Demetrio Pianelli/Parte prima/II

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II.


Io non conoscevo il signor Cesarino Pianelli che per averlo incontrato qualche volta sulle scale, e i nostri rapporti non andavano più in là del buon giorno e della buona sera, come avviene tra casigliani, che, tranne le scale, non hanno più nulla di comune.

Mi fece quindi molta meraviglia di vedermelo la sera del sabato grasso, verso le sette, comparire sull’uscio, vestito in grande abito nero da ballo, col suo paltò sul braccio, il gibus in mano, pallido pallido....

— Lei? In che posso servirla? Venga avanti — gli dissi, invitandolo a entrare.

— Due parole, grazie. Sento da mia moglie che questa sera va anche la signora Lucia alla festa....

— Sì, mia sorella mi ha tanto pregato....

— Volevo pregarla di accompagnare anche mia moglie. Un affare pressante non mi permetterà di tornare prima delle undici.

— S’immagini, volentieri: sarò lieto di essere il suo cavaliere. [p. 43 modifica]

Il Pianelli stette un momento sopra pensiero, come se agitasse in testa un’altra questione spinosa, poi soggiunse:

— Scusi tanto.... ci rivedremo — e, strettami la mano, se ne andò via come se fuggisse davanti a un pericolo.

Il Comitato ordinatore del Circolo non aveva guardato a spendere, o per dir meglio, a comandare, perchè la festina del sabato grasso riuscisse ancor più splendida e più allegra delle altre volte.

Tra i festoni d’edera che giravano lungo le pareti, sostenuti da borchie e da mascheroni di carta pesta dorata, pendevano dei piccoli lampadari di Venezia, illuminati da candele di cera.

Tra un lampadario e l’altro brillavano degli specchi in vecchie cornici rococò circondati da ghirigori di mussolina gialla. Sulla scala, sui pianerottoli e per la gran sala da ballo era stato disteso un tappeto nuovo che ammorbidiva i suoni e dava ai piedi un senso voluttuoso di benessere: e nei vani, nei rientri delle finestre non mancavano giardiniere di fiori freschi, con qualche statuetta di gesso o di terra cotta che ricordavano alla lontana qualche divinità dell’antico Olimpo, il tutto preso a nolo da un addobbatore di teatri. Ogni signora (le ragazze eran poche e non brillavano troppo per freschezza) [p. 44 modifica]riceveva all’entrare una bellissima camelia e un cartoncino bristol coll’elenco delle danze stampate in oro; e tra le signore ve n’erano di giovani, di fresche e di quelle che combattevano l’ultima battaglia, la Waterloo della loro giovinezza.

Nella sala il formicolìo della gente già verso le undici era grande. Nel rimescolamento dei colori vivi, tra i luccicori delle gemme, dell’oro, degli occhi, nell’agitarsi di tante spalle e di tanti ventagli, cresceva il cicalìo fitto e caldo, misto a scoppi di risa, a piccoli applausi e alle declamazioni aleardiane del Bianchi, che faceva la parte del brillante della compagnia.

Per quanto la folla fosse tenuta in soggezione da qualche illustre personaggio (tra cui spiccava la pancia del commendatore Malvano, capo-divisione al Ministero delle Finanze, colla rotonda metà, una baronessa napoletana), si sentiva d’essere a una festa di famiglia in cui gli elementi omogenei si fondevano volentieri e si aiutavano nell’unico sforzo di stare allegri.

C’era, per quel che mi ricordo, il Porti del Municipio colle sue eterne due ragazze, che da dodici anni trascina su tutte le feste e che hanno fatto un collo lungo, dicono i maligni, a furia di cercarsi un marito.

C’era il cavaliere Balzalotti, del Demanio, [p. 45 modifica]uomo già sulla cinquantina, ma ancora fresco e morbido come il burro, sempre amabile e cerimonioso colle signore, alle quali pagava volentieri qualche sorbetto. Gli era toccata la disgrazia e la fortuna di sposare una moglie brutta, sempre malata, ricca, che passava due terzi dell’anno in campagna; ed era naturale che cercasse qualche compenso nel vedere a ballare e nel pagare qualche sorbetto alle altre.

