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Dell'uomo di lettere difeso ed emendato/Parte seconda/17

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Parte seconda - 17. La pazzia di molti, che, vogliosi di parer Dotti, si publicano con le stampe Ignoranti.

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Parte seconda - 17. La pazzia di molti, che, vogliosi di parer Dotti, si publicano con le stampe Ignoranti.
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AMBIZIONE

17

La pazzia di molti, che, vogliosi di parer Dotti,
si publicano con le stampe Ignoranti.

Quell’insaziabile non dirò voglia ma rabbia che si ha di publicarsi al mondo, volesse Dio, che assottigliasse così l’ingegno, come aguzza la penna; sì che tanto crescessero le Scienze in peso, quanto crescono in numero i libri.

Appena abbiamo messo nel nido d’una scuola il fior delle prime piume al cervello, e già ci pare d’essere non che Aquile ma Mercurj coll’ali in capo. Appena in noi s’è accesa una scintilla d’ingegno, e già con le stampe vogliamo rilucere come Soli, e farci con istrana ambizione maestri prima d’essere compiutamente scolari. Ogni pensiero, che concepisce la mente, ci par degno di partorirsi alla luce: e ancorchè molte volte egli sia niente più che ridiculus Mus; in ogni modo chiamiamo la stampa, che ne sia la Lucina, e lo ricolga, e non che vivo ma immortale lo serbi. Le Zanzare, le Mosche, i Grilli del nostro capo ci pajono meritevoli d’essere imbalsamati, come quell’Ape nell’elettro, e isposti alla vista e all’ammirazione del Mondo. Così

          Tenet insanabile multos
          Scribendi cacoethes; et ægro in corde senescit1.

Felici le Lettere, se ancor’i libri avessero il loro inverno; e come a gli alberi ogni anno cadono dopo l’autunno le foglie, i fogli alla maggior parte di questi cadessero. Il Mondo con ciò sarebbe tanto più savio, quanto avrebbe in minor numero maestri d’errori e oracoli di bugie.

Quanti libri ci vengono alle mani, che portano in fronte inscriptiones, propter quas vadimonium deseri possit2! In leggere le superbe promesse de’loro titoli, vi verrà su la lingua o quel verso d’Orazio [p. 101 modifica]

          Quid dignum tanto feret hic promissor hiatu?

O quello scherzo, con che Diogene si burlò della gran porta d’un piccol castello, con dire: Chiudete la porta; se non, il castello vi fuggirà per essa, e vi lascerà senza patria nè casa.

Corrono impazienti l’occhio e la mano, questa a svolgere e quello a legger le carte. At cum intraveris (Dii, Deæque!) quam nihil in medio invenies3! Un’Africa, che d’intorno ha le rive amenissime, dentro una gran parte è sterile arena e nudi deserti di sabbia. Il primo foglio riesce come quel celebre velo di Parrasio, dipinto in modo che sembrava coprire una pittura; onde Zeusi ingannato, flagitavit, tandem remoto linteo ostendi picturam4: ma in fatti altra pittura non v’era, che il velo ingannatore degli occhi, con le bugie del pennello. Così riesce ancor qui vero il detto di Seneca5: Speciosa, et magna contra visentibus, cum ad pondus revocata sunt, fallunt. Ingannano molte volte i libri così come le mela di Sodoma, che, belle in faccia, altro non hanno che l’ipocrisia del parere; perchè dentro sono cenere e fumo, e in aprirsi svaniscono in nulla: Si qua illic poma conantur (disse Tertulliano6), oculis tenus, cæterum contacta cinerescunt.

Gran compassione in vero merita un’Uomo di Lettere, che mettendosi avidamente intorno ad uno di questi libri, che altro non hanno che prospettive e apparenze, truova essere una nuvola dipinta quella, ch’egli credeva una ricca Giunone; e in vece di trarne i tesori ch’egli aspettava, vede che più gli costa il suo libro col tempo che inutilmente spende in leggerlo, che non gli eostò co’ danari della compera che ne fece. Vi pesca dentro giorno e notte, finchè con un nihil cœpimus l’abbandona. Vola coll’ingegno curioso all’apparenza di qualche pellegrino pensiero, di qualche machina di discorso; ma, come gli uccelli che volavano all’uve dipinte di Zeusi, se famelico ci venne, digiuno se ne parte. [p. 102 modifica]

Oh a quanti Scrittori, che più d’una volta hanno fatto gemer’i torchi, si potrebbe ripetere quel verso d’Ausonio:

          Utilius dormire fuit, quam perdere somnum,
          Atque oleum!

