Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (1824)/Libro terzo/Capitolo 37

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Libro terzo

Capitolo 37

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Se le piccole battaglie
innanzi alla giornata sono necessarie;
e come si debbe fare a conoscere
uno inimico nuovo,
volendo fuggire quelle.

E’ pare che nelle azioni degli uomini, come altra volta abbiamo discorso, si truovi, oltre alle altre difficultà