Dei difetti della giurisprudenza/Capitolo XIV

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Capitolo XIV

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Capitolo XIII Capitolo XV
Del pernicioso difetto della giurisprudenza per la lunghezza delle liti.


Non ci sarebbe bisogno, ch’io mi mettessi a provare la lunghezza, per non dire l’eternità delle liti, praticata ne’ nostri tempi; perchè non v’ha persona, che metta per poco il piede ne’ tribunali, o che per sua disavventura sia stato costretto ad intentare, o a sofferire una lite, che non sappia, se si sbrighino presto o tardi si fatti combattimenti. E questo è male non di un paese d’Italia, ma di tutti; né de’ soli nostri tempi, ma anche de gli antichissimi, e molto più de gli ultimi passati secoli. Da che insorsero nel secolo XII le leggi romane, e cominciò il gran sapere legale ad agitar cause civili, si cominciò ancora ad inventar tutte le maniere possibili per tirarle in lungo. Sarà stato per mettere ben in chiaro la giustizia, per dilucidar tutti i dubbj, onde non resti luogo di fallare a i giudici. Volesse Dio, che almen questo si ottenesse. Quel che di certo si ottiene, è che quanto più vanno in lungo le cause, tanto maggior provento viene a gli avvocati, proccuratori, sollicitatori, e notai. Ed è fuor di dubbio, che quanto più di atti giudiciali si fa, tanto più crescono le spese de’ miseri litiganti. Che del resto, a riserva de i fatti, che possono ricevere maggior lume dall’esattezza in esaminar carte e testimoni, le cause, che vertano in disputa di un punto di ragione, o in materia conghietturale, se oscure erano sul principio, seguitano ad essere tali anche dopo anni e anni di dibattimento nel Foro, finché un giudice l’intenda più in un modo, che in un altro, e sfibbii una sentenza in danno dell’una delle parti, consolazione dell’altra.

Ora non si può dire, quante invenzioni, remore, e sutterfugi abbia trovato, e metta tutto dì in pratica quella scienza, che è destinata per ministrare, o far ministrar la giustizia, affinchè questa o non si faccia mai, o si faccia il più tardi che si può. Questa è una delle importanti lezioni, a cui s’applicano i candidati del Foro; questo l’esercizio familiare di chi fa il riguardevol mestiere di patrocinare attori o rei. Le loro prassi giudiciarie osservatele bene nello specchio di Durando, ne’ libri di Carlo Pellegrino, del Ridolfino, del Corradi, del Maranta, e d’altri, vi troverete una selva di intricatorj e di eccezioni dilatorie e declinatorie per tirare in lungo, e se potessero per perpetuare le liti. Allorchè avrà taluno dato principio a gli atti giudiciali in un tribunale, ed avrà continuato il corso di varie citaziopi ed istanze, senza che l’avversario risponda: voi crederete, che questi si dia per vinto, nè vi manchi altro che la sentenza del giudice. Ma eccoti scappar fuori lo stesso avversario coll’eccezione dell’incompetenza del giudice, e lo sfortunato attore, che avea fallato via, verrà costretto a tornar da capo per un’altra. Andava verso levante, gli converrà voltarsi a ponente. Anzi può questo privilegiato rispondere a varie istanze, e poi prima del conclusum in causa con isfoderare il suo privilegio burlarsi di tutte quelle, e di tutti quegli atti colla declinatoria del Foro. Si può egli udire di peggio? Quasichè costui col consentire nel giudice, che l’ha citato, o almeno col non ripugnare, benchè citato: non abbia tacitamente rinunziato al suo privilegio, e non v’abbia da essere pena a chi in tal guisa si fa beffe della giustizia e de’ suoi ministri. V’ha qualche paese, in cui si danno varj tribunali, da’ quali dipendono alcune gerarchie di persone. S’è tal volta veduto, che un reo civile dopo essere giunto alle strette in un tribunale, se n’è sottratto coll’allegar la sua dipendenza da un altro. E da che anche in quest’altro s’è trovato sull’orlo di dover pagare, coll’addurre la patente d’altro tribunale, è scappato di sotto. E queste iniquità si permettono, nè mai pensano i saggi principi a mettere rimedio a queste ferite e discrediti dell’umana giustizia. Che nell’ingresso della lite si apponga l’incompetenza del Foro, o del giudice, può camminar con tutti i piedi; ma dopo aver consentito nei giudice, ed avere esperimentate le sue ragioni, il sottrarsene con sì fatte scappatoie non potrà mai chiamarsi un giusto privilegio; ma bensì un vero pravilegio.

