dei bene a quel tale, anche a me ne può venir del bene. Però bisogna aguzzar ben l’intelletto, per trovare, se è mai possibile, maniere di farmelo grato con una sentenza a lui favorevole. Nè qui si parla di coloro, che prendendo a giudicare, non sentono mal volentieri chi osa di esibir gratificazioni, e forse non tarda a farle toccar con mano; benchè taluno creda maggiore efficacia quella del promettere, che del dare, perchè chi ha ricevuto può burlare il donatore: senza riflettere, che anche il promettitore può mancar di parola. Questi non son giudici cristiani, sono assassini della giustizia. Le antiche leggi, gli statuti delle città han proposto varie pene a chi prende regali, o pattuisce prima di profferir la sentenza. Non è questo, torno a dire, un amministrar la giustizia, come ognun vede, ma un venderla: delitto pieno d’infamia. E se da alcuni legisti e teologi vien permesso a i giudici il prendere regalucci di comestibili, o di cose di lieve momento da i litiganti: ancor questo sarebbe meglio il proibirlo. Gli onorati e delicati ministri della giustizia nè pure ammettono il poco, perchè sanno, che ancor questo poco può essere un granellino atto a far pendere la bilancia, secondochè ci avvisa Dio presso Isaia, cap. 33, dicendo: «Justum debere excutere manus ab omni munere ». Eglino vogliono essere, ed amano di sempre comparire presso di ognuno incorrotti ed incorruttibili. Delle loro sportole, o del loro salario si han da contentare i giudici. Con questo patto son posti in uffizio. Se qualche cosetta di più dopo il decreto cola, purchè nè sperata, nè pretesa: ancor questo può passare. Il ragionamento nostro intanto va a chi spera utile, favore o vantaggio dopo la sentenza da chi la troverà a tenor delle sue voglie. Lasciate fare a questa interna oratrice: saprà ben essa dare un buon aspetto a qualunque ragione, che si adduca per chi saprà ben pagare gli arbitri, e lo studio favorevole del giudice. Nol vedete? Giudica in proprio favore, chi giudica in favor dell’amico. E giudice, che pensa a’ propri vantaggi, l’interesse gli detta la sentenza.

Altrettanto, e forse più, è da dir del timore, timore di disgustare il principe, un potente, una persona, da cui si son ricevuti benefizj. Sveglia lite quel nobile, quel graduato; egli è persuasissimo d’aver ragione; anzi, come porta il costume, crede di averla patente. Se uscisse decreto contrario alla credenza sua, mai più non la perdonerebbe a quel giudice ignorante, o più tosto maligno, o segreto nemico. Però il politico giudice, per ischivar la preveduta tempesta meglio sia che peschi ne’ libri tanto da appagar le voglie di questo pericoloso campione; e sollecitamente sbrigherà la di lui causa, lasciando dormir quelle di tant’altri. Perchè mai tanto nelle divine scritture si raccomandano le cause de’ pupilli, delle vedove, e de’ poverelli? Non per altro, se non perchè anche ne gli antichi tempi si trascuravano i ricorsi di questi miseri, o pur le sentenze facilmente uscivano contrarie a i debili e sprezzati litiganti, perchè si giudicava in confronto d’altri potenti, da’ quali o si temeva danno, o si sperava vantaggio. Bene pertanto sarebbe, che i principi vegliassero sopra gli andamenti de’ giudici, allora massimamente che sono alle mani i ricchi e potenti contra de’ poveri. Carlo Magno, imperadore d’alto intendimento, e di mirabil attenzione a i bisogni de’ suoi popoli, voleva egli stesso conoscere le cause de’ potenti, per timore, che i suoi ministri potessero prevaricare.