Hanno vegliato i miseri molte notti per lavorare un libro, che metterebbe il sonno a quanti lo leggono, se lo sdegno, che sentono contra l’Autore, non li tenesse svegliati. A quanti libri potrebbe, sotto il titolo che portano in fronte, scriversi il nome, con che il Zuazo, Dottore Spagnuolo, chiamò un’isoletta deserta7, dove approdando nella navigazione dell’Indie, non trovò nè pur’erba, non che altro sostentamento per vivere! perciò le pose questo per nome: Nolite cogitare quid edatis. E pure (sì come ingegnosamente li chiamò S. Ambrogio8) i libri sono i Porti, dove l’animo non solo dalle tempeste alla quiete, ma dalla povertà all’abbondanza si ricovera. Ma eccovi tre sole delle molte ragioni, onde avviene che tanti libri inutili e vuoti d’ogni bene si stampino.

1. Pare ad alcuni di non far nulla, se fanno solo un libro. Vogliono essi soli fare una libraria.

          Hinc, oblita modi, millesima pagina surgit
          Omnibus, et crescit multa damnosa papyro 9.

Cento volumi, di mille carte l’uno, figliuoli d’un solo ingegno, parti d’una sola penna, questo ne fa andare altieri e gonfj. E pure la gloria e la fama non si dà al numero, ma al peso de’ libri. Perchè quante volte in un fiume di parole non v’è una gocciola d’ingegno, e in un mar d’inchiostro non v’è una perla, e in una selva di carte non v’è un ramo d’oro? Tutta l’opera sia di cento volumi, potrà dire come l’Eco d’Ausonio:

          Aeris et linguæ sum filia, mater inanis
               Judicii, linguam quae sine mente gero.

Sì che miracolo di rara pazienza in chi legge è, se, gittando il libro, non dice all’Autore che lo scrisse quello di Marziale10:

                              Vis, garrule, quantum
          Accipis ut clames, accipere ut taceas?

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I libri, come diceva Domizio Pisone riferito da Plinio11, thesauros oportet esse, non libros. Ogni parola dovrebb’essere una perla, ogni carta un giojello: sì che chi legge, si facesse in un’ora ricco di quello, che noi abbiamo raccolto in dieci anni.

Ahi dove se’tu andata, preziosa usanza ed età fortunata, quando il mele delle scienze si metteva nelle cere, sopra le quali con uno stilo era costume di scrivere? Quanto più lento andava il ferro in iscolpirvi le parole, ritardandolo la tenacità della cera, tanto più vi si fermava sopra il pensiero, e le cose uscivano più esaminate. Ora le ci portan di volo le parole dalla mano e i pensieri dal capo; e quelle e questi tanto più leggieri, quanto meno pesati. Quel vantatore soldato del Comico12, che diceva,

          Ego hanc machæram mihi consolari volo,
          Ne lamentetur, neve animum despondeat;
          Quia jam pridem feriatam gestitem,

esprime vivamente il prurito, che molti hanno di scrivere, e scriver molto; quasi per consolare le loro penne, che si lamentano di star sl oziose ne’ calamai, senza sputare, in men che non l’ho detto, un libro.

Non è il molto quel che s’apprezza; è il buono. I libri sono come le Anime, la cui grandezza non si misura dalla mole del corpo, ma dalla nobiltà degli spiriti. E verissimo è l’aforismo del grande Agostino13: In iis, quæ non mole magna sunt, idem est esse majus, quod melius.

Sieno pur vasti di mole i sassi de’ monti; un diamante, che pur non è, disse Manilio14, senon punctum lapidis, tanto vince quelli in pregio, quanto essi lui avanzano in mole.

Se aveste a favellare ad un consesso di cento, i più ingegnosi, i più dotti del mondo, votereste loro negli orecchi ciò che vi corre su la lingua, senza scelta, senza ripulimento, e molte volte senza sostanza e senza ordine? o anzi non v’ingegnereste di parlare non solo rose, come [p. 104 modifica]anticamente dicevano, ma perle e oro? E voi non v’accorgete, che colle stampe parlate non a cento o a mille, ma a tutti i Savj del mondo, che voglion leggervi e udirvi? Dunque perchè non fate come Focione? che chiesto perchè si stesse una volta si profondamente pensoso, rispose, che, dovendo favellare in publico a gli Ateniesi, andava ricercando le parole ad una ad una tutte, ed esaminandole, per vedere se alcuna ve ne fosse, che tralasciar si dovesse. Laudato ingentia rura, disse il Poeta; exiguum colito. Onorate i volumi giganti d’altrui; ma non vi curate tanto d’imitarli nella mole, quanto di vincerli nel valore. Scrivete un solo buono, ma che vaglia per molti. Un solo, di cui possiate dire come Cerere della sua unica Figliuola:

Numeri damnum Proserpina pensat15.