Andiamo nondimeno avanti, perchè nè il Foro, nè il giudice si può in fine sfuggire. In sì disgustoso aringo non s’ha da perdere d’animo il citato. Se gli troveran vie da prolongar la battaglia. E primieramente dovrà fare istanza, che sia legitimata la persona dell’attore; ch’egli pruovi prima concludentemente d’essere figliuolo, erede, cessionario, donatario ecc. che non sia ascoltato il di lui proccuratore senza mandato speciale, e se vi sarà uncino alcuno da attaccarsi, potrà impugnarsi lo stesso mandato; e quand’anche il giudice lo decreti sufficiente, per parere di Bartolo, e dell’Hondedeo si potrà appellare da un tal decreto. E queste son le belle dottrine de’ barbassori di questa tanto stimata professione. Si sogliono ancora dal reo apporre altre eccezioni dilatorie, come di dar fideiussione de stando Turi, de judicio sisti, de judicatum solvendo: eccezioni giuste in alcuni casi, in altri ingiuste, e tutte sempre efficaci per prolongare il molesto combattimento. Prima eziandio di contestar la lite si può muover guerra al libello con impugnare gli equivoci e l’oscurità del medesima, di modo che sia obbligato l’attore a mutare o spiegare, o il giudice a profferirvi sopra un decreto. Ed occorrendo si fa valere l’istanza pel giuramento di calunnia. Contestata poi la lite, lungo sarebbe il voler registrare, quante istanze, e risposte, quanti termini si concedano, anzi sieno creduti necessarj. E qualora eziandio si sia ottenuto dal principe, che la causa venga sbrigata sommariamente, senza figura di giudizio, ed osservata solamente la verità del fatto: tuttavia si esigono molti di questi termini giudiciali, e molte dilatorie, perchè i giudici ordinarj de’ nostri tempi, inteso e chiarito un fatto, o letta una scrittura, non attribuiscono a sè tanta penetrazion di mente da saper decidere su due piedi una contesa: il che pure san fare tanti altri giudici minori nelle cause occorrenti fra la plebe. Cosa curiosa ancora si è, che quand’anche si accordassero i litiganti a volere, che sommariamente, e senza il rituale delle lunghezze predette, si giudicasse la lor causa, tuttavia insegnano i nostri dottori, non essere ciò da permettersi: perchè siccome il malato non morrebbe bene senza le formalità della Medicina, così non potrebbe esser buona e valida quella sentenza, a cui mancassero le formalità legali.

Non sia vero, ch’io ami si poco i lettori da volerli meco introdurre per diporto nell’ampio e spinoso laberinto delle cause giudiciali, e ne’ grossi processi, che a cagion d’esse si formano. Preghino essi più tosto Dio di non aver mai da imparare a loro spese, che paese sia questo. Si spaventerebbono essi troppo, o almeno infinitamente si annojerebbono, se volessi far loro vedere per minuto il corso, corso nondimeno di testuggine, con cui si guidano le liti forensi. E massimamente dovee s’intralciano esami, pubblicazioni, e ripulse di testimoni, colle repulse delle repulse, remissoriali, restituzioni in integrum, rivocazion d’attentati, compulsorie, e simili. Aggiungasi la smisurata abbondanza delle ferie, e de’ giorni feriali, ne’ quali suol tacere il Foro. Terminato anche il processo, non accennerò, quanti altri scampi restino per continuar la battaglia, ed impedire che non si pronunzii la sentenza. Pronunziata poi questa, se non è di giudice, o tribunal supremo, non suol già essere finita la guerra. Eccoti l’appellazione; e dopo la sentenza profferita, ma il più tardi che si può, in quest’altro tribunale, succede un’altra appellazione ad altro tribunale. O pure in alcuna delle Ruote principali da tre ordini di giudici diversi sogliano emanar tre sentenze. Nè vi credeste con gran fretta, perchè già è deciso, che col piè del piombo s’ha da procedere sempre nel ministrar la giustizia, per accertare il punto della ragione. Spesso nondimeno avviene, che fra le due, o le tre sentenze, una sia con voto contrario all’altre, o alla precedente. Forse la medesima varietà di sentimenti si proverebbe, se la stessa causa fosse di piano in mano portata ad altri innumerabili giudici e tribunali.