C’era la Pardina col suo Pardone, che questa volta s’era lasciato trascinare, che usciva per tre quarti dalle falde del frac. Stava in piedi per combattere il sonno tremendo che gli offuscava gli occhi, ma non vedeva l’ora d’esser sotto le coltri. C’era il ragioniere Quintina, un gobbetto elegante, terribile freddurista, che girava in mezzo alle gonne a far della maldicenza. Nè mancavano i giovinotti di spirito, tra cui il Casati, il Pensotti e molti altri del Club Alpino.

Tranne le poche commendatoresse, che soffiavano la prosopopea, le altre signore, quasi tutte milanesi, appartenevano al ceto medio degli stipendiati a mille e otto, a due mila, alcune delle quali avevano lasciato a casa una nidiata di ragazzi e il popò in letto colla nonna. Non c’era da meravigliarsi che vi fossero dei guanti lavati in mezzo a molti guanti freschi. [p. 46 modifica]

Quasi tutti gli uomini erano in frac, in guanti bianchi e cravatta bianca. Solamente qualche modesto commesso, che non aveva osato fare la spesa, cercava di stare colla schiena al muro in atto contrito e vergognoso, come a un merlo a cui abbiano strappata la coda.

Anca lú a Milan? — mi chiese la Pardina, passando via e battendomi il suo ventaglio di piume sul naso. Era a braccetto del celebre tenore Altamura, un romano di Roma, che aveva cantato al Dal Verme, nella stagione, il Trovatore con grande successo.

Il Miglioretti, dopo aver fatto un giro di valzer colla Pianelli, la condusse a posto, e infilato il mio braccio mi tirò verso la sala del buffet, asciugandosi il collo, le guance e la testa con due fazzoletti.

— Bella sì, ma di ghisa, e per di più balla fuori di tempo.

— E dire che si sta tanto bene seduti.

— È suo marito che vuole che balli, è lui che le insegna. Hai visto i leoni marini di mister Pike? Suo marito le insegna anche a parlare milanese, e ci riesce, povera foca. Ma di tanto in tanto le scappa di bocca ancora qualche «propri de bôn» di Melegnano, che guasta il meccanismo della bambola.

— Jesus, che lingua! bevi, avrai sete.... — dissi, versandogli dell’acqua in una tazza. [p. 47 modifica]

Mentre io e il Miglioretti si rideva in fondo alla sala del Caffè, vedemmo venire colla sua testa lucida e rasa e cogli occhi fuori della fronte il Bianchi, che ci domandò se avevamo trovato Cesarino Pianelli.

— Io l’ho visto — dissi.

— Quando?

— In prima sera.

— Che cosa ha detto?

— Niente.

— C’è in aria un guaio serio....

Il Bianchi abbassò un poco la voce e, appoggiata la punta del mento a tre dita della mano, socchiudendo gli occhi in atto di pia aspirazione, ripetè:

— Molto serio.

Fatto quindi un piccolo segno colla mano, ci trasse nel vano di una finestra presso una terrazza, che dava sulla piazza del Duomo.

— Un guaio serio?

— Ho trovato il Martini tutto disperato.

— Gli è morta la moglie....

— Pazienza la moglie! mi ha detto che contro il Pianelli è spiccato un mandato di arresto.

— Via, via! — esclamammo a una voce io e il Miglioretti.

Il Bianchi, che col marmo della sua bella fronte rispecchiava i lumi della sala, allungò il collo, nascose le mani sotto la coda [p. 48 modifica]della falda, girò la testa nell’aria come un bruco che va al bosco e disse cogli occhi chiusi:

— Io l’ho detto che quel figliuolo doveva finire così.... Si tratta di sottrazione con falso in scrittura.

— Diavolo! — esclamammo a una voce.