2. L’altra origine dell’infelice successo de’libri è il prendere a trattar materia, a cui non si ha pari l’ingegno. M’è riuscito lo scrivere un’ottava o un’epigramma, e già mi par che mi chiamino i Poemi eroici e le Tragedie.

          Non ideo debet pelago se credere, si qua
          Audet in exiguo ludere cymba lacu16.

Che Ercole intraprenda la conquista de’ cieli, e voglia farli a forza suoi, non ha maraviglia. Già si provò con essi, e sa quanto pesano:

          Et posse coelum viribus vinci suis
          Didicit ferendo17.

Anche voi misurate le vostre spalle col peso; e dove potrete dire par oneri cervix, addossatevi la carica, e ne riuscirete. Prudentia hominis est, disse San Girolamo18, nosse mensuram suam, nec imperitiæ suæ orbem testem facere. Si dee unire Argo con Briareo; sì che non s’abbiano cento mani pronte allo scrivere, se non s’hanno ancora nell’intelletto cent’occhi aperti all’intendere. Un gran campo d’un nobile argomento non vi solletichi gli spiriti, sì, che la voglia di correrlo vi faccia dimenticare, che non avete ali nè forza per farlo. Abbassate le troppo [p. 105 modifica]ardite penne, che vi portano alla caduta più tosto che al volo; e fate

          Sì com’il Cicognin, che leva l’ala''
          Per voglia di volar; e non s’attenta
          D’abbandonar lo nido, e giù la cala19.

Ma di questo mi resta a favellarne in altra occasione più avanti.

3. La terza cagione del farsi più sconciature che parti è dal volerli per impazienza partorire prima d’averli compiutamente formati. Non si ode il precetto d’Orazio20:

          Nonumque prematur in annum.
          Membranis intus positis, delere licebit
          Quod non edideris. Nescit vox missa reverti.

Non è poi maraviglia, se funghi nati in un’ora marciscono in due; e riescono le nostre composizioni, diceva Platone, come que’ famosi Orti d’Adone, qui subito et die uno nati, celerrime pereunt.

Agatarco era un Pittore, a cui non bastavano tutte le tele di Grecia, tutti i colori d’Oriente. Compiva egli più velocemente i ritratti nelle sue tavole, che il Sole l’Iridi nelle nuvole. Ma che? Figure erano quelle, che appese in ogni vil luogo, e isposte senza riserbo, non viveano più che gli uomini seminati da Cadmo.

All’incontro Zeusi, che in partorir l’opere sue era più tardo degli Elefanti, e non dava botta di pennello, che non la richiamasse ad un eritico esame, meritò quell’eternità di gloria, a cui sola disse che dipingeva. I più savj uomini sono stati coll’opere de loro ingegni più severi. Il sapere che doveano essere non lette solo ma esaminate da uomini di gran sapere, gli faceva dire con Plinio giovane21: Nihil est curæ meæ satis. Cogito quam sit magnum dare aliquid in manus hominum; nec persuadere mihi possum non et cum multis et sæpe tractandum, quod placere et semper et omnibus cupias.

E tanto basti aver detto di quei, che mal forniti d’ingegno prendono a scrivere suggetti difficili oltre le forze del lor sapere. Or non debbo tralasciare certi altri, che [p. 106 modifica]male usando l’ingegno di che son ricchi, consumano sè e lo studio altrui intorno a certe inutili materie, quas neque scire compendium (disse Arnobio22), neque ignorare detrimentum est ullum.

Note

  1. Juven. sat. 7.
  2. Plin. in Præfat.
  3. Plin. in Præfat.
  4. Plin. l. 55.
  5. Epist. 66.
  6. Apolog.
  7. Oviedo, nelle Ist.
  8. Prooem. l. 4. in Luc.
  9. Juven, sat. 7.
  10. Lib. 9. Epigr. 50.
  11. In præf.
  12. Plaut. in Milite glor.
  13. Lib. 6. de Trin.
  14. Lib. 4. Astr.
  15. Claud.
  16. Ovid. 2. Trist.
  17. Seneca Herc. fur.
  18. Contra Vigil.
  19. Dante, Cant. 25. Purg.
  20. In arte.
  21. Lib. 7. Epist. Celeri.
  22. L. 3. cont. Gent.