La conclusione di tutto questo si è, che la soverchia e sterminata lunghezza delle liti per tante sottigliezze, giri, e rigiri, inventati dall’acutezza de’ causidici, è divenuta un male familiare dell’Italia, e di tant’altri paesi cristiani, e male di sommo incomodo e danno a chiunque per sua disavventura dee fare o sostener delle liti. Quand’anche si tratti di un credito liquido ed incontrastabile, a cui non v’ha giusta opposizione alcuna, e che dovrebbe sbrigarsi alla prima comparsa del debitore: se questi ricorrerà ad un proccuratore onorato, gli saprà questi colle sole eccezioni generali, e molto più col resto delle cavillazioni, che non mancano a chi ne vuole, guadagnar più mesi di respiro a soddisfare. Anzi alcuni statuti talmente assistono al debitore, che quasi li direi composti da’ dottori, bisognosi anch’essi di pagare il più tardi che potessero i debiti proprj. E con tante istanze, e risposte, pruove, ripruove, e decreti, si fattamente s’ingrossano i processi, scritti con tre parole per riga, che la spesa d’essi, aggiunta alle sportole, al salario de gli avvocati, de’ proccuratori, de’ sollicitatori, de’ messi pubblici ecc. fa piagnere chi ha vinto, non chi ne esce perditore. Raccontasi a questo proposito un apologo. Nel tempo che le bestie parlavano, e viveano divise in varie repubbliche, fecero lega due gatti con promessa di partire ugualmente fra loro tutto quel che andassero rubando. Avendo un dì cadaun d’essi rubato un pezzo di formaggio, nacque discordia fra loro, pretendendo ciascun d’essi, che il pezzo suo fosse minore dell’altro, ed esigendo il supplemento. Furono vicini a decidere la controversia coll’unghie; ma il più assennato ottenne, che si rimettesse l’affare al giudice. Giudice pubblico si trovò allora uno scimione, che avrebbe insegnata la giurisprudenza a Bartolo. Costui, udito il litigio, immediatamente fece portar le bilance, e si trovò, che l’uno de’ pezzi del formaggio pesava due once di più dell’altro. Allora il valente giudice per uguagliar le partite si attaccò a i denti il pezzo soprabbondante, e saporitamente sel masticò. Ma per disavventura tanto ne portò via, che rimessi i pezzi sulle bilance, il primo eccedente si trovò mancante d’un’oncia rispetto all’altro. E qui il buon giudice, preso l’altro pezzo, parimente l’afferrò co’ denti, e ne portò via quanto gli piacque, e sel mangiò. Veduto si bel giuoco, si guatarono l’un l’altro i litiganti; e l’un d’essi rivolto al giudice: messere, gli disse, se tali son le bilance della giustizia, tutti e due noi avremo in fine la sentenza contro. M’è sovvenuto adesso un modo più sicuro d’accordarci insieme. E presi con bella grazia i pezzi rimasti se n’andarono amendue a mangiarseli in santa pace. Oltre poi alle spese occorrenti per la curia, avvocati, proccuratori ecc, d’ordinario ancora fa d’uopo, che i clienti v’impieghino passi e fatiche. Guai se chi v’ha interesse, non si muove, non sollecita, non si raccomanda, e fa premure. Ma con tutta la spesa, e con tanti movimenti, pure le cause vanno in lungo; e passano mesi, e passano anni, senza che se ne vegga il fine: tante son le filaterie legali, le ferie, le vacanze. Truovansi liti, e forse in ogni paese, cominciate più anni sono, forse sei, forse dieci, forse venti, delle quali tuttavia si aspetta l’ultima decisiva sentenza. E peggio poi, se da una città di provincia debbono queste passare a i tribunali supremi della capitale, lontanissima talvolta, e dove si comperano a più caro prezzo i difensori delle pretensioni o ragioni altrui. In somma la giustizia del mondo, anche mirata solamente da questa parte, cioè dalla lunghezza delle liti, se non comparirà un’ingiustizia, almeno sarà da dire una gran gabella di chi è forzato a chiamarla in aiuto.

