Della moneta/Libro V/Capo IV

Da Wikisource.
Capo IV - Del cambio e dell'agio

../Capo III ../Conclusione IncludiIntestazione 22 maggio 2018 75% Da definire

Capo IV - Del cambio e dell'agio
Libro V - Capo III Libro V - Conclusione

[p. 303 modifica]

CAPO QUARTO

del cambio, dell’agio


Cambio naturale — Cambio mercantile — Spiegazione della natura del cambio — Qual utilitá si possa ritrarre dall’avvertire alle mutazioni del cambio — Dell’agio e sua natura.

La voce «cambio» dinota ia permutazione d’una moneta con un’altra o presente o lontana; e, perché di queste mutazioni ve ne sono di molti generi, sono anche molti e di diversa natura i cambi, e tutti meritano particolare e distinta definizione. Si può imprima mutare una moneta, che si ha attualmente in mano (la quale io chiamo «presente»), con un’altra anche presente, che sia o di diverso metallo o di diverso principato. Si può inoltre mutare la presente colla lontana, o che sia d’una stessa spezie di moneta, o che non sia. E cosí di quattro cambi mi conviene far parola.

La mutazione delle monete d’un metallo con quelle d’un altro si fa tra noi da persone occupate a si fatto impiego e dette «bancherotti» o «cagnacaualli». La regola di questo cambio è non meno la proporzione del prezzo dalla legge dato alle monete che la proporzione dell’intrinseco valore de’ metalli preziosi, che sono nelle monete. Vi s’ha da aggiunger poi il piccolo guadagno del cambiatore, acciocché possa vivere e sostenersi. Infine s’ha riguardo alla maggior comoditá, che danno i metalli ricchi per lo trasporto, che non dá il rame: donde viene quello che tra noi si dice «alagio», corrottamente da «agio». [p. 304 modifica] che è un prezzo d’affezione dato alle preziose monete; tantocché chi le porta al cambiatore ne riceve il premio e l’alagio, lungi dal pagare alcuna cosa a lui per la sua pena. Potrá ad alcuno muover dubbio che il valor naturale contrario agli statuti del principe possa entrare a parte nel computo del valore di due monete, quando il cambio si fa da due sudditi d’uno stesso sovrano. Ma ella è cosa certa e veritá generale che chi domanda altrui ciò che non è dalle leggi ordinato, s’ei l’ottiene, è giusto che lo paghi. Cosí, non potendo la legge costringer alcuno a cambiare, o non si troverá chi cambi, o non si potrá dare una moneta men buona ed averne una buona, la quale liquefatta vaglia piú che non è stata pagata. Simile è il cambio tra monete di diverso principe, quantunque d’uno stesso metallo, solito darsi ne’ confini d’uno Stato, quando in uno non è dato corso alle monete dell’altro. La regola di esso è l’intrinseco valore, o sia la quantitá del metallo delle due monete; senza di che, l’uno Stato potrebbe talvolta asciugare tutta la moneta dell’altro. Questi cambi sono detti «naturali» o «puri» e talvolta anche «minuti».

Ma piú frequentemente è detta «cambio» la permutazione del danaro presente coll’assente, osia una cessione d’un credito che un uomo fa ad un altro, mediante un foglio, detto «lettera di cambio». Sicché il vero cambio mercantile suppone tre persone: un debitore, un creditore ed uno a cui è ceduto il credito. Quando delle tre persone non ve n’è di reali altro che due, il cambio diventa finto; e si fa o per esprimere un debito con lettera di cambio per godere delle prerogative che a queste carte obbligatorie ha concedute la legge, o si fa per nascondere un mutuo con usura, ed allora si dice «cambio secco».

