Dei difetti della giurisprudenza/Capitolo XVIII

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Capitolo XVIII

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Se sia da preferire il metodo de’ Greci e Latini nell’agitar le cause civili e criminali, o pure quel de’ moderni.


A chiunque ha qualche tintura d’erudizione è assai noto, che presso gli antichi Greci e Latini, allorchè si trattavano cause civili e criminali, solevano gli avvocati d’ambedue le parti litiganti esporre davanti a i giudici le ragioni favorevoli a’ loro clienti. Però per addestrarsi a questo esercizio, conveniva che i giovani si applicassero allo studio delle leggi, che allora erano poche, ma incomparabilmente più allo studio dell’eloquenza. Quindi poi nacque l’uso delle declamazioni, cioè di finti o veri argomenti, sopra i quali nelle scuole pro e contra si parlava colla maggior facondia possibile. Nè già era questo un mestiere de’ soli giovani. Anche i veterani oratori con declamare nelle lor case, o nelle raunanze de gli amici, tenevano in esercizio il loro ingegno, ed in queste finte battaglie maggiori forze si procacciavano per quando poi si doveano presentare alle vere. Nè occorre ch’io qui rammenti ciò, che lo stesso principe de gli oratori latini Cicerone, e Giulio Cesare, e Seneca il rettorico, e Quintiliano (se pur sue sono le declamazioni, che restano) ed altri operarono una volta in questo particolare. Abbiamo alcune nobilissime loro orazioni, abbiamo anche suasorie, declamazioni, proginnasmi, tutti saggi di questi privati combattimenti, ne’ quali ammiriamo la destrezza, l’acutezza, e l’ornato di que’ felici ingegni. Ma è ben mutata la faccia del Foro d’oggidì. In esso noi più non troviamo l’antica eloquenza. La sola giurisprudenza vi parla, essa sola vi disputa. Tutto passa in contradittorj, o in allegazioni e consultazioni, nelle quali rara cosa è, che comparisca pulizia alcuna di parlar latino o volgare, ma sì bene per lo più si fa vedere una smoderata barbarie di stile scolastico e secco, che niun diletto, molto anzi di tedio, massimamente per quelle farragini di citazioni, può recare a chiunque legge. Che s’ha ora da dire di due sì differenti maniere di trattar le liti?

Si ha in primo luogo da avvertire, che all’udir noi tante lodi e tanti insegnamenti dell’antica arte oratoria, e al vedere le orazioni fino a noi pervenute di que’ valentuomini, non si ha già tosto da immaginare, che per ogni controversia portata a i tribunali, uscissero allora in campo a duellare due avversarj legisti insieme ed oratori, con orazioni studiate e limate. Anche allora si usavano i contradittorj, come si costuma oggidì; e questa era l’ordinaria pratica del Foro, in cui con esposizione estemporanea, e come si suol dire, a braccio, gli avvocati deducevano le ragioni de’ lor clienti, le fortificavano con leggi, conietture, strumenti, testimonj. Gran vantaggio avea, chi più chiaramente, ordinatamente, sottilmente sapea esporre e sminuzzar quelle ragioni; ma senza l’obbligo o costume di formar per questo un’orazione, per impararla a memoria, e recitarla maestosamente davanti a i giudici. Allora spezialmente v’era bisogno di sì fatte studiate concioni nelle repubbliche della Grecia, che quasi tutte erano popolari, o vi avea la sua parte il popolo; e l’ebbe esso per gran tempo anche nella romana. Non solo conveniva parlare al senato, al pretore, a i decemviri, o centumviri, ma anche alla plebe; e spesso d’affari pubblici. Mutaronsi le forme del governo, e cessò per questo la necessità e il costume di così ben digerite orazioni, delle quali restano molte di Cicerone, e più de i greci oratori: dove si tratta d’interessi riguardanti la Repubblica. Vero è, che talvolta ancora si formavano e recitavano orazioni per cause private criminali o civili; ma queste furono rare, e si riserbavano per controversie di grande importanza. S’usa questo anche oggidì in qualche paese, ed abbiam le aringhe di alcuni eccellenti avvocati lavorate con gli ornamenti, e colla forza dell’eloquenza. Son io ben persuaso, che anche ne’ contradittorj estemporanei avesse luogo la facondia de gli avvocati, avvezzandosi eglino per questo a discorrere all’improvviso con energia e artifizio di figure, e con acutezza e leggiadria sopra gli argomenti proposti: dal che son d’ordinario ben lontani i nostri meri legisti, ne’ quali niuna tintura d’eloquenza si osserva.

Certamente (io lo confesso) abbiam giusto motivo di lodare ed ammirare quei nobili parti dell’eloquenza greca e latina, considerando in essi l’ingegno e l’industria incomparabile di que’ grand’uomini. Siami nondimeno lecito di dire, che ne’ tribunali de’ nostri tempi non solo non è necessaria, ma nè pure è da desiderare una sì sfoggiata eloquenza, come fu quella de gli antichi. Imperocchè non contenti quegli oratori di rendere benevoli, per quanto poteano, alla lor causa i giudici, e di rendere odiosa la parte contraria: con tale artifizio ancora, e con sì vivi colori vestivano le loro ragioni, e trasformavano all’incontro quelle dell’avversario, che imbrogliavano talvolta le menti di chi avea da giudicare. Nè essi ommettevano industria veruna per muovere colle macchine ed insidie della lor facondia gli animi d’essi giudici all’ira, alle compassioni, e ad altre simili passioni. Chi più di sapere e forza possedeva per introdurre questa commozion d’affetti, uno de’ principali requisiti dell’arte oratoria: costui maggiore speranza portava per vincere nelle cause massimamente criminali. Però l’arte loro tendeva delle reti segrete a i giudici, per allontanarli dall’ispezione del giusto e del vero, di modo che per testimonianza di Quintiliano, lib. II, cap. XVI, Ateneo non ebbe difficullà di chiamar la rettorica fallendi artem. Ed Aristotele nel lib. I, cap. I della Rettorica notò questo vizio, e desiderò che vi si rimediasse con dire: « Che non convien pervertire il giudice, incitandolo all’ira, o all’odio, o alla compassione: perchè questo è un imitare colui, che vuol valersi di un regolo, e lo fa mancante di dirittura ». E se noi ben peseremo l’uso delle declamazioni nelle scuole e case private, troveremo altro non essere stato se non la profession di Carneade, che pur fu detestata da i più saggi romani, cioè di prendere a lodare, o biasimare la stessa cosa, persuadere o dissuadere la medesima risoluzione, impugnare o difendere una stessa causa, per essere preparati a vendere l’ingegno e la lingua loro in qualsivoglia argomento a chiunque ne avea bisogno. Tal fiducia ispirava loro un tale esercizio, e questa perizia dell’arte oratoria, che nulla quasi loro si presentava, che a forza d’entimemi, di vivaci figure, di belle parole non si figurassero di far comparire nero, se era bianco, e bianco, se era nero. Quei, che una volta si appellavano sofisti da i greci, e in gran pregio furono presso di loro, poco o nulla erano differenti da gli oratori latini. Ma da che si osservò, che menavano sofismi a mercato, e colle insidie e furberie de gl’ingegnosi ed acuti loro ragionamenti cercavano di tirar fuori di strada i giudici e gli uditori, cascarono di riputazione, siccome gente pericolosa e nociva alla Repubblica. Anche Cornelio Celso si lasciò scappar di bocca, che il fine dell’oratore non era l’appagar la coscienza, ma il riportar vittoria. E così discorrendola io, non è già mia intenzione di tacciar con ciò que’ chiarissimi oratori greci e latini, che anche oggidì veneriam nelle opere loro, con attribuir loro i medesimi vizj: quantunque io non ignori, che Cicerone stesso si gloriava di avere offuscato o abbagliato i giudici nella causa di Cluenzio. Una sola cosa intendo io di dire, cioè che l’eloquenza de gli antichi non era una sicura strada per far conoscere a i giudici, da qual banda nelle controversie alloggiasse il vero, e il giusto. Dissi de gli antichi; perciocchè l’eloquenza de’ nostri tempi, che si esercita solamente in argomenti sacri, perché sempre ha per mira di commendar le virtù, e di perseguitare i vizj, non c’è pericolo che inganni, e perverta i nostri giudizj.

Il che posto, non è da desiderare, che si risusciti l’eloquenza ed arte oratoria de’ vecchi secoli per rimetterla nel Foro. A noi basta il metodo nostro volgare di trattar le cause ne’ contradittorj e nelle udienze, che non sarà già esente per questo dall’imbrogliar le cose, ma almeno non v’avrà parte un ingrediente di più atto a pervertire i giudici. Colle ragioni, e non già colla pompa e col furbesco ruffianesimo dell’eloquenza artificiosa, si dee cercare quel che è giusto e vero. Aggiungasi l’altro uso del nostro Foro, che più utile e spedito ancora dee confessarsi, per poter discernere il debole e il sodo delle vicendevoli pretensioni de gli avvocati. Cioè quel delle allegazioni, o sia de’ consulti, o stampati, o scritti a penna di cui non so dire se si servissero gli antichi. Allora il giudice può stendere posatamente il guardo sopra tutto l’apparato delle offese e difese di un attore e di un reo. Ma prestando il giudice ne’ contradittorj le sue orecchie a due campioni legali, che fan duello tra loro, può darsi che talvolta gli venga meno l’attenzione, e gli fuggano cose, che era necessario d’aver ben osservato. Certamente non mancano di coloro, che con molte parole nulla dicono; o se dicono cose buone, colla verbosità e logodiarrea imbrogliano ed infastidiscono. Sogliono altri o per ignoranza o per malizia in sì fatte battaglie citar leggi, decisioni, autori, tutte armi decisive, se si ha a credere a chi se ne serve, che nondimeno pesate e confrontate coi testi, a nulla servono pel caso proposto. Entrano ancora i sofismi (e volesse Dio che fosse di rado) in questi combattimenti, perchè i disputanti nelle lor teste s’ingannano, o son dietro ad ingannare. Non è da tutti il ritener tutto nel libro della memoria, nè il discernere ad un tratto le false merci, che vanno in fiera, dovendo la mente de gli ascoltatori giudici tener dietro alle susseguenti ragioni de’ dicitori. Ora a questi incomodi e pericoli s’è provveduto coll’uso delle allegazioni e de’ consulti prodotti dalle parti. Non usa la Ruota Romana i contradittorj, perchè meglio si soddisfà al bisogno colle ragioni in carta. Nulla manca allora al giudice, che voglia soddisfare al suo dovere, per esattamente esaminare e cambinar la forza delle ragioni opposte, e per potere chiarirsi, se con buona fede, e approposito per la quistione servano le allegate leggi, decisioni, ed autorità de’ sapienti. Il che eseguito, altro non resta a chi dee giudicare, se non di valersi della forza del suo ingegno, e della diritta sua volontà, per venire alla sentenza. Potrebbe accadere, che ciò non ostante egli poco giustamente giudicasse: ma allora sarà da attribuire l’ingiusta sentenza, non ad inganno intervenuto per parte de gli avvocati, ma alla poca attenzione, all’insufficienza, se non anche a qualche occulta passione del giudice.

Per conto poi delle allegazioni suddette, e dell’altre fatture de’ moderni legisti italiani, bramerebbono alcuni, che fosse men barbara e rozza la loro latinità. Miriamo teologi, filosofi, medici, ed altri professori di scienze ed arti scrivere oggidì con pulizia ed eleganza di stile latino. Ma ne’ nostri giurisconsulti dura tuttavia l’orrido de’ secoli barbarici, senza studio alcuno della lingua latina, e nè pur della volgare, di cui talvolta si servono. Nè può negarsi: un tale ornamento, che comparisce ne gli scritti del nostro Alciato, del Cuiacio, del Fabro, e di tanti altri, massimamente stati pubblici lettori di giurisprudenza, sarebbe molto da lodare anche nel nostro Foro. Non già perchè la pulizia del linguaggio possa punto influire a conseguir il fine, che si propone il legista; ma perchè la leggiadria è una veste, che dà o accresce vaghezza a tutte le fatture de gli uomini. Si ridono alcuni legisti de’ grammatici; ma anche i grammatici fan le risate dietro a certi legisti; e queste sarebbe bene il risparmiarle. Disputavano un dì due miei amici, pretendendo l’uno, che litera si avesse da scrivere con un sola t e l’altro con due. Sopragiunse un dottorone di prima riga, che intesa la lor quistione, ex tribunali pronunziò, aver torto amendue, dovendosi scrivere lictera. E chi negasse, ch’egli avesse ragione, sappia che gli si sfodererà in faccia l’autorità del buon Cardinale de Luca, che scriveva così. Occorre egli di più dopo un sì classico autore? Ardisco di dire ancora, che una qualche dosa di eloquenza starebbe pur bene in chiunque s’applica all’esercizio delle leggi. Non già per formar delle Orazioni studiate ed ingegnose, nè per far delle vane crie, o delle giovanili amplificazioni, che fan perdere il tempo a chi dice, e a chi ascolta. Il forte di chi si dà alla giurisprudenza dee consistere nel ben sapere le leggi, e nel saperle acconciamente applicare a i casi proposti, e nel buon uso del raziocinio, per indagar le ragioni delle cose, o favorevoli all’una parte, o nocive all’altra, e saper conghietturare onoratamente e naturalmente la volontà de’ testatori e contraenti senza stiracchiature e sofisticherie. Ma in oltre giova non poco al conseguimento della palma nelle liti il saper ben ordinare, e proporre con chiarezza e con forza le ritrovate ragioni, di maniera che i giudici senza fatica se le sentano penetrar nell’intendimento, e le gustino. Però almen tanto di eloquenza, che possa dare buon garbo al raziocinio legale. Nè io condannerei que’ novizzi della giurisprudenza, che in privata adunanza sotto la disciplina di qualche sperto maestro si esercitassero, secondo l’uso de gli antichi declamatori, in finti contradittorj, sempre nondimeno coll’unico fine ed amore del vero e del giusto. Si addestrerebbono essi in questa guisa per tempo ad un mestiere, a sapere il quale per lo più oggidì arrivano, sol quando son provetti in età, o pur quando è tempo di finir di parlare. Il punto sta a guardarsi dal pericolo di avvezzarsi anche a sostener cause spallate ed ingiuste. Colla sperienza nelle scuole ho imparato a conoscere Lettori, che esercitavano i discepoli a questo mestiere con proporre conclusioni strane e paradosse, più per dar pascolo al bell’ingegno, che propriamente per cercare la verità e la giustizia.