Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio/Libro secondo/Capitolo 13

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Libro secondo

Capitolo 13

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Che si viene di bassa a gran fortuna
più con la fraude; che con la forza.

Io stimo essere cosa verissima che rado, o non mai, intervenga che gli uomini di piccola fortuna venghino a gradi grandi, sanza la forza e sanza la fraude; pure che quel grado al quale altri è pervenuto non li sia o donato o lasciato per eredità. Né credo si truovi mai che la forza sola basti, ma si troverrà bene che la fraude sola basterà: come chiaro vedrà colui che leggerà la vita di Filippo di Macedonia, quella di Agatocle siciliano, e di molti altri simili, che d’infima ovvero di bassa fortuna, sono pervenuti o a regno o a imperii grandissimi. Mostra Senofonte, nella sua vita di Ciro, questa necessità dello ingannare, considerato che la prima ispedizione che fe’ fare a Ciro contro al re di Armenia è piena di fraude, e come con inganno, e non con forza, gli fe’ occupare il suo regno; e non conchiude altro, per tale azione, se non che a un principe che voglia fare gran cose, è necessario imparare a ingannare. Fegli ingannare, oltra di questo, Ciassare, re de’ Medii, suo zio materno, in più modi; sanza la quale fraude mostra che Ciro non poteva pervenire a quella grandezza che venne. Né credo che si truovi mai alcuno, costituto in bassa fortuna, pervenuto a grande imperio solo con la forza aperta ed ingenuamente, ma sì bene solo con la fraude: come fece Giovan Galeazzo per tôrre lo stato e lo imperio di Lombardia a messer Bernabò suo zio. E quel che sono necessitati fare i principi ne’ principii degli augumenti loro, sono ancora necessitate a fare le republiche, infino che le siano diventate potenti, e che basti la forza sola. E perché Roma tenne in ogni parte, o per sorte o per elezione, tutti i modi necessari a venire a grandezza, non mancò ancora di questo. Né poté usare, nel principio, il maggiore inganno, che pigliare il modo, discorso di sopra da noi, di farsi compagni; perché sotto questo nome se gli fece servi: come furono i Latini, ed altri popoli a lo intorno. Perché prima si valse dell’armi loro in domare i popoli convicini, e pigliare la riputazione dello stato; dipoi, domatogli, venne in tanto augumento, che la poteva battere ciascuno. Ed i Latini non si avvidono mai, di essere al tutto servi, se non poi che vidono dare due rotte ai Sanniti, e constrettigli ad accordo. La quale vittoria, come ella accrebbe gran riputazione ai Romani co’ principi longinqui, che mediante quella sentirono il nome romano, e non l’armi, così generò invidia e sospetto in quelli che vedevano e sentivano l’armi, intra i quali furono i Latini. E tanto poté questa invidia e questo timore, che non solo i Latini ma le colonie che essi avevano in Lazio, insieme con i Campani, stati poco innanzi difesi, congiurarono contro a il nome romano. E mossono questa guerra i Latini nel modo che si dice di sopra che si muovono la maggior parte delle guerre, assaltando non i Romani, ma difendendo i Sidicini contro ai Sanniti; a’ quali i Sanniti facevano guerra con licenza de’ Romani. E che sia vero che i Latini si movessono per avere conosciuto questo inganno, lo dimostra Tito Livio nella bocca di Annio Setino pretore latino, il quale nel concilio loro disse queste parole: «Nam si etiam nunc sub umbra foederis aequi servitutem pati possumus etc.». Vedesi pertanto i Romani ne’ primi augumenti loro non essere mancati etiam della fraude; la quale fu sempre necessaria a usare a coloro che di piccoli principii vogliono a sublimi gradi salire: la quale è meno vituperabile quanto è più coperta, come fu questa de’ Romani