Della moneta/Libro V/Capo III
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CAPO TERZO
della soddisfazione de’ debiti e de’ censi
Esame della questione intorno alla moneta con cui si hanno a pagare le somme convenute — La restituzione d’egual peso di metallo non è sempre l’equivalente — Non si può stipulare di non dover stare facto principis.
Chiunque riguarderá la brevitá del presente capo, avrá meraviglia nel conoscere come io in esso ragiono d’una non men antica che difficile e lunga questione: cioè con qual moneta s’abbiano a pagare i debiti, se con quella che ottiene lo stesso nome della giá stipulata, sebbene con disegual peso, o con quella che s’eguagli nella quantitá del metallo alla convenuta tra i contraenti. Cesserá lo stupore, considerando che la disputa è stata trattata da altri secondo le leggi positive de’ re, varie ne’ vari luoghi e nella serie de’ tempi: da altri secondo gl’insegnamenti della ragione e della naturale giustizia. Di tali maniere l’una non m’appartiene, l’altra non mi conviene. Discorrere sopra le varie leggi de’ principi intorno agli effetti della mutazione della moneta è opera piú degna de’ giurisconsulti che mia, e ad essi l’abbandono. Voler poi sapere ciò che la ragione insegni, mi farebbe vergogna, s’io mostrassi desiderarlo ed andarlo ricercando. L’alzamento della moneta è una violenza fatta alla natura, renduta dalle calamitá dello Stato necessaria, e si può in certo modo dire ch’essa sia un abuso di voci ed un inganno fatto sulle idee, per rendere al popolo piú soffribile il necessario pagamento de’ debiti del comune. Or qual lume di ragion naturale si vuol trovare lá dove è oppugnata e sovvertita la natura? Somiglianti ricerche non convengono se non a chi non conosce che sia l’alzamento.
Per altro il piú degli scrittori si lasciano condurre a dire d’esser conforme alla naturale giustízia la restituzione dello stesso peso, né essere tenuti i sudditi ad imitare il principe o ad obbedirgli. Ma, se essi credono che colla restituzione dello stesso peso di metallo si sostenga sempre quell’egualitá, ch’è l’anima de’ contratti, s’ingannano. L’esser il valore intrinseco della moneta quasi tanto variabile quanto l’estrinseco, distrugge ogni egualitá. Cosi nel nostro Regno, quando cento anni fa si fosse stipulato un mutuo di cento libbre d’argento, se oggi si restituiscono le cento libbre, non si rende l’equivalente, ma appena i due terzi del convenuto, perché oggi l’argento vale certamente un terzo meno d’allora, o sia, secondo la volgare espressione, le merci son incarite d’un terzo. Né si creda che ne’ baratti di cosa con cosa si possa trovare maggior egualitá, mentre in cento anni ogni cosa si muta nell’intrinseco suo prezzo. La popolazione e la rendita de’ feudi o cresce o manca; il prezzo delle pigioni, mutato il numero degli abitatori d’una cittá, si varia; variasi, secondo la varietá delle mode, de’ costumi e dell’arti, il prezzo de’ frutti d’un podere; ed infine tanta è la istabilitá delle umane cose, che in cento anni la stessa cosa non è piú la stessa nella stima e nel prezzo datole; e, se un’antica permutazione, giusta allora, dopo cento anni si riguarderá, vi si troverá sempre una enorme lesione. Il tempo fa ingiusto il giusto e tramuta il giusto in ingiusto; e perciò qual egualitá naturale si vuol trovar ne’ contratti? qual vana e ridicola conservazione ne’ censi? Se la mutazione del valore estrinseco della moneta non gli scema, l’abbondanza del metallo e la mutazione del prezzo interno lo fa.
Audace e sciocca è poi l’intrapresa de’ sudditi in voler contrarre di non aver a stare facto ptincipis intorno alle monete. La validitá de’ contratti nella vita civile non dipende da altri che dal sovrano. Or come si potrá ricorrere al principe, ché sostenga e faccia eseguire quello che contro al suo volere s’è convenuto? Ma dal non aver voluto i principi far leggi proprie e dall’aver permesso che i loro ministri venerassero come leggi le opinioni e le interpretazioni de’ sudditi stessi è venuta tanta confusione ed oscuritá nelle leggi e tanta insolenza ne’ popoli soggetti.