— Io non credo il Pianelli un ragazzo capace di una cattiva azione, ma sono le necessità che spingono l’uomo ad approfittare delle circostanze. Il Pianelli ha perduto questi denari al giuoco e, siccome è già pieno di debiti fin sopra i capelli, pagò il debito di giuoco coi nostri denari. Visto che si cominciava a dubitare di lui, comprò la nostra fiducia coi denari dell’ufficio, e tutto ciò sempre nella speranza di guadagnar tempo e di trovare un santo protettore. Ma buco via buco fa buco — dice l’abbaco — e a furia di scavare la terra per turarli i buchi, la terra ti manca sotto i piedi.... Povero diavolo, ha moglie e figliuoli....

— E non c’è nessun mezzo d’aiutarlo?

— Aveva promesso di portare il denaro per stasera, ma ormai è la mezzanotte e non si vede comparire. Il Martini a buon conto ha riferito tutto al capo d’ufficio e il documento è adesso in mano al procuratore del re.

— Ma come ha fatto?

— Eh, come ha fatto.... — disse il [p. 49 modifica]Bianchi, ritirando nelle spalle la testa. — Si fa presto a dirlo.... Quando si vuol fare il lord senza averne, mandare in lusso la moglie, pigliarsi tutti i capricci, darsi le arie di principe, non ascoltar pareri da nessuno, fare il passo più lungo della gamba....

— Zitto....

Toccammo il predicatore in fretta col gomito per farlo tacere. Cesarino Pianelli, pallido come uno spettro, nel suo elegante vestito nero entrava in quel momento col passo legato del sonnambulo.

L’orchestrina cominciò il gioioso valzer di Strauss: «Vino, donna e canto».

Cesarino, uscito dall’ufficio, dopo il vivo colloquio col Martini, non aveva perduto tempo in tutto il venerdì. Saltò nel tram di Porta Romana e di là arrivò a prendere quello di Melegnano per correre in cerca del signor Isidoro Chiesa, suo suocero, che gli doveva ancora, dopo dieci anni, gli interessi della dote di Beatrice.

Il signor Isidoro era una volta uno dei più clamorosi affittaiuoli del Lodigiano, ma da molti anni non viveva che di reminiscenze.

Grande e solenne declamatore delle sue abilità tecniche, chiacchierone terribile, persuaso che al mondo non c’era uomo più furbo di lui, colla testa sempre piena e calda di [p. 50 modifica]progetti e di riforme, aveva trovato in Cesarino Pianelli il genero del suo cuore.

Una certa somiglianza di carattere e di tendenze impediva a ciascuno di loro di conoscere i difetti dell’altro, come capiterebbe a due trombettieri sulla fiera, che, suonando l’uno troppo vicino all’altro, l’uno non sente le stonature dell’altro.

Questi due uomini avevano una stima illimitata dei loro ingegni e nel conseguimento dello scopo comune si aiutavano in una maniera mirabile a rovinarsi. Da un pezzo in qua vivevano prestandosi a vicenda una grande opinione, con cui cercavano di fare ancora una certa figura nel mondo, come due spiantati che hanno in due un solo vestito di gala, che si prestano nelle grandi circostanze.

Il signor Isidoro, quando vide Cesarino scendere dal tram, gli andò incontro coll’allegria del cane che rivede il padrone. L’avvocato Ferriani gli aveva scritto che per continuare una certa causa di cui Cesarino era informato, occorrevano almeno settecento lire: e Cesarino le aveva promesse qualche mese prima. Il buon suocero credette in coscienza che venisse a portarle.... Del telegramma non parlò neppure.

Si può immaginare se il loro colloquio fu consolante. Cesarino, irritato, nervoso, uscì in parole, che volevano quasi dire che il [p. 51 modifica]signor Isidoro Chiesa l’aveva imbrogliato. E il signor Isidoro rimproverava alla sua volta il genero d’aver mancato di parola e quasi voleva essere rimborsato delle spese fatte sulla sua promessa.

Si lasciarono col veleno negli occhi.

