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Del rinnovamento civile d'Italia/Documenti e schiarimenti/I

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I. Di alcune critiche del signor Gualterio

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I

di alcune critiche del signor gualtierio


Questo scrittore muove contro il mio Primato parecchie critiche, ad alcune delle quali avea giá risposto quattro anni sono1. In prima egli trova che il mio libro «non è scevro di utopie, è troppo speculativo, esagera il principio astratto da me vagheggiato e tien poco conto delle politiche combinazioni e degl’interessi materiali». Laonde egli giudica che «io volessi lasciare il campo ad altri pratici scrittori, ad uomini anche piú esperti nella scienza politica e nell’uso degli affari»!2. Se io ebbi tale espettazione, convien dire che sia stata delusa; poiché i piú celebri dei «pratici scrittori» che mi tennero dietro, non che migliorare il mio concetto, lo svisarono piú o meno con grave danno; e gli uomini che governarono il Piemonte non si mostrarono molto «esperti nell’uso degli affari e nella scienza politica», se si dee giudicar dagli effetti. Non vi ha alcuno di essi che abbia avuta esatta cognizione dei tempi e previdenza dei casi probabili, e quindi non abbia errato nelle politiche operazioni. Io non ho nulla da rimproverarmi per questi rispetti. Il mio solo torto fu di troppo condiscendere a un’antica amicizia, se giá il signor Gualterio non ci aggiunge quello di aver troppo creduto alla parola di re Carlo Alberto. Nel mio Primato non si trova utopia di sorta, poiché la dittatura pontificale ci è lodata come acconcia alle condizioni dei bassi tempi, inopportuna ed assurda nell’etá moderna. Non cosí l’arbitrato, il quale sarebbe stato possibilissimo, solo che il pontefice non avesse lasciata la via presa nel quarantasette. Se Pio nono fosse ito innanzi allo stesso modo in questi tre anni, chi non vede ch’ei sarebbe oggi, per l’autoritá del nome, del grado, dell’esempio, della religione, arbitro morale e civile di Europa? [p. 302 modifica]Ma benché questo non abbia avuto effetto, tuttavia quanto si è fatto nel biennio del Risorgimento italiano e lo statuto piemontese, che ne è l’unico avanzo, ebbero origine dall’entratura di Pio nono. Né questi avrebbe cominciato se non fosse stato indotto e quasi rapito a farlo dal quadro ideale che io feci del pontificato cristiano, rappresentandolo come la base ed il centro del nostro riscatto e raccogliendo per magnificarlo tutte le memorie del passato e le speranze dell’avvenire. Le apologie rimesse e temperate del Balbo non erano una spinta bastevole all’impresa; e le critiche severe dell’Azeglio, se fossero state sole, l’avrebbero piuttosto impedita che favoreggiata.

Io non ho mai creduto che sia difetto nelle opere politiche l’essere «speculativo» e il «vagheggiare i principi astratti», tale essendo stato il costume di tutti i grandi, da Platone sino al Romagnosi. Imperocché ogni dottrina pratica ha mestieri di una base speculativa che la sostenga, né si dá speculazione senza astrazioni. Ben si richiede che gli astratti si fondino nei concreti e le idee speculative non si scompagnino dal reale dei fatti e della storia; e anche per questo rispetto io non credo di meritar biasimo. Imperocché la parte filosofica delle mie scritture, non che pregiudicare alla pratica, mi ha servito a determinarne i confini e le leggi con una precisione che poscia venne autorizzata e confermata dagli eventi. Né per altro alcuni ristrinsero o troppo allargarono il Risorgimento italiano, se non per aver proceduto all’empirica e trasandati i principi scientifici che doveano governarlo. La dottrina del primato italiano è il fondamento dell’italianitá, e la trascurala di questa dote essenzialissima partorí quasi tutti gli errori dei municipali e dei puritani. Tanto è pericoloso in politica il voler camminare senza la scorta della scienza e colla sola guida del senso volgare o comune.

Io non so che cosa intenda il signor Gualterio per quelle «combinazioni politiche» che mi appone di aver trascurato. Se per esse accenna al particolare assetto della lega, degli statuti, degli ordini civili, io credo dell’averle pretermesso meritar lode, non riprensione; perché l’entrare in si fatte determinazioni prima del tempo è inopportuno, anzi ridicolo. Nelle opere di apparecchio non si dee uscire dai generali, come io feci discorrendo largamente di nazionalitá, di confederazione, di riforme, di monarchia consultativa inviata alla rappresentativa, esimili; perché il modo speciale di porre in essere tali cose dipende dai futuri accidenti [p. 303 modifica]che non si possono prevedere. Se poi sotto nome di «politiche combinazioni» si allude alla divisione dell’impero ottomano o a simili contingenze europee, non posso pure dolermi di essermene astenuto, sia perché esse non ebbero luogo, e perché i fatti mostrarono che il Risorgimento italiano poteva aver luogo senza di esse.

Degl’«interessi materiali» non tacqui generalmente, e non ve ne ha un solo che io non ne abbia almeno fatto menzione. Ma non mi parve di dover trattenermi a lungo sopra di essi per piú ragioni. Ciò in prima sarebbe stato superfluo, perché l’importanza di tali interessi è cosí nota, cosí trita, cosí volgare, che gli uomini per questa parte non han d’uopo di essere addottrinati. Quanto all’entrare nell’inchiesta particolarizzata di cosí fatte materie, gli stessi motivi che mi distolsero dalle minutezze politiche me lo vietarono. Oltre che, mal si affaceva all’economia del lavoro che avea per le mani il mescere alle considerazioni dei beni morali e civili (che sono i piú rilevanti, perché base degli altri, e tuttavia i piú negletti) delle intramesse sulle strade ferrate, i banchi, i traffichi, le officine, ripetendo fuor di luogo le cose dette bene e autorevolmente dagli autori che ne fanno special professione. Era bensí a proposito l’insistere anco sui progressi materiali, ogni qual volta taluno di essi fosse trasandato per la desuetudine e cadesse in acconcio il richiamarvi l’attenzione de’ miei compatrioti. E io il feci rispetto alla marinaresca e alle colonie, mostrando che per via della confederazione si poteano ravvivare in Italia queste due fonti di gloria, di potenza, di ricchezza, spente da tanto tempo. E notai la tendenza odierna a riportare il centro dei commerci nel Mediterraneo, che ne fu il primo seggio; veritá che fu poscia ripetuta da molti scrittori dentro e fuori della penisola.

Piú grave è il rimproccio che mi fa il signor Gualterio pel contegno da me usato intorno a un celebre instituto. «La quistione dei gesuiti fu politicamente inopportuna, massime per i modi ch’io tenni; perché la storia delle sventure della mia patria doveva avermi appreso che non nelle divisioni ma nella concordia sola poteva essa sperare salute»3. Mi par gran cosa che io abbia ignorata la necessitá di questa concordia, quando essa fu il tema principale de’ miei scritti politici (e in particolare di quello che [p. 304 modifica]incominciò la giostra gesuitica), venne da me posta a base e a regola del Risorgimento e da niuno fu predicata con maggiore efficacia. Il che tanto è vero che prima di assalire i gesuiti io cercai di allettarli. Ma riuscito vano l’intento e chiarito col fatto che essi erano il principale ostacolo al miglioramento delle sorti italiane, conveniva rimuoverlo o deporre ogni speranza. Una veritá non dee far dimenticare le altre; e se è cosa savia l’offrir pace al nemico che può riconciliarsi, è follia l’abbracciare nelle cose di Stato il nemico implacabile. Tutto adunque si riduce a sapere se i gesuiti erano tali; e che fossero, n’ebbi non dubbia prova dall’accoglienza che fecero al mio Primato, in cui parlavo di loro con amorevolezza. Imperocché, lodandolo in aperto, lo sfatavano in secreto; e cosi gli nocevano doppiamente, screditandolo presso i governi ed i principi coi biasimi e presso il pubblico colle lodi4.

«Questa estesa e potente corporazione non era né antico né cieco istrumento austriaco, essendo anzi le questioni fra lei e quel governo da poco tempo cessate, e l’alleanza sul solo reciproco interesse basata»5. Ciò basta a giustificarmi; perché, avendo l’Austria e la Compagnia oggidí un solo interesse, non si poteva muover guerra all’ una e far carezze all’altra o tacerne. Strano sarebbe l’osteggiare il minor nemico e non il maggiore; e i gesuiti, come nemici interni e corruttori degl’intelletti coll’abuso della religione, sono ed erano piú formidabili del Tedesco. Né importa che la loro alleanza fosse recente, ché io scriveva pe’ miei tempi e non per quelli di Giuseppe secondo.

«La discussione e la lotta dava forza, destava l’attenzione e procacciava soccorsi a quell’instituzione e con essa al suo partito, che come tutti i partiti nelle lotte si avvalorava»6. I soccorsi furono cosi efficaci che il gesuitismo venne sterminato da tutta la penisola. E il suo bando sarebbe stato perpetuo senza i moltiplici errori delle sètte liberali, dei governi e dei principi che spianarono la via al ritorno. Questi errori la diedero vinta ai padri, non la polemica del mio libro, poiché questa gli avea cacciati. Senza di essa sarebbero stati in piedi; e in vece di un Risorgimento effimero, non avremmo avuto Risorgimento alcuno. Prima di scrivere i Prolegomeni io consultai dal mio esilio alcuni italiani oculati [p. 305 modifica]e moderatissimi; e tutti mi risposero d’accordo ch’era vano lo sperare migliori condizioni all’Italia finché c’erano i gesuiti.

«Se i gesuiti non potevano essere tirati verso il movimento italiano, senza dubbio potevano non aversi nemici, almeno non cosi accaniti e cosi possenti nemici»7. Il signor Gualterio non conosce i gesuiti. La libertá e la civiltá essendo la loro rovina, i padri avrebbero fatto in ogni caso tutto il loro potere per impedirne l’introduzione in Italia, e specialmente in Roma, che è il centro della loro potenza. L’opposizione loro sarebbe stata forse piú ipocrita, e quindi tanto piú nociva. — «L’esempio del Belgio potrebbe confortare questo concetto, e quanto accadde in Sicilia giustificherebbe pienamente il mio asserto»8. Nel Belgio la causa della libertá è, come in Irlanda, accidentalmente congiunta con quella del clero cattolico; e la Compagnia è costretta a tollerarvi gli ordini liberi, perché il potere che ci possiede ebbe origine dalla rivoluzione che gl’ introdusse. Il contrario avea luogo in Italia. E tuttavia anche nel Belgio gl’influssi gesuitici nocquero e nocciono ai progressi civili. L’esempio di Sicilia conferma la mia sentenza, poiché i gesuiti non ci avrebbero fatto mostra di liberali senza il loro sfratto dall’altra Italia. La paura di perdere quell’ultimo asilo li costrinse a mutar tenore; laonde l’ipocrisia politica dei padri nell’isola nacque dagli effetti della mia polemica nella penisola. Né tale ipocrisia sarebbe durata, come non durò in Francia. L’esempio di questa è tale che toglie ogni replica, e mostra quale sarebbe stato l’esito del Risorgimento italiano (ancorché non fosse mancato per altre cause) se i gesuiti non si scacciavano. Nei principi del quarantotto i padri e tutti i loro creati, chercuti e senza chierica, applaudirono alla nascente repubblica. Ma fin d’allora cominciarono contro di essa una guerra sorda e insidiosa, che poscia divenne aperta e ha ridotta la Francia a essere sotto forma di libertá uno dei paesi piú servi di Europa. Chi non vede che per l’ Italia, posta in condizioni di gran lunga men favorevoli al vivere libero, il morbo che affligge la Francia sarebbe stato la morte? I gesuiti amici sono mille volte piú pericolosi e temibili che nemici.

«Il Gioberti apparve andar dietro agli esagerati ed ai romanzieri. Niuno ha dimenticato che in quel tempo il partito radicale [p. 306 modifica]faceva dei gesuiti il tema favorito delle sue declamazioni in Francia»9. Ma niuno pure dee aver dimenticato che in quel tempo i liberali piú moderati di Parigi erano avversi ai padri e li volevano espulsi dalla Francia. Non erano declamatori e radicali il signor Thiers che parlamentava, e il signor Guizot che spediva a Roma un legato a tal effetto, né Pellegrino Rossi che accettava ed eseguiva la commissione. Non era radicale e declamatore Guglielmo Libri, il quale scrivea nel tempo medesimo contro i radicali e contro i gesuiti. — Ma i gesuiti aveano contro eziandio i radicali. — E che perciò? Dunque odieremo la libertá, l’uguaglianza, i progressi civili, perché i radicali ne sono amatori? Che logica è questa?

«Un libro, che avrebbe avuto e doveva avere per il bene della sua patria l’universale assenso, fu soggetto di acerbe controversie e provocò gli scritti ancora piú acerbi del padre Curci»10. E che importa, se a malgrado i contrasti bastò a rivolgere in meglio le sorti d’Italia per qualche tempo? Gli «scritti acerbi» del padre Curci furono una benedizione, poiché confermarono le conclusioni del mio, mostrando col fatto quasi in uno specchio qual sia la scienza, la creanza, il pudore, la lealtá, la morale e la religione dei buoni padri. Solo è da dolere che tali scritti non sieno stati cosi frequenti e copiosi come il bene d’Italia richiederebbe. Ce ne vorrebbe almanco uno per ogni mese. Ma cosi scarsi come furono, bastarono pure a mettere la Compagnia in cielo e ad arricchire di una nuova voce la nostra lingua, della quale il padre Curci è cosi benemerito come il padre Escobar della francese.

«Come il Primato del Gioberti aveva fatto presentire all’Austria per sé un gran pericolo, i Prolegomeni e le polemiche che da quelli furono occasionate gliene additarono il piú efficace e sicuro rimedio»11. Se gli austriaci non avessero avuto altro rimedio che la Compagnia profuga, sarebbero stati freschi. I rimedi furono i principi e le fazioni interne, specialmente i puritani della bassa Italia e i municipali del Piemonte. Né però vinse affatto la prova, poiché dura la libertá subalpina. Or chi non vede che lo statuto sardo avrebbe giá avuta la sorte di quelli di Toscana, di Roma e di Napoli, se i gesuiti non fossero stati espulsi dal Piemonte o ci avessero fatto ritorno?



  1. Il gesuita moderno, t. v, pp. 112-148.
  2. Gli ultimi rivolgimenti italiani, Firenze, 1851, parte ii, p. 66.
  3. Gli ultimi rivolgimenti ecc., parte ii, p. 67.
  4. Consulta il Massari nel proemio alle mie Operette politiche (t. i, pp. 23, 24, 25),
  5. Gualterio, loc. cit.
  6. Ibid.
  7. Gualterio, loc. cit., pp. 67, 68, nota.
  8. Ibid., p. 68, nota.
  9. Gualterio, op. cit., p. 68, nota.
  10. Ibid., p. 68.
  11. Ibid,., p. 69.