Del veltro allegorico di Dante/XIV.

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XIV.

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XIII. XV.

[p. 29 modifica]XIV. Turba innumerabile di pellegrini si vide giungere in Roma: richiesti per ordine del pontefice rispondevano, esservi sospinti da tradizione antichissima per ottenere i secolari perdoni (1300). Bonifazio non ristette nel largheggiarne; però crebbe la turba: né mai dopo le crociate di oltremare i popoli migrarono in tanto numero. L’Alighieri si recò a Roma e maravigliava della moltitudine dei pellegrini (Inf. XVIII, 82-83): accompagnollo forse il suo amico Casella, che morì nel ritorno (Purg. II, 100-102). Tale cominciò col secolo il giubbileo; tale il 1300, memorabile per nuovi riti, per grandi espiazioni e per non minori delitti. Nei primi quattro mesi, gl’italiani continuarono a cessar dalle guerre; i fiorentini erano i piú allegri e doviziosi, fra brigate sollazzevoli e danze giulive traendo la vita: ma i giorni leggiadri finirono appunto in quell’anno. Lievi cagioni, delle quali parlerò in altro scritto, aveano diviso i [p. 30 modifica] Cancellieri di Pistoia; la cittá diessi a Firenze: questa, quasi gran senno, richiamò nelle sue mura i capi dell’una e dell’altra parte, i quali appellaronsi neri e bianchi. Ripararono i bianchi a casa messer Vieri dei Cerchi, e i neri presso Corso Donati, fino a che la garrulitá in un banchetto della donna di Vieri in verso quella di Bernardo Donati non iscopri le gelosie cittadine (aprile 23), che per gara di pubblici offici si annidavano in petto agli ambiziosi. Da ciò gran fiamma si apprese a Firenze: da Firenze a tutta Toscana. Il dì primo di maggio fu quello del primo sangue che si versò: impensato accidente in una festa levò rumore fra i Cerchi e i Donati: dal romore alle armi; e fu mozzo il naso a Ricoverino dei Cerchi. Pel quale fatto crebbero a malvagia celebritá i sinistri nomi dei bianchi e dei neri. E ben volea Bonifazio spegnere così funeste faville: ma Vieri dei Cerchi si mostrò tanto ritroso alle preghiere del papa e tanto selvaggio, quanto messer Corso pronto e inchinevole. Gli sdegni divennero piú implacabili fra queste due sette dei guelfi, che tra i guelfi ed i ghibellini. Costoro, non dimentichi dell’Arbia e sperando venir nuovamente in istato, aderirono ai bianchi: ed ecco rincrudirsi le italiche fazioni, e la guerra di Sicilia farsi piú atroce. Da un lato, Uguccione della Faggiola, secondo alcuni capitano di Arezzo e secondo altri podestá di Gubbio, scacciò i guelfi da Gubbio coll’aiuto degli aretini e di Federigo di Monte Feltro (maggio 23); dall’altro lato Giacomo di Aragona vinse, ma senza frutto, il re Federigo sul mare (giugno 14). Spiacque ai fedeli che in un anno sacro al perdono, intendesse Bonifazio alle orride armi fraterne. Il suo legato Napoleone Cardinal degli Orsini potè nondimeno costringere Uguccione della Faggiola e Federigo da Monte Feltro ad uscire di Gubbio: grosso numero di ghibellini partì con essi, e fra gli altri Bosone Raffaeli detto di Gubbio, che si riparò in Arezzo e poscia fu amico di Dante. Il rimanente degli esuli si sparsero in Romagna, la quale rifecesi ghibellina: quantunque alcune cittá ed alquanti signori si dicessero tuttora devoti alla corte romana. Questa non omise di scagliare le sue censure: ma piú lenta procedeva dissimulando coi Polentani e coi [p. 31 modifica] Malatesta, i quali non ritenevano che il solo nome di guelfi. Per opposta cagione, Bologna piú guelfa che mai, ma piú che altri credendosi minacciata da Azzone VIII di Este, affettò la parte imperiale.

Non minori tumulti agitarono Firenze, ove Guido Cavalcanti era pei bianchi e Dante otteneva i massimi onori del priorato: sperando che venissegli fatto di sedare i neri ed i bianchi, e di comporre messer Corso e il suo Guido. Tornato vano il suo zelo, Dante mise partito che fossero confinati entrambi questi due bollenti capi di parte: in che apparve l’animo e l’amor patrio di chi per salvare Firenze non ascoltava le voci né dell’amicizia né dell’affinitá. Messer Corso adunque andò a confino in Massa Trabaria, ed a Sarzana Guido Cavalcanti con tre dei Cerchi e con Baschiera della Tosa o Tosinghi. Giovine di alti ma imprudenti spiriti, erasi allontanato Baschiera dal resto della sua famiglia che pendeva pei neri, tranne Lottieri poi vescovo di Firenze: maggiori fra i Tosinghi riputavansi Rosso e Pino della Tosa, cugini della celebre Chianghella di Dante (Parad. XV, 128). Uscito questi di officio, Guido fu richiamato per l’infermo aere di Sarzana: di ciò grave sdegno punse l’animo di messer Corso contro l’Alighieri, come se fosse ancor ei dei priori o che avesse ribandito l’amico. Né tardò il Cavalcanti a mancar di vita, lasciando solo il compagno in mezzo a tanta onda civile (novembre).

Privo del soavissimo Guido e per la pietá di lui, si alzò Dante altamente in favore dei bianchi: ma Corso Donati, rotto il confino di Massa Trabaria ed itone a corte di Bonifazio, prevalse. Persuase al papa, i bianchi essersi congiunti pubblicamente coi ghibellini; avere avuto sempre cuor ghibellino: doversi sperdere il seme di gente inimica della Chiesa: non altri che principe straniero potere dalla radice recidere il male: potere inoltre, fornita siffatta impresa, condurre a termine l’altra di Sicilia contro il re Federigo. Alla doppia opera Bonifazio prescelse Carlo di Valois fratello di Filippo il bello; non ostante che l’aver questi dato in Francia ricetto ai Colonnesi Iacopo e Piero cominciasse ad inserire negli animi quegli odii, che presti [p. 32 modifica] scoppiarono tra Bonifazio ed il re. Intanto Federigo di Monte Feltro essendo capitano di Cesena, chiamovvi Uguccione, scudo e forza dei ghibellini (dicembre): e Bonifazio VIII, non ignaro di quello che tal guerriero potesse, inviò in Romagna Matteo Cardinal di Acquasparta (Parad. XXII, 124), imponendogli che non per arti di guerra ma solo di promesse o di esortazioni facesse di ritener nella fede alla sedia romana quei popoli altrove inclinanti. Cosi tra i rancori e le paure terminò in Toscana ed in Romagna l’anno si lietamente cominciato: infino al quale avea Dante leggiere cure impiegato nel poema votivo a Beatrice. Ma il giubbileo, allargato il lavoro, gli diè le forme che or vi si scorgono; il poeta lo assoggettò alla legge di doversi fingere avvenuto nel 7 aprile 1300 il principio della sua visione misteriosa: da questa legge, che non ruppe giammai, derivano le maggiori bellezze della Divina Commedia.