Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni/Libro settimo/22. Gl'italiani fuor d'Italia

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22. Gl’italiani fuor d’Italia

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[p. 89 modifica]22. Gl’italiani fuor d’Italia. — Né lasceremo questi tempi senza fermarci a una gloria italiana giá antica, ma che si moltiplicò in essi senza paragone. Fu accennato da noi in altro scritto (ed era contemporaneamente, piú che accennato, fatto in gran parte dal Ricotti): una storia intiera, e magnifica, e peculiare all’Italia, sarebbe a fare degli italiani fuor d’Italia. Tutte le nazioni senza dubbio ebbero fuorusciti volontari o no: ma niuna cosí numerosi o cosí grandi come la nostra. Si potrebbe incominciare quella storia da Paolo Diacono, lo storico di sua gente caduta, in corte a Carlomagno; e continuar poi, non solamente con quegli oscuri e innominati mercatanti italiani che estesero l’industria e il commercio in tutta Europa e vi furon noti sotto nome di «lombardi», ma coi nomi di molte famiglie che cacciate dalle nostre discordie e nostre invidie repubblicane portarono fuori (in Avignone e Provenza principalmente) quei nomi giá illustri nella loro prima patria, diventati grandi alcuni nella seconda. E verrebbero insieme o poi i grandissimi nomi di Gregorio VII, Lanfranco, Pier Lombardo, sant’Anselmo, san Tommaso, san Bonaventura e Marco Polo; e quelli di tutti e tre i padri di nostra lingua, Dante, Petrarca e Boccaccio; e Cristina da Pizzano e il Poggio e l’Alciato; e il sommo Colombo, ed Amerigo, e i Cabotti, ed altri che portarono fuori l’operositá italiana, ai tempi che ella si potea sfogare addentro sotto l’ombra di quel che v’era d’indipendenza e di libertá. — Ma cadute queste, l’operositá italiana si portò, proruppe, si sfogò fuori in tutti i modi, in quasi tutti i paesi d’Europa. Guerrieri di terra e di mare, uomini di Stato e di Chiesa, artisti, scrittori, onorandi molti, miserandi quasi tutti, fecondarono di loro opere e di lor sangue le terre straniere. Due Strozzi, Piero [1510-1558] e Leone [-1554], fuggirono da’ Medici di Firenze e servirono Francia, dove il primo fu poi maresciallo, e il secondo grand’uomo di mare; ed ebbero e lasciarono numeroso séguito di [p. 90 modifica]parenti e compagni d’esiglio lá combattenti e soffrenti. Cosí Sampiero da Bastelica [1501-1567], due Ornani ed altri còrsi fuggenti pur in Francia la tirannia genovese. E cosí altrove altri capitani anche piú illustri, Emmanuel Filiberto ed Alessandro Farnese, de’ quali dicemmo, Ambrogio Spinola [1571-1630], il Medici marchese di Marignano [1555], Alfonso [1540-1591] ed Ottavio Piccolomini [1599-1656], il Montecuccoli [1608-1681], oltre una turba di guerrieri minori; cosí il Paciotto ed una turba d’ingegneri; cosí i Doria, gli Spinola ed una turba d’uomini di mare (genovesi principalmente) a servigio di parecchie potenze europee. Un Ferrante Sanseverino principe di Salerno passò d’uno in altro esilio fino a Costantinopoli, tornò in Francia, cantò le brame della patria in lingua propria e nella spagnuola; e la sua vedova accattava poi nella reggia francese onde alzargli una tomba. Un calabrese, fattosi frate e preso da’ turchi nell’andar a studio a Napoli, si fece turco, e sotto nome di Occhiali diventò famoso corsaro e pasciá, e combatté contro a’ cristiani a Lepanto; e, feroce schiumator di mare, scendea talora a rivedere le patrie marine e i genitori, mentre sue ciurme predavano all’intorno. Un conte Marsigli di Bologna [1658-1730] fu di vent’anni a Costantinopoli, militò per Austria sotto al Caprara, fu fatto prigione e schiavo de’ turchi, e dopo molte vicende ne fuggí; diresse la fonderia de’ cannoni in Vienna e vi fece sperimenti sulla forza della polvere, fece l’ingegnero, il diplomatico, il militare in mezza Europa, fu indegnamente (come pare) condannato da un Consiglio di guerra per la perdita di Brissac ove militava; e ritiratosi in Provenza, e finalmente in Bologna sua patria, finí coltivatore indefesso di lettere e scienze. — Del Mazzarino [1602-1661], povero prete calabrese salito in grazia di parecchi grandi, e finalmente di Richelieu, a cui succedé nella potenza di primo ministro di Francia, sono piene le storie. — E s’aggiunsero i fuorusciti cortigiani delle due Medici regine di Francia, e quelli tratti allo splendore di Luigi XIV, il Davila storico, i Mancini, i Concini, i Gondi, i Cassini astronomi, ed altri molti. E finalmente in Francia e Svizzera e Germania per causa di religione migrarono [p. 91 modifica]i Socini, i Sismondi, i Diodati, Telesio, Campanella, Radicati, Olimpio Morata, Celio secondo, Curione ed altri in folla; senza contar le dimore piú o meno protratte in Francia e Spagna di molti artisti nostri, Tiziano, Benvenuto Cellini, Primaticcio, Giovan da Udine ed altri quasi innumerevoli. Mirabile ingegno italiano che, chiusagli una via, ne sa trovar altre ed altre infinite; che, chiusagli la patria ad operare, opera fuori, cerca, trova campi in tutti i paesi, in tutte le colture! Che non farebbe, se trattenuto, fomentato, concitato insieme ed assodato in patria da quella indipendenza e quella libertá che son la somma o le sole buone tra le protezioni? La civiltá intiera troverebbe il conto suo ad apparecchiargli tal campo. Ma non è a pensarvi; gli stranieri non l’apparecchian mai, han troppo a fare a casa loro. A noi starebbe applicar tutto quell’ingegno nostro a tale apparecchio. Se non che, l’ingegno solo non basta a ciò. Ci vuol volontá e costanza e moderazione e devozione, tutte le facoltá, tutte le virtú dell’animo di tutti gli uomini; ma sopra tutte, quella del coraggio: dico il civile, il politico, il militare, tutti i coraggi. Diceva giá Danton, essere necessarie alle rivoluzioni tre virtú: audacia, audacia ed audacia. Ma egli parlava delle rivoluzioni diventate scellerate, come la sua. Nelle buone, l’audacia si traduce in coraggio, coraggio e coraggio. Chi non sa portar armi in mano, porti catene, e stia zitto.