Vengo alle raccomandazioni, che pur troppo anche a i dì nostri s’accostano a i tribunali. A queste si può dar qualche passaporto, qualor si tratta della giustizia criminale, o per iscusare i rei, o per isminuire, o risparmiar loro la pena. Lo spirito della carità cristiana gode in ciò de i privilegi, sopra tutto in casi compatibili, ponderata l’umana fragilità e debolezza. Dee esso nondimeno camminar con sommo riguardo, ove la giustizia proceda contra di certi malviventi di professione, il perdonare a i quali è un condennare il pubblico a sofferir altri danni ed ingiurie. Ma per conto della giustizia civile, dirò in poche parole: le raccomandazioni sono iniquità. Non pensa d’ordinario chi va a raccomandare, al mestiere ch’egli allora fa. Ma sappia, ch’egli va a pregare il giudice, che commetta un’ingiustizia. Oh io non cerco, se non la giustizia. Ma s’altro non bramate, perchè raccomandargli quella causa? O voi offendete il giudice, temendo o sospettando, ch’egli sia capace di fare, o pur disposto a fare un’ingiustizia. Ma se il riputate un uomo giusto ed incapace di operare ingiustamente: che mira può aver quella raccomandazione, se non di muovere il giudice a sentenziare, come voi vorreste, quand’anche il suo sapere, e la sua coscienza gli suggerisse il contrario? Adunque a niuna onesta persona conviene l’impiegare i suoi ufizj in pro de’ litiganti, supposto sempre che si litighi davanti a giudici onorati e tementi Iddio. A gli avvocati, a i proccuratori tocca il raccomandar le cause con isfoderar buone ragioni, e farle gustare a chi dee profferir la sentenza. E ad ognuno è lecito il raccomandar la spedizion delle cause, ma non già l’implorare i favori de’ giudici in favore altrui. Chi è che non si vergognasse di dire schiettamente ad un giudice: di grazia sentenziate per questa parte, o profferite la sentenza contra di quell’altra? Ma lo stesso è virtualmente il pregarlo, che gli sia raccomandata la causa di quel tale suo servitore, suo parente, suo amico, ecc.

Ma se disdice ad onesto uomo l’interessarsi per far vincere le cause civili a chichessia per via di raccomandazioni, incomparabilmente più disconverrebbe ad un giudice il badarvi, e farne caso. Certo se mai avvenisse, che un d’essi, da che ha sentite le premure di un potente, o di un ministro in favore di talun de i litiganti, cominciasse in suo cuore a pensar come si potesse far piacere a sì qualificato personaggio, il veleno è entrato, e comincia a far operazione. Nè sarebbe sicuro scampo il dire, che a questo non si arriverà, quando vi avesse da essere intacco di coscienza. Mettete pure in cuor del giudice la brama, che vinca più l’uno che l’altro degli avversarj, questa avrà possanza di far comparire migliori le ragioni di quello, che le ragioni dell’altro, e saprà con ciò quietare anche la coscienza. E tanto più sarà da temere, quanto più saran grandi quei che raccomandano, al volere de’ quali il poter servire è fortuna, e periglioso il fare il contrario. Non par credibile, che alcun principe del mondo cristiano viva in questi tempi, certo più moderati e migliori di molti secoli addietro, il quale esprimesse a’ suoi giudici chiaramente l’intenzion sua per la vittoria d’uno, o per la perdita d’un altro. Potrebbe nondimeno darsi, che un dì qualche principe premuroso certamente della giustizia, disavvedutamente mostrasse più genio per l’una delle parti, e odio o sdegno per l’altra. Ah che basterebbe questo per giudici debili di stomaco, o cacciatori della fortuna, ad inchinar la loro volontà ed intelletto verso dove va l’inclinazion del sovrano. Non si può dire, quanto poco ci voglia a torcere il giudizio nostro, qualora entri nel giudicare qualche anche minuta, non che maiuscola passione. Buona parte delle liti si riduce quasi ad un punto indivisibile. Dall’una parte buone ragioni, dall’altra ragioni buone. S’ha da determinare il giudice. Pochissimo manca, perchè egli inclini verso l’una, o verso l’altra parte. Quello, che facilmente il può fare risolvere, può essere una delle segrete passioni suddette, una raccomandazione, o qualche consiglio