Ora questo malanno, che non è lieve nell’umano commerzio, si vede, si pruova, e benchè se ne conosca l’eccesso, e massimamente se ne lagni chiunque v’incappa: pure si tollera. Quel che è più, nè pure alcuno de’ Principi, benchè amanti del pubblico bene, pensa a mettervi riparo. Qui nondimeno potrebbe facilmente saltar su qualche curiale, protettore della magnifica professione sua, e mettersi a provare, che non solamente è utile, ma anche necessario l’ordine giudiciale, che si pratica oggidì, si per mettere in chiaro i fatti, intorno a’ quali s’ha da giudicare, sì per poter dedurre le ragioni delle parti, esaminarle, liberarle da gli equivoci, inganni e sofisticherie. Gli sarebbe fors’anche facile lo stendersi col ragionamento intorno all’opportunità di quegli atti per ben istruire il giudice, ond’egli fondatamente possa devenire alla sentenza, e questa, per quanto si può mai, conforme all’equità e giustizia. Ma sempre si replicherà, che più facile sarebbe il dimostrare l’inutilità, e niuna necessità di molti usi del Foro; e che senza pregiudizio alcuno si potrebbono abbreviare i processi, e le liti; e potendosi, si dovrebbe farlo; e si sarebbe già fatto in tutti i paesi, se i causidici tutto quel lucro potessero sperar e ricavare da una causa, speditamente finita, che dalla medesima tirata in lungo per anni parecchi. Come passasse al tempo della Romana Repubblica, cioè se si sbrigassero, o si prolongassero di molto le liti, forse non si potrà ben chiarire. Ma essendo allora poche le leggi, poche le azioni ed eccezioni, e i testamenti più semplici, e senza fideicommissi, e giudicando il pretore, e i varj giudici senza gli eterni e spaventosi processi d’oggidì: è da credere, che corte riuscissero le loro liti. Ma da che crebbero tanto le leggi, e le sottigliezze e cavillazioni de’ legisti, cominciarono ancora a farsi quasi eterne le liti; e che così fosse a’ tempi di Giustiniano, lo vedremo fra poco. Noi appelliamo barbari i longobardi e i franchi, e v’ha taluno, che scioccafnente ha appellate asinine le loro leggi, quantunque leggi quasi tutte lodevoli e buone. Ma certo nella lor semplicità erano essi esenti da quel malanno dannosissimo, di cui ora parliamo. In uno, o due, o tre placiti ordinariamente si soleano produr le scritture, e i testimoni occorrenti, e dir le ragioni delle parti, e si veniva tosto alla sentenza. I conti, cioè i governatori delle città, o i messi imperiali, delegati dal principe, ascoltavano le dimande o querele, e col parere de’ giudici ordinarj assistenti a i giudizj, decidevano in breve le controversie. Che se il reo citato non compariva, e l’attore provava il suo diritto, si metteva questi senza tante girandole in possesso del fondo preteso, con salvar le ragioni allo spossessato. Di questo passo camminò la giustizia nell’Italia fino all’anno 1100, dopo il qual tempo, risorte le leggi romane, e aguzzando l’ingegno chi le professava, venne a poco a poco a rientrar nel Foro la sofisticheria, e la bell’arte dell’offendere e schermir giudiciario, che tanto fa durare i combattimenti coll’esterminio delle famiglie. Dico coll’esterminio, e parlo co’ sentimenti della Ruota Romana, Decis. Recent. 461, n. 6, par. 1 dove è scritto delle liti, « quas interest reipublicæ quanto citius finiri. Etenim non solum consumuntur familiæ in expensis et jurgiis, verum etiam homines in illis distenti publicis muneribus vacare, et aliorum hominum commodo deservire prohibentur ». E però la medesima Ruota nella Decis. Recent. 147, n. 5, par. XV, così grida: « Liceat exclamare malas lites, pejoresque beneficiales, hoc magis malignas, et maleficas, ac pestilentes, quæ litigantibus, nisi commorientibus communi clade, non commoriuntur, nec pugna finem, cum jacet hostis, habet ». E nella Decis. 325, n. 11, par. 14, e nella Decis. 479, n. 19, par. 19, t. 2, abbiamo, che «litibus vexantur animi, et facultates dilabuntur; præsertim in urbe, ubi non sine magno dispendio lites agitantur ».