Tornato in città, il Pianelli saltò nella prima vettura che gli capitò davanti e si fece condurre a casa del Martini. Non lo trovò nè a casa nè alla Posta. Allora, temendo che Beatrice cominciasse a pensar male, rientrò a casa sua a pranzo, un po’ tardi, e inventò delle scuse. Mangiò poco e sempre sopra pensieri. Dormì poco e agitato tutta la notte, ma sicuro in cuor suo che un migliaio di lire si trovano subito in Milano, basta a cercarle. Venne il mezzodì, vennero le due del sabato. Aveva pregato tre o quattro amici, inutilmente. Tutti erano dolentissimi, ma si sa gl’impegni...., le spese, gli anni cattivi.... Una volta si spinse fino al Ponte de’ Fabbri nella speranza di trovare il Pardi per via e toccargli il cuore, ma, non sentendosi il coraggio di salire su in fabbrica, andò a riflettere nella solitudine dei bastioni.

Solo, col capo basso, col passo molle dell’uomo che va a spasso, più irritato che triste, sotto i nudi ippocastani ancora rattrappiti dal freddo, Cesarino lanciava di tempo in tempo un’occhiata sdegnosa sulla città, sua grande [p. 52 modifica]creditrice, che si distendeva col suo anfiteatro di case, di cupole, di campanili raccolta intorno al gran fantasma del Duomo, al di là degli orti, nel chiaro sfondo d’un bellissimo cielo di marzo.

Aveva scritto al Martini, per invocare altre ventiquattro ore, ma il tempo passava senza profitto.

Per un migliaio di lire un uomo, che in un anno ne contava a milioni, un Cesarino Pianelli, conosciuto come la bettonica, era costretto a stendere la mano come se cercasse la carità. Vergogna!

Provava in fondo al cuore un amaro corruccio e, sto per dire, un senso d’odio contro il Pardi, il Martini, il suocero, gli amici del Circolo che, senza accorgersi, egli accusava come gli autori principali della sua rovina.

Era quasi giunto presso l’Ospedale dei Cronici, in un luogo del bastione umido e malinconico come la febbre, quando fu scosso dai suoi pensieri da un disperato gridare e vide passare un carro di contadini addobbato d’un lurido lenzuolo, con una bandiera trecolori in alto, pieno di villani in maschera, che col viso tinto e con delle scope in mano strillavano la loro goffa allegria. Allora si ricordò ch’era il sabato grasso.

Quei poveri gonzi, passando e traballando [p. 53 modifica]sul loro carro rustico, lo salutarono col segno di chi invita a mangiar i gnocchi, e lo invitarono ad andare con loro al corso di gala.

Lord Cosmetico avrebbe per un giorno cambiata volentieri la sua sorte con loro. Sentì suonare le due e mezzo all’orologio dell’Ospedale. In quella triste Rotonda c’era forse qualche malato che non avrebbe nella sua miseria cambiata la sua sorte con lui. Nel suo pensiero il signor Cesarino si paragonava a questo e a quello con un senso d’invidia, che aveva qualche cosa di nuovo e di cruccioso nel suo cuore.

Eppure, perseverando nell’opinione che un Cesarino Pianelli non sarebbe affogato in un bicchier d’acqua, gli pareva di sentirsi ancora della forza in riserva. Egli poteva transigere una volta coi puntigli personali e andare in cerca di suo fratello Demetrio, col quale era in discordia da dieci o dodici anni per vecchie ragioni d’interesse. Poteva anche cercare di un suo zio canonico del Duomo.

Seguendo il filo invisibile dei suoi pensieri, venne per le strade spopolate di San Barnaba e dell’ospedale, passò il Naviglio al ponte di legno e si lasciò condurre fino a San Clemente, dove da molti anni il suo fratello Demetrio, un orso della Bassa, abitava tre stanzette sopra le tegole nella casa dei Mazzoleni. [p. 54 modifica]

La portinaia gli disse che il signor Demetrio era ancora alle Cascine Boazze per fuggire i rumori del sabato grasso. Combinazioni! Le Cascine Boazze sono quasi sulla strada tra Milano e Melegnano, e Cesarino v’era passato davanti il giorno prima.

