Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni/Libro settimo/20. Continua

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[p. 84 modifica]20. Continua. — Lontani poi d’ogni affettazione come scrittori, e superiori in tutto a’ lor contemporanei italiani, furono i cultori di scienze materiali, Galileo [1564-1641], Torricelli [1608-1647], Viviani [1622-1703], Cassini [1625-1712], Redi [1626-1697], Malpighi [1628-1694], Magalotti [1637-1712], Vallisnieri [1661-1730]: ma grandissimo fra essi, motor di essi, anzi di tutto il progresso scientifico che si palesò a que’ tempi, Galileo. Attese nella prima gioventú alla musica, al disegno, alla poesia, alla medicina. Ma venuto per istudiar questa a Pisa, studiò matematiche; e nel 1589 ne fu eletto professore. Subito lasciò l’orme antiche, professò con novitá; e subito ne portò le [p. 85 modifica]pene solite, l’ira di coloro che non sanno o non voglion esser nuovi, l’invidia de’ mediocri che si paragonano da vicino. Intanto, come pur succede, era onorato da’ piú lontani. Chiamato a Padova, v’andava nel 1592 e vi rimaneva fino al 1610; in che pubblicava il Nuntius sidereus. Allora era richiamato a Pisa «senza obbligo di leggere né risiedere». Risiedé a Firenze principalmente, e come in corte al granduca. Egli avea trovate giá allora parecchie conseguenze ed applicazioni del moto del pendolo, il telescopio rifrattivo, i satelliti di Giove ed altre novitá; e con queste e con vari scritti erasi fatto seguace e confermatore del sistema di Copernico, pubblicato, del resto, fin dal 1543, e tollerato d’allora in poi dalla curia romana. Ma incominciò ora un frate a Firenze ad assalirlo; e in modo degno del secolo, bisticciando sul nome giá immortale, e sul testo sacro della Bibbia «Viri galilaei, quid statis adspicientes in coelum?». E qui è da confessare, il Galileo cadde in un errore, di che fu ripreso dal Sarpi contemporaneo suo, un error da grand’intelletto speculativo mal pratico degli uomini, quello di credere di poter con ragioni tolte da una serie di cognizioni e d’idee persuader coloro che sono tutto fuori di quella serie, e tutto dietro ad un’altra. Egli il primo cambiò «la questione fisica ed astronomica in teologica», egli forse discusse con superbia acquistata dai meriti contro a superbie immeritate; e queste, urtate, si sollevarono. Andò a Roma piú volte a spiegarsi, a spiegare; ne tornò via via con divieti piú urgenti di non sostenere il sistema. Egli il promise; e non so s’io dica che vi mancò nel 1632, quando stampò i suoi Dialoghi, posciaché li fece prima approvare a Roma. Ad ogni modo, l’approvazione non bastò; nuovi frati e non-frati gli si sollevarono contro; l’Inquisizione citò il vecchio poco men che settuagenario; egli v’andò, fu processato, sostenuto in casa al fiscale dell’inquisizione, esaminato, e, dicono alcuni, negano i piú, torturato. Finalmente fu condannato a ritrattarsi, ed alla prigionia; la quale gli fu mutata per grazia in confino, a casa dell’amico Piccolomini arcivescovo di Siena, e poi a Bellosguardo ed alla propria villa d’Arcetri. Ed ivi visse gli ultimi anni suoi; ivi perdé gli occhi [p. 86 modifica]nel 1637, e morí addí 8 gennaio 1641. Il processo di Galileo è brutto senza dubbio per li prelati che v’ebber parte; ma le carceri, i tormenti aggiuntivi sono gravi esagerazioni, e piú grave quella di attribuire alla Santa Sede l’opera dell’Inquisizione. Del resto, non rifarem noi l’errore di Galileo; lasceremo la questione teologica; e tenendoci alla politica, noteremo che quella persecuzione resta gran vergogna della corte che la mosse, di quella che la sofferse, di tutto il secolo in mezzo a cui si fece; e che se i due nomi di Tasso e Galileo bastano a dimostrare la perennitá, la varietá, la feconditá dell’ingegno italiano anche in secolo di massima decadenza, le due vite di que’ grandi bastano a dimostrar viceversa quanto fosse indegna di essi, discorde da essi la loro nazione in quel secolo. — E quindi si potrebbe argomentare a priori ed a fortiori, che questo non poté esser grande in quella filosofia spirituale che alcuni pretendono conformare le generazioni, ma che io crederei anzi per lo piú conformata dalle qualitá morali, intellettuali e religiose di esse. E restano poi le opere di que’ filosofi (molto vantati ai nostri dí, per vero dire, o per la smania di aggiungere alle incontrastate glorie nostre le contrastabili, ed ai grandi secoli nostri un secolo di piú, o talor per la smania peggiore di trovar grandi i nemici del cattolicismo), restano, dico, le opere di Vanini [1535-1619], Giordano Bruno [1550-1600], Campanella [1568-1639] e di Telesio [n. 1509], a dimostrare, che fu mediocre la filosofia spirituale italiana a que’ tempi; se pur mediocri si voglian concedere le filosofie ingegnose, acute, ardite ed anche in parte progressive, ma mal logiche, mal compiute, non consistenti in sé, non tetragone, non combinanti le proprie parti, e retrograde anzi in molte parti; le filosofie insomma che progrediscono andando allato ma non dentro la via della veritá. Del resto, non saremo noi a negare un grande benché mal promosso pensiero del Campanella. Povero frate in un convento ideò la liberazione d’Italia dagli spagnuoli. Lontano d’ogni pratica, fu un generoso sognatore.