Al veder dunque il disordine, e i gravi danni, che provengono alla Repubblica, non dirò già dalle liti, perchè ad esse non v’ha rimedio, ma alla prolissità delle medesime, tutti, credo io, a riserva de’ curiali, grideranno: come mai si conosce, si pruova, e tuttavia si tollera una tal cancrena? Come non s’accingono saggi Principi col consiglio di persone, dotte insieme e disinteressate, a curar questa pubblica malattia; con fare, che giacchè non si possono schivar le liti, queste almeno si decidano in tempo breve e discreto? Ma per buona fortuna v’ha pensato, tanti secoli sono, lo stesso augusto legislator Giustiniano, le cui parole son queste nella l. properandum ff. judiciis: « Properandum nobis visum est, ne lites fiant pæne perennes, et vitæ hominum modum excedant, cum criminales quidem caussas jam nostra lex biennio concluserit; et quum pecuniariæ caussæ frequentiores sint, et sæpe ipsæ materiam criminibus creare noscantur: præsentem legem super his per orbem terrarum nullis locorum vel temporum angustiis coarctandam, ponere censemus. Itaque decernimus, omnes lites super pecuniis quantæcumque quantitatis, sive super conditionibus, sive super jure civitatum, sive privatorum fuerint illatæ, sive super possessione, vel dominio, vel hypoteca, vel pro aliis quibusdam caussis, pro quibus hominibus inter se litigandum est, non ultra triennii metas post litis contestationem esse protrahendas ». Talmente comanda Giustiniano, che ogni causa civile fra i particolari sia decisa entro il termine di tre anni (tempo per altro molto esorbitante) che quand’anche le parti volessero prolungarle più oltre, il giudice non dee ascoltarle, ma ha da profferir la sentenza. Anche Innocenzo III Sommo Pontefice nel c. Finem. de dolo et contumacia, mostrò il suo desiderio, che si abbreviassero le liti. « Finem (dice egli) litibus cupientes imponi, ne partes ultra modum graventur laboribus et expensis », prescrive qualche regola per coloro, che maliziosamente esigono dilazioni per dedurre eccezioni, che di presente dicono di non poter provare. Clemente V anch’egli desiderò di rimediarvi in molte cause ecclesiastiche con dire nella Clement. dispendiosam de judiciis: «Dispendiosam prorogationem litium (quam interdum ex subtili ordinis judiciarii observatione caussarum, docet experientia provenire) restringere in subscriptis casibus cupientes: Statuimus, ut in caussis super electionibus etc. procedi valeat de cetero simpliciter, et de plano, ac sine strepitu judicii et figura ». Così Imperadori e Papi. Nè v’ha forse statuto alcuno delle città d’Italia, in cui non sia provveduto per la moderazion delle liti, anzi maggiormente ristretto quel tempo, che abbiano a durare, essendo sembrato anche troppo smoderato ed eccessivo a molti il tempo di tre anni prescritto, siccome abbiam veduto, da Giustiniano. Fra gli altri lo Statuto di Modena nel Lib. II, Rub. XV, de in jus vocatis, ordina, che, nel termine di cinquantacinque giorni utili, da che è contestata la lite, debbano essere dedotte le pruove, opposte le eccezioni, prodotti i testimonj, e terminato il processo; e poscia sei mesi continui per poter presentare al giudice tutte le scritture e il processo. Il che fatto, il giudice nel termine di venti giorni utili debba senz’altro profferir la sentenza. Provvide ancora esso Statuto, Lib. II, Rub. 16, al traffico, che si fa nel Foro delle eccezioni dilatorie, perentorie e miste, per prolongar la battaglia: e ciò, dicono que’ saggi statuenti, perchè « nobis curæ est lites, quæ immortales jam fere factæ sunt, diminuere, ac laboribus et dispendiis (quoad fieri potest) litigantes levare ». Più stretto di tempo è anche lo Statuto di Bologna, più ancora quel di Milano; e lo stesso si può osservare in altri simili Statuti.