Si fermò sulla porta a pensare se doveva riprendere il tram e tornare indietro.

In faccia sorgeva il bigio e grave palazzo arcivescovile dove abitava lo zio canonico, uomo rigoroso e papista, il quale non aveva mai voluto riconoscere un nipote mezzo repubblicano, mezzo framassone, che leggeva il Secolo, non andava a messa e faceva battezzare i figliuoli più per rispetto umano che per convinzione. Cesarino si fece coraggio.

Entrò nel silenzioso cortile dell’Arcivescovado, che nel suo profondo e squallido raccoglimento faceva uno strano contrasto colla colorita baldoria che rumoreggiava sul corso, di cui arrivavano le voci come onde morte che morivano contro le livide pareti. Chiese al portinaio del canonico Pianelli e gli fu indicato un uscio in fondo al portico a destra, dietro le due gigantesche statue di Aronne e di Mosè, bianchi e solitari abitatori di quel morto recinto.

Sonò un campanello davanti all’uscio che gli fu indicato e venne ad aprire una donna di servizio. [p. 55 modifica]

— Monsignore?

— È malato.... — rispose sottovoce la donna, riempiendo il vano dell’uscio colla sua persona per paura che il seccatore si facesse avanti.

— Non si potrebbe parlargli?

— Impossibile, gli hanno messo un senapismo.

— Si tratta.... Son suo nipote Cesarino....

— Proverò.

La donna richiuse l’uscio in faccia al signor nipote, che rimasto solo sentì quasi entrare nell’anima quello sgomento fuggevole e quella compunzione fredda che lo assaliva da ragazzo le prime volte che la mamma l’aveva condotto a confessarsi.

Al di là di quei muri umidi e massicci, che conservano quasi un senso corrucciato dell’antico splendore, sentiva il frastuono del carnevale e in mezzo agli strilli il dolore acuto, spaventevole, dei conti da rendere.

— Ha detto che oggi non può ricevere.... — venne a dire la Ludovica, che camminava senza far rumore.

— I preti son sempre preti! — mormorò fra i denti Cesarino avviandosi verso la piazza. A chi poteva ricorrere? Non al Bianchi, non al Miglioretti, poveri diavoli, che stentavano a finire il loro mese. Pensò un momento al cavaliere Balzalotti, un vecchio e [p. 56 modifica]assiduo adoratore platonico di Beatrice. Se Cesarino fosse stato un marito come se ne dànno.... oh, non avrebbe stentato a trovare un migliaio di lire!

Col cuore schiacciato si lasciò attirare dal baccanale, che rumoreggiava sul Corso al di là del Duomo e di cui vedeva il flusso e riflusso, i carri e i colori al di sopra della calca nera agglomerata, pigiata sotto i balconi pieni di ragazze, di mascherine.

Sentì il bisogno di cacciarsi anche lui nella folla per riposare un istante dal suo pensiero tormentoso, pungente, e giunse nel fitto della gente nel momento che una mascherata di cuochi versava da un’immensa cazzeruola grossi mestoloni di una polvere gialla, che voleva essere risotto.

La mascherata era bella, ricca, brillante e suscitò un cà del diavolo nel crocevia tra il Campo Santo, il Corso e Santa Radegonda.

Dalle finestre, dai balconi decorati di tappeti e di fiori, le mascherine, le damine avvolte nei bigi cappucci strillavano come spiritelli dannati, lottando furiosamente a colpi di coriandoli, di gettoni, di confetti.

La folla si agitava come l’acqua del mare in tempesta in mezzo agli scogli....

Cesarino, alzando gli occhi a un balcone d’angolo sopra la pasticceria Baj, riconobbe anche al di sotto della mezza mascherina [p. 57 modifica]la Pardi, la più magra delle donne, che strillava dentro un cappuccio colla furia di un folletto, agitando le braccia come due bastoni di scherma.