Ritornando ora a discorrere sopra il vero cambio, primieramente è chiaro non potersi dar cambio senza credito: dunque quel luogo, ove sono molte e grosse offerte di lettere, conviene che sia creditore degli altri. A voler poi conoscere i principi e le cause donde viene la spessa mutazione del prezzo del cambio, o sia di quel soprappiú apparente aggiunto al peso [p. 305 modifica] eguale de’ due metalli presente o lontano (e che è detto anche assolutamente «cambio»), basta meditare sulla natura del cambio, e subito saranno manifeste. Il cambio è l’acquisto d’una somma di danaro in parte lontana, evitando il trasportarvelo, e si ottiene con farselo cedere da chi ve lo aveva: il che si dice «girare». Dunque tutto quel che si paga, a chi trae, di piú dell’equivalente peso di metallo, non ha da superare il prezzo del trasporto unito al prezzo di tutti i gradi di rischio, a’ quali è sottoposto il metallo trasportato, e non la cambiale. Ecco adunque l’ultimo limite del prezzo de’ cambi, oltre al quale non possono stabilmente e per lungo tempo stare, quando anche talvolta in un movimento improvviso l’avessero trapassato. Il termine giusto è quando col peso del buon metallo, che è nelle varie monete, si regola, ed è detto «cambio alla pari». Discende di sotto al pari alle volte per quelle ragioni stesse per cui una mercanzia avvilisce. Il prezzo vile è prodotto dalla folla de’ venditori e dalla premura di vendere. Cosí, quando in un luogo sono molti i crediti de’ mercanti, i quali abbiano premura di riavere il danaro, divenendo la cessione del credito piú vantaggiosa a chi la fa che a chi la riceve e sborsa il danaro contante, divengono le condizioni di utile a chi cambia, di perdita a chi trae. Dunque il cambio favorevole a’ banchieri nasce da povertá e decadenza d’uno Stato; e per contrario quanto egli è piú basso, tanto maggiori hanno ad esser i crediti d’un paese co’ suoi convicini; e questi crediti non potendo nascere se non da robe vendutevi, tanto si dimostra maggiore l’estrazione. E quindi è che il principe non ha da curare che si profitti ne’ cambi; sí perché lo Stato intiero non vi guadagna né vi perde, come quelli ch’escono dalla mano d’un suddito per entrare in quella d’un altro suddito; sí perché la loro bassezza, se duole a’ negozianti, non ha da rincrescere a chi ama la prosperitá d’uno Stato. E perciò quelli scrittori, che vi fanno molto strepito d’intorno, si dimostrano piú affezionati al traffico, stata forse la loro arte, che al bene de’ concittadini. E veramente i giudizi, che con tanta venerazione si ascoltano dagli uomini denarosi dati sulla moneta, sono simili a que’ d’un uomo, a [p. 306 modifica] cui, per avere nelle vaste paterne possessioni gran numero di piante e d’alberi fruttiferi, si proponessero a risolvere le dispute e i sentimenti sulla nutrizione delle piante e sulla loro interna struttura.

Ma, se non è degno de’ pensieri del sovrano il cambio in quanto causa di grandi cose, lo è pur troppo come effetto e segno de’ piú grandi accidenti, potendosi giustamente considerare come il polso del corpo civile della societá. Ma, per tastarlo bene, gli conviene aver due avvertenze: l’una di guardar sempre la totalitá de’ cambi del suo regno; l’altra di ricercare se per insensibili scoli ed aperture entra od esca il danaro effettivo, senza passare per lo giro de’ banchi. Quando uno Stato ha cambi alti con tutte le piazze mercantili, è male; ma, s’ei l’ha basso con una sola, s’ha poi da vedere come gli abbia questa colle altre tutte. Cosí chi nella piazza di Napoli non avvertisse al commercio che noi abbiamo colla Sicilia ed al denaro che di lá viene, forse s’ingannerebbe nel giudizio del nostro presente stato. In secondo luogo è cosa frequente che un paese, con tutta l’altezza sterminata de’ cambi, non s’impoverisca. Cosí avveniva a noi, quando il cambio con Roma era di ventidue ducati piú del centotrenta, che era il pari. Pareva dover noi restar presto esausti d’ogni moneta, e pure non si vedeva seguir tal effetto. N’era la cagione l’essere tra le province degli Abruzzi e lo Stato ecclesiastico un grandissimo traffico; tantocché, siccome le campagne romane dagli abruzzesi sono lavorate, cosí si può dire che Roma in gran parte sia dagli Abruzzi nutrita. Ogni contadino adunque, che ritornava nel Regno, conduceva seco qualche zecchino risparmiato; e cosí, senza lettere di cambio e senza che il rigurgito apparisse in sui banchi e nella piazza, il Regno si ristorava, e nella fiera di Foggia, ch’è quasi il nostro cuore, rientrava il danaro assorbito, a riconfortarlo.

Voglio qui terminare di dire del cambio, parendomi che l’internarmivi piú a dimostrare ogni sua circostanza non sia conforme all’istituto mio, che non riguarda l’istruzione degli uomini dediti a mercantare. Dirò del pari brevemente dell’agio, [p. 307 modifica] i! quale è quella disparitá ch’è tra una moneta e l’altra per causa di prezzo d’affezione. Cosí la moneta di banco di Venezia, essendo piú necessaria del contante al traffico e per la sicurezza stimata piú, è valutata con un agio, che la rende piú cara del contante. Chiamasi «agio» anche la differenza tra il contante e le carte obbligatorie, che hanno il loro prezzo intrinseco diminuito dal timore di vicino fallimento o di riduzioni. Questo era il traffico fatto in Francia su’ biglietti discreditati e che si fa da per tutto, ovunque corre moneta non buona e discreditata insieme colla buona, e ciascuno brama l’una e ricusa l’altra e con sua perdita se ne disfà.