Ma a che servono questi saggi e ben pensati regolamenti de’ nostri maggiori? Se ne ridono i giudici e causidici de’ nostri tempi. Le cause han da avere quelle gambe e que’ passi, che essi vogliono, e non già quelli, che son determinati dal Gius comune e statutario, ridendosi i moderni giuristi spezialmente di quella buona gente, che formando gli Statuti pretese, che in tutte le cause civili si avesse da procedere s summarie, et de plano, sine strepitu et figura judicii, omnibus rejectis cavillationibus, et sola facti veritate inspecta », come ha lo Statuto di Bologna, Lib. II, Rub. De vocatis in jure. Oggidì forse non v’ha città, in cui non s’incontrino liti strascinate per anni e anni, ed anche trasmesse a gli eredi. Che se taluno ricorre supplichevole a i giudici per la spedizione, a fin di levarsi di dosso le spese, e il batticuore dell’ansietà, o del timore: la risposta è in pronto: che tocca a i proccuratori lo sbrigar le cause, e senza prendersi pensiero alcuno, e senza voler provvedere, caso che amendue i proccuratori, o almeno l’un d’essi, vadano più che tutt’altro studiando di non finirle giammai, o di terminarle il più tardi che sia in lor mano. Ora egli è certo, che non v’ha paese, in cui non sia comune il lamento per la dispendiosa lunghezza delle liti, ed in alcuni giugne questo micidiale oppio ad uno stomachevol eccesso. Ma se è così, ragion vuole, che se ne desideri, e se ne promuova efficacemente da i principi, e dalle Repubbliche il rimedio, se non con altro, almen coll’osservanza de gli Statuti, e colla facilità ancora a concedere la deroga delle ferie. Meglio nondimeno sarebbe il ricercare, se anche gli Statuti fossero in questa materia troppo indulgenti col non fare distinzione fra causa e causa. Che una d’essa dipendente da esami di molti testimonj, da remissoriali, e da altri accidenti, per cagion de’ quali non si possa speditamente formare il processo, e stabilire il fatto: si esigerà più tempo, che in altre cause. Ma qualora tutta la disputa provenga dall’intelligenza di un solo testamento, di un solo strumento: perché mai tante dilazioni e filaterie? E se la battaglia si riduce ad un punto legale: come differir cotanto la sentenza? Certo è, che la maggior parte delle cause si potrebbe spedire sommariamente, e senza figura di giudizio; e questa maniera sbrigata di giudicare vien lodata ed approvata come giusta dai savj, e da i legislatori stessi: laonde non si sa intendere, perché posposta questa via breve, si ricorra all’altra si lunga ed eterna con tanto danno di chi è costretto a passar per quella traffila. Io potrei qui riferir le doglianze di varj scrittori intorno a questa peste nociva di troppo alle Repubbliche, e i lor desiderj di vedervi posto riparo dai principi di bel genio e di mente sublime; ma mi contenterò di rapportar le parole del solo Conringio, scrittore di gran nome fra i tedeschi. Nell’esercitazione VI, de judiciis Reipubl. Germ. toccando anch’egli con mano non men vigoroso e pernicioso nella Germania, che in Italia, questo disordine, così parla: « Omnino danda est etiam atque etiam opera, ut litium hæc multitudo et diuturnitas, quæ haud multo minus perdit Germaniam atque vis militaris, emendetur. Quod ipsum fortasse poterit fieri, si in temere litigantes omnes, et seorsim in litium patronos, gravissimis pœnis animadvertatur. Si judicibus nihil ex partium sportulis aut muneribus sit expectandum; sed cogantur illi publicis stipendiis esse contenti. Si processus judiciarus ad priscam simplicitatem, qua tot sæculis floruit Germania, quæque in omnium veterum Rerumpublicarum optimarum Foris, in suis Hebræorum ab ipso Deo fuit probata, si non omni ex parte, saltem potiore, reducatur. Si postremo quæcumque in controversiam trahi solent, singulis in locis, legibus plebi etiam, quoad fieri potest, perspicuis desiniantur. Certe quamdiu omnia hæc in Germania sunt observata, litibus nusquam laboratum fuit ».

Quel che è strano, quanto più la giurisprudenza si credeva più in fiore, perchè provveduta di abbondantissime leggi, e di consulti d’insigni legisti, e però sembrava, che più facilmente, e con piede più sicuro si avessero a sbrigar le cause: allora maggiormente si difficultò la spedizion delle cause, perche quelle medesime tante leggi servivano ad imbrogliar le menti de’ giudici, a trovar de gli uncini, e a prolungar le decisioni collo spezioso pretesto di ben depurare la verità, e mettere in chiaro il giusto. Così accadeva, dappoichè que’ gran lumi della giurisprudenza, Papiniano, Paolo, Ulpiano, Modestino, Scevola ecc. ebbero arricchito il foro de’ loro celebri scritti. Così tornò a farsi, allorchè a’ tempi d’Irnerio nelle scuole di Bologna risuscitò per così dire la giurisprudenza giustinianea, e cominciarono a risonar dapertutto digesti e codici. Però San Bernardo, che fiorì ne’ principj di questo felice risorgimento delle leggi, se ne lagnava in iscrivendo a Papa Eugenio III, lib. 1, cap. 10, de Consider.: «Agitentur causæ, sed sicut oportet. Miror namque, quemadmodum religiosæ aures tuæ audire sustinent hujusmodi disputationes advocatorum, et pugnas verborum, quæ magis ad subversionem, quam ad inventionem proficiunt veritatis ». E perciocchè tendeva appunto l’eloquenza di que’ dottori ad imbrogliar le vie del giudicare, e a differir le sentenze, soggiugne: « Illas, quas ad te necesse erit intrare causas, diligenter velim, sed breviter decidere assuescas, frustratoriasque et venatorias præcidere dilationes ». Il perchè fino i padri del sacrosanto Concilio di Trento osservando questo universale e si detestabil abuso, giudicarono degno del loro zelo di formar questo decreto sess. 25, cap. 10, de Reform.: « Admonet Sancta Synodus tam ordinarios, quam alios quoscumque judices, ut terminandis causis, quanta fieri poterit, brevitate studeant, ac litigatorum artibus, seu in litis contestatione, seu alia parte judicii differenda, modis omnibus, aut termini præfixione, aut competenti alia ratione occurrant ».

