Del veltro allegorico di Dante/XLVIII.
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XLVIII. Cotanto amico qual egli era di Uguccione della Faggiola e tenero della sua gloria ed avverso alla casa francese preponderante in Italia, l’Alighieri spiacque infine a Roberto (1315). Mancato Arrigo VII, non avea piú il monarca di Napoli pensato a coloro che un di abbracciarono le parti di quello, vuoi con le armi, vuoi con gli scritti: ma quando egli vide che l’autor dell’Inferno e del Purgatorio vivea vicino all’odiato Uguccione, fe’ rinnovar le minacce di morte pronunziate giá da Cante Gabrielli: ciò che fu eseguito nel nuovo anno 1315 da messer Zaccaria di Orvieto, suo regio vicario in Firenze. Della qual cosa Dante, il quale avea cominciato il suo Paradiso, presto si vendicò nel famoso racconto in cui strinse la storia romana (Parad’. VI), ed ove, scorgendo la virtú del Faggiolano, esaltava la possanza, che quegli avea rinverdito, dei ghibellini. Or bene costoro, minaccioso scrivea l’Alighieri, trassero il vello a piú alto leone che non è la famiglia francese di Napoli (ibid. 106-108); e non è lungi un’Arbia novella. E tosto, disdegnando le persecuzioni e le sentenze di Roberto, il chiamò re da sermone (Parad’. VIII, 147). Ma giá il veltro ed il capitano apprestavasi a compire questo presagio. Impadronitosi Uguccione dei piú forti castelli guelfi, pose l’oste in vai di Nievole a Monte Catini fra Lucca e Pistoia. L’arrivo a Firenze di Filippo principe di Taranto e di messer Piero di Angiò, fratelli del re Roberto, rinfrancò nei guelfi l’ardire. E giá in Pisa i meno animosi accendevansi del desiderio di venire agli accordi col re, quando il Faggioiano tornato in cittá dall’esercito con insigne orazione fugò le paure dal cuore dei ghibellini, e gl’invaghí del desiderio di gloria. Severo motto ei fece ai pisani dei suoi dispendi a prò della loro causa: non era stato egli che avesse cercato di venire a Pisa da Genova, cittá nobilissima: tutte le rendite del suo slato faggioiano avea giá egli collocato nelle spese della guerra; il suo fratello Federigo della Faggiola, divenuto abate di Santa Maria del Trivio di Monte Coronaro, dalla sua solitudine inviavagli denari del monistero, e si vedea costretto fino a tome in prestanza. Dei quali denari per veritá leggevansi non ha guari le scritte, oggi disperse o consumate dal fuoco. Gridarono i ghibellini, doversi continuare la guerra, doversi fare il piacere del Faggioiano. Ed ei numerò gli amici, e raccolse gli aiuti, e fattane rassegna, conobbe di avere ventimila fanti e duemila cinquecento cavalli. Di questi Matteo Visconti e gii aretini aveano inviato buon numero; i Buonaccolsi e Can della Scala soli cento fra mantovani e veronesi. Gli esuli bianchi sommarono a piú che seicento: egli è incerto se l’Alighieri fosse tra essi. Castruccio Castracani guidava per la prima volta i lucchesi a combattere contro i guelfi; e Ranieri della Gherardesca, zio del conte Gaddo di Donoratico, facea nuovamente ncH’esercito primeggiare fra i capitani di Pisa il nome giá si abborrito del conte Ugolino. Ma nell’altro campo di gran lunga era maggiore l’esercito del principe di Taranto e dei fiorentini: quei di Bologna, di Siena, di Gubbio, di Perugia, di Cittá di Castello vi accorsero: Carlo, figlio del principe, orgoglioso esultava per la sperata vittoria. Infine i nemici scontraronsi, non piú divisi che dalla Nievole. Uguccione, veggendo i suoi cosi pochi al paragone dell’inimico, con questi detti ristorò il loro coraggio:
— I guelfi che vi stanno a fronte, o soldati, vi sopravanzano tanto per numero, quanto vi cedono in virtú ed in dire. Ma oggi si vedrá che nei campi di Val di Nievole i fedeli del sacro imperio pugnano col ferro, e non con le fraudi o coi denari dei fiorentini. Quel Roberto, cui si dieder costoro, ha Tanimo piú da sacerdote che da guerriero: né attenta di venirne in campo contro di voi, seduto a consiglio per veder modi onde vi nuocciano i processi e gli sdegni della corte avignonese. Noi zelatori della fede cattolica ei si pensa di offendere, dandoci la mala voce che siamo eretici; sol perché dalla Chiesa distinguiamo l’imperio, e che sotto le leggi di questo vogliamo una e forte la parte dei ghibellini. Pur egli e i principi della sua casa di Francia tengono schiava in Avignone la Chiesa di Dio, e non soffrono la libera elezione del papa. E Roberto preme il soglio di Corradino, crudelmente ucciso in sul fior dell’etá; di Corradino, immortale onore della casa di Svevia, il nome del quale ci sará sempre caro ed acerbo. Filippo e Carlo di Taranto, inviliti fra le delizie, male ora discendono a combatter coloro che ridussero al nulla i nemici del popolo pisano; a coloro i quali benché privati dell’alto imperatore Arrigo VII pure hanno ripreso le castella perdute giá pel tradimento del conte Ugolino: a coloro infine che han conquistato Lucca superba, ove per farvi la guerra si era nascosto ampio tesoro. Ferite, dunque, o ghibellini, ferite; vendicate il sangue di Corradino, ed in quello della plebe dei guelfi spegnete la loro codarda gioia per la morte del glorioso Arrigo di Lucemburgo. —
In tal modo Uguccione inanimiva i suoi, discorrendo le file. In ultimo, levato alto il suo cappello di ferro, ei diede il segno della battaglia. Fiacco riparo fu ai guelfi la Nievole contro l’impeto degli assalitori; Francesco della Faggiola, podestá di Lucca, urtò si fattamente le schiere degli avversari che al primo sforzo le ruppe: ma ferito a morte spirò a mezzo della vittoria. E giá per questo indietreggiavano i vincitori, allorché Uguccione, stretto in cuore il dolore, accorse giganteggiando, e tutti nel suo passare mettendo in fuga e in iscompiglio i nemici. Pietro di Angiò, Carlo di Taranto, e i primi fra i guelfi giacquero svenati sul campo; i piú, cacciati nelle paludi vicine alla Nievole, vi affogarono: Bologna e Firenze piansero i loro piú valorosi (agosto 29). E il tempo ha perdonato ad una canzone dei guelfi, nella quale meglio che altrove si leggono i loro danni, e come sia stato intero il trionfo del Faggiolano. L’autore sconosciuto di quella cerca di consolar la madre del giovine Carlo di Taranto, facendole dalla giustizia di Dio sperar pronta vendetta sopra coloro, ch’ei chiama eretici ghibellini o pisani. Ciò non impedi che Monte Catini e i principali castelli del Pistoiese aprissero le porte ad Uguccione (ottobre 26); cui tosto Volterra ed altre cittá spedirono ambasciadori per promettergli ubbidienza (1316). Ludovico il bavaro, eletto imperatore, il privilegiò di ampio stato cosi nei luoghi vicini a quelli della battaglia come nel Monte Feltro, nella Massa Trabaria, e nel paese cui bagna il Tevere fino a Borgo San Sepolcro (febbraio 15); donogli ancora Castiglione Aretino fra Cortona ed Arezzo. E sembravano venuti i giorni predetti dal l’Alighieri: ma giá la fortuna ordiva gl’inganni.