Si fermò a guardarla. Egli aveva troppo offesa quella donna ambiziosa, di cui avrebbe potuto essere un fortunato adoratore, come pretendeva d’esserlo ogni buon corrispondente della ditta Pardi e C.

Egli l’aveva offesa col panegirico non richiesto della sua felicità domestica e con una satira non dimenticata sulle donne magre. Il buon Cesarino soffriva oggi le conseguenze d’essere stato troppo onesto amico del signor Melchisedecco.... Così va il mondo.

Risalendo la corrente, gli riuscì di portarsi fin verso i portici della Galleria, e di salvare le costole nella bottega del Campari. Si rifugiò in un angolo del Caffè, accese una sigaretta e ingoiato in fretta un assenzio, rimase a osservare tranquillamente la folla dei pazzi che farneticavano negli ultimi palpiti del carnevale, tranquillo e freddo in apparenza, come soleva fare qualche volta al bigliardo quando la fortuna gli era nemica. Egli lasciava vincere la fortuna, ma si riservava di rifarsene in fine con un colpo maestro.

Seduto davanti a lui, quasi nel mezzo del Caffè, solitario e raccolto come un filosofo, [p. 58 modifica]il signor Guerrini, detto il Bòtola, leggeva l’articolo di fondo della Perseveranza, sillabando colle labbra le parole e movendo la testa ad ogni principio di riga.

Era un omaccio di mezza età, corto di gambe, rotondo, paffuto, con due liste di barba nera che gli cascavano in bocca. Vestiva come un modesto padre di famiglia, che per economia porti i calzoni non troppo lunghi e un cilindro vecchio e lavato per risparmiare il pane dei suoi figliuoli.

Cesarino tirò uno sgabello vicino al noto usuraio e cominciò un discorso sottovoce, che il buon uomo aveva poca voglia di ascoltare.

— Ma lei vuole il pegno in mano e l’uomo in prigione — disse con dispetto una volta Cesarino.

— Io non voglio niente, caro lei. È lei che vuole. Cerchi una garanzia.

— Quando voglio impiccarmi spendo meno.

— Questo è vero — soggiunse il Bòtola senza cessare di leggere il suo giornale.

Il corso era sul finire. All’imbrunire uscirono i primi lumi dalle botteghe e nella profondità della via Torino verso il Carrobio, si vedevano discendere a poco a poco le fiammelle dei lampioni. Seguendo la fiumana della gente che rincasava, Cesarino si lasciò trascinare anche lui verso casa in mezzo al frastuono dei matti, dei carri, delle trombette, [p. 59 modifica]tra banchetti e botteghe e bazar illuminati, pieni di maschere ridenti e costumi di pagliacci. Milano, che gridava, strillava, che si preparava all’orgia delle cene e dei veglioni, non aveva un migliaio di lire per salvare dalla vergogna un povero padre di famiglia.

Con tutto questo Cesarino non si arrendeva. Sperava di trovare al Circolo in principio di sera un’anima meno avara: o di commuovere il Pardi, o sua moglie, o almeno il Martini, ottenendo un altro giorno di respiro.

A casa figurarsi se Beatrice ebbe il tempo di badare a lui! L’Elisa, la signora Grissini, Arabella se l’erano pigliata in mezzo e aiutavano a vestirla, come si veste la madonna. I maschietti erano andati col Ferruccio della portinaia al teatrino d’un oratorio.

Cesarino si vestì in gala, uscì subito, con un pretesto, raccomandò di nuovo a noi sua moglie, portò un biglietto a casa di Buffoletti, che stava laggiù alle Grazie: tornò indietro in cerca del Martini, che era già partito da Milano, venne una volta verso le nove al Circolo, tornò una seconda volta a mezzanotte....

Il servitore d’anticamera gli consegnò un bigliettino del Martini che diceva:

«Ho aspettato fino alle nove. Consegno tutto al commendatore. Si giustifichi con lui.»

Lord Cosmetico era spacciato.