Abbiam parlato poco fa delle leggi longobardiche. Allorchè qualche erudito legista (e questi sono ben pochi in Italia) si avviene in esse, aggiunte a i testi civili di qualche edizione, forma un atto di compassione per que’ secoli barbari, ne’ quali i tribunali italici secondo quelle amministravano la giustizia. A proporzione di que’ barbarici editti, dirà taluno, doveano camminar anche i giudizj; però oh quanto si figurano sciagurati que’ tempi, frequenti le ingiustizie, nate non da malizia, ma dall’ignoranza di quelle scientifiche leggi, che l’antica romana sapienza fornì al mondo per cogliere di punto in bianco il giusto e il dovere in tutte le controversie de’ miseri mortali. Non sia vero, ch’io osi mettere in confronto delle romane leggi le longobardiche. Tornerò bensì a dire, che con quelle poche leggi, giuste, e ben formate, colle quali si regolava chi in Italia era di nazion longobarda, o professava quella legge, nè più nè meno in poco tempo si mettea fine alle gare e liti, e con pari giustizia che oggidì. E ciò perchè in que’ secoli se non v’erano i gran dottori de’ nostri tempi, non mancavano però persone di buon giudizio, e di buon lume naturale provvedute al pari d’oggidì, ed atte a conoscere chi ha ragione o torto in quelle controversie, dove si può conoscere; poichè nelle scabrose tanto ne sapeva (cioè poco ne scopriva) la buona gente d’allora, quanto ne fanno gli strepitosi curiali d’oggidì. Un contadino falegname naturalmente giudizioso meglio farà un armadio con pochi strumenti del suo mestiere, che un altro di città guernito di molti arnesi, ma non egualmente di giudizio. Quei secoli, che noi appelliamo barbari, e crediamo cotanto ignoranti, almeno un vantaggio di più aveano sopra di noi: cioè che speditamente, e senza tanti arcigogoli, e stiracchiature di mesi e anni, sbrigavano le lor liti, nè divoravano a poco a poco i litiganti, come cominciò a praticarsi, da che nel vasto arsenale delle leggi di Giustiniano si profondarono i nostri dottori, perchè questo somministrò munizioni senza fine a i giratori della giustizia per tirare in lungo le battaglie, e rendere per quanto si può eterne le liti. Oh saranno state pur le belle sentenze (dirà qui sorridendo taluno) in que’ secoli d’ignoranza e barbarie. Ma si risponde, che saranno state non inferiori a quelle de’ nostri tempi tanto illuminati, perchè anch’oggi chi l’intende in una maniera, e chi in un’altra. Dio te la mandi buona, diciamo anche oggidì a chi vuole o dee litigar nel Foro. Nè in que’ secoli barbari mancavano teste diritte, e il natural giudizio per giudicar bene secondo le poche leggi d’allora; e si camminava allora con semplicità, cioè senza tante sottigliezze e sofisticherie, con raggiugnere più facilmente per tal via il vero e il giusto. E quel che è più, torno a dire che si levavano almen presto di stenti i litiganti: grazia che di rado si può sperare a i di nostri. Quanto poi al chiamare più felici i secoli nostri de gli antichi per l’abbondanza d’avvocati e proccuratori di tanta acutezza e sapere, sarebbe questo un problema da discutere in qualche accademia, con ponderare nello stesso tempo, perchè mai l’arcivescovo S. Antonino si lasciasse scappar dalla penna nella P. III della Summa quelle parole: « Sine causidicis satis felices fuerunt, futuræque sunt urbes ».