dell’amor proprio, che stende pur troppo la sua giurisdizione sopra tutte le operazioni nostre. Torno dunque a dire indifferenza, indifferenza ne’ giudici. E questa si studia d’averla, e diligentemente disamina se l’ha, chiunque porta sul tribunale timore di Dio, e sentimenti di vero onore. Venendo raccomandazioni, sanno sbrigarsene con galanteria, e più spesso con dar a conoscere il proprio dovere e obbligo a chi non vi facea riflessione. È sommamente da lodare un uso de gli auditori della ruota romana, ruota di tanto credito anche per la fondata opinione d’essere esente da parzialità. Non rispondono essi a qualsivoglia lettera di raccomandazione, sia pure di principi grandi, sia anche di re e monarchi. Nè ha adito in cuore di questi onorati ministri della giustizia alcun timore di dispiacere ad altrui, o di perdere la sua buona grazia. Chi non ha petto, non si metta a fare il giudice. E perciocchè possono intervenir tali riguardi e circostanze, che un giudice si truovi in angustie, in poca libertà, o in grave tentazione, allorchè gli vien davanti qualche causa o di amico, o nemico, o di patente, o di chi è già stato suo cliente: dee la prudenza cercar allora le vie più proprie per iscusarsi e sottrarsi a quel giudizio. I legislatori nostri hanno per tempo anch’essi conosciuto, quanto sia difficile il trovare l’indifferenza suddetta in giudici, qualora sieno nemici dell’una parte, parenti dell’altra, o militino altre simili circostanze da poter giustamente diffidare della rettitudine del loro giudizio, con permettere a i litiganti di dichiarar diffidenti sì fatte persone. Ma questa licenza è solamente riserbata per motivi noti, e pubblici, e che occorrendo si possano provare. Il male è, che tant’altre occulte passioni han forza d’infettar l’animo di chi dee giudicar della roba e de i diritti del popolo; e queste o non si possono prevedere e discernere, o certamente non si possono provare, ne per conseguente chiamar diffidente chi le nasconde in suo cuore. Allora Dio te la mandi buona: in pericolo si truova e la giustizia e la roba.

Abbiam veduto di sopra, che fin sotto gli antichi romani giuravano i giudici di profferir la sentenza, quale alla lor coscienza pareva la più giusta, e che era obbligo loro di ricordarsi, se Deum adhibere testem. Molto più fanno questa protesta i giudici del Cristianesimo, che credono nel vero Dio, e sanno, quanto egli vada gridando a gli uomini tutti, e massimamente a chi è assunto all’ufizio di giudicare: justum judicium judicate. Ma aggiungo ora, che non basta il dire: io giudico secondo la mia coscienza, e giudico alla presenza di Dio, che vede il mio cuore, e l’intelletto mio è persuaso, che la ragione stia per costui, e non per quell’altro. Acciocche questa coscienza sia quieta, si esige in primo luogo il considerare, se alcuna delle passioni suddette avesse mai prima dimandata udienza al giudice per confortarlo a divenir parziale dell’una parte, o mal affetto all’altra; s’egli sentisse in sè inclinazione a favorir quel guardinfante, che gli si è presentato davanti con bel soprascritto, e fin colle lagrime a gli occhi, senza che l’incauto giudice abbassi i suoi; o pure quel nobile, o ricco si liberale, o pure abborrimento al disgustarli; s’egli in somma sia superiore a tutti i soffj dell’interesse; ed egualmente disposto a sentenziare per l’uno e per l’altro de’ litiganti; e tutto ciò con sincero esame, e spezialmente allorchè il ricco ha lite col povero, e il potente col debile. S’egli si truova veramente in questo equilibrio, resta allora da eseguire un’altra sua obbligazione, che è quella di usar tutto lo studio e la diligenza necessaria per ben pesar le ragioni delle parti, le leggi, e gli autori allegati, per ricavarne i motivi di sentenziar più in una maniera che in un’altra: del che parlerò in altro luogo. Soddisfatto che sia a questi due obblighi e doveri nella forma che conviene: allora con quieta coscienza potrà il giudice venire alla sentenza. Ma dimando io: fassi ciò da tutti i giudici, e fassi sempre? Mi son io maravigliato forte una volta di un giudice, il quale dopo aver data una sentenza, creduta iniqua da i più, diceva, essere stata tale, e sì dubbiosa quella causa per le ragioni dell’una e dell’altra parte, che il giudice potea dar la vittoria a chi egli voleva. Giudice ignorante, e quel che è peggio, giudice mal cristiano. Quand’anche tale fosse a lui sembrata, doveva egli proporre una concordia, e non già profferire una sentenza. Da quando in qua un giudice è padrone della roba altrui, ed ha facoltà ed arbitrio di donarla a chi gli è più in grado? Era egli tenuto, se pur voleva sentenziare, ad esaminar con più esattezza la materia per iscorgere da qual parte preponderasse la ragione: altrimenti stando in quella indifferenza col favorir l’uno de i litiganti, certo è ch’egli fa torto all’altro. Ma di ciò al cap. seguente. Siccome non è da comportare, che ne’ collegi giudiziali quel giudice, il quale secondo il suo intendimento crede, che Tizio abbia ragione, ed è venuto per dargli il suo voto, al vedere che già i più hanno deciso in favore di Sempronio, concorre anch’esso nella lor sentenza con allegar per iscusa, che già per gli antecedenti voti la causa è finita, nè più gioverebbe a Tizio il tenere per lui. S’egli giura davanti a Dio di sentenziare secondo la sua coscienza, come poi mantien egli la parola giudicando contro ciò, che a lui pareva più giusto? Oltredichè per le revisioni e per altri riguardi, bene è che si sappia, se tutti i congiudici, o solamente parte d’essi, abbiano data quella sentenza; e tanto più se, come talvolta accade, la pluralità de i meno scienzati avesse decisa la causa colla contradizione de i più scienziati.

Nè voglio lasciar di dire, che non sapendo se non difficilmente le teste umane trovare il mezzo, in cui consiste la virtù, la verità, e la giustizia, persuaso che sia taluno del dover essere ben indifferente nel giudicare, allorchè qualche persona potente o amica viene a litigare davanti a lui, potrebbe cotanto paventar de i rimproveri della coscienza, se la desse vinta a quel tale, che si mettesse a cercar solamente ragioni per pronunziar sentenza in favore del di lui avversario. Chi nol vede? sarebbe ancor questo cadere in un altro eccesso. Si avrebbe pur da avvedere costui, che ispogliandosi dell’amicizia dell’uno, egli passa all’amicizia dell’altro. Ne’ tempi delle repubbliche italiane pensando gli antichi nostri savj a gli sconcerti della giustizia, provenienti non rade volte dal non trovarsi i giudici in un giusto equilibrio, e questo senza avvedersene essi (poichè il vendere la giustizia a visiera calata forse è di pochi) introdussero il costume di chiamare per podestà e giudici persone forestiere, affinché non avessero parenti ed amici nel paese, che pervertissero i lor giudizj; nè permettevano loro di andare a i conviti, nè di strignere familiarità con alcuno. Era, ed è da lodare il ripiego, che tuttavia si osserva in alcune città. Ma nè pur questo basta. Converrebbe sequestrare i giudici in un superbo palazzo con delizioso giardino a canto, ma circondato di mura, come le fortezze, senza ch’eglino potessero ricever lettere, nè ambasciate da chicchessia. Le cause portate al lor tribunale dovrebbono essere co i nomi finti, e in una sala dietro ad un velo avrebbono da ascoltar le ragioni e i contrasti de gli avvocati. Se in tal caso fallassero ne i lor giudizi, all’ignoranza, o ad altri difetti sarebbe ciò da attribuire: non certo alla parzialità. Ma questi son vani ed impossibili ripieghi. Oltre di che a ben regolare il retto giudizio di chi amministra la giustizia, può in molti casi influire assaissimo la conoscenza delle persone, delle lor affezioni, parentele, ed altre circostanze di tempo, e di luogo, le quali possono somministrar qualche giusto riflesso e motivo per far preponderare in mano dell’onorato giudice le bilance più dall’una che dall’altra parte. Però solamente resta, che si scelgano al ministero della giudicatura (sieno cittadini, o forestieri, poco per lo più importa) persone timorate di Dio, pratiche delle leggi e del suo mestiere, che sappiano ben raziocinare; e poi pregar Dio, che l’indovinino in giudicare.