Tornando ora al proposito, non ho io difficultà a credere, che sia difficile il prescrivere un metodo sicuro, e adattabile ad ogni caso per abbreviar le liti; perciocchè quelle, che dipendono da’ fatti, ne’ quali occorra produrre ed esaminar testimonj, deputar’estimatori, dare ed impugnar posizioni, e massimamente se si tratta di absenti, o di varj, o lontani luoghi, su’ quali cada la controversia; e così in altri simili casi, non si può assegnare un termine preciso, che soddisfaccia al bisogno di tutti; nè è di dovere, che pel troppo affrettarsi si strozzi o si opprima la giustizia. Contuttociò il saggio principe col consiglio de’ più assennati e zelanti ministri non dee restare per questo di stabilire ciò che sia creduto più proprio in questo affare, lasciando il men possibile cotal cura in balia de’ giudici; perchè se tal provvisione si rimettesse alla sola prudenza de’ giudici, dieci userebbono in bene di questa autorità, ma se ne abuserebbono venti o trenta altri. Io non ho un’opera di Ermanno Hoffmanno intitolata Commentaria in Octavianum Pisanum de litibus abbreviandis. Anche Giurga Valentino Winther pubblicò in Argentina nell’anno 1613 un trattato de mediis abbreviandarum litium tam generalibus, quam specialibus. Bene sarebbe il consultar le loro opere. Oltre a ciò intorno alla pronta spedizion delle cause molti bei regolamenti ha lasciato il gran genio di Vittorio Amedeo Re di Sardegna; ma perchè a chi è avvezzo alle eterne filaterie del Foro parve, che si dessero de’ casi, ne’ quali troppo si trovasse ristretto il corso della giustizia, s’avrebbe da osservare, se sieno sussistenti le loro querele; perciocchè se si comincia a permettere delle eccezioni alla regola, in breve la regola resterà affogata dalle eccezioni. Anche il celebre Antonio Fabro nel lib. IX, tit. 23, del suo Codice Fabriano deplorò l’esorbitante lunghezza delle liti, male comune di tutti i paesi, male nondimeno, al cui rimedio ogni principe amante de’ suoi sudditi ha da applicarsi. Lo stesso Fabro dipoi suggerisce ciò che a giudizio suo potrebbe praticarsi, confessando nello stesso tempo, che non dovrebbe esserci lite, quantunque scabrosa, che non si terminasse in tre o quattro mesi al più, o se si volesse anche in sei mesi. Vorrebbe egli sopra tutto, che fosse vietato ad ogni persona privata il muovere lite, se prima non avrà interpellato l’avversario per rimettere la causa in arbitri eletti; e chi di loro ricuserà di compromettersi, venendo poi a i giudici, o vinto, o vincitore, sarà condennato nelle spese. Il resto de’ suoi avvertimenti potrà il lettore cercarlo nel libro suddetto. Ma intanto si vuol ben ricordare, che da’ tribunali si dovrebbono bandire certe eccezioni generali, inventate dalla malizia dottorale solo per prolungar le liti, come di difetto di ragione, mancamento d’azione, tua non interest, petis quod intus habes, impertinenza, irrilevanza, nullità, in somma tutto ciò, che serve solamente a guadagnar tempo senza valida ragione. Similmente non s’ha da fermare il giudice per qualche nullità occorrente nella tela giudiciaria, quando non v’intervenga frode o lesione. E sopra tutto non sarà compatibile il tirar tanto in lungo la giustizia, allorchè un solo testamento costituisce tutta la lite. Certamente (nol posso ripetere abbastanza) può una lite di contratti esigere talvolta gran tempo, e un lungo processo; ma quando si tratta d’interpretar la sola mente e volontà d’un uomo, chiusa in un testamento: allora con poche pagine si può formare il processo, e resta solo a i giudici di esaminar quella carta, e di profferir la sentenza. Però dato un termine discreto alle parti o per gli contradittorj, o per formare e comunicar le allegazioni, o per informare: hanno i giudici senza altra dimora da decidere. Dicono, che lo stile della celebre Ruota Romana è di schivare i raggiri, e le varie scappatoie e cabbale de gli avvocati e proccuratori; e ch’essa abbandonando la formalità del giudizio, subito che costa del buon diritto, viene alla decisione. Se questo è vero, mi rallegro io con que’ sacri venerati senatori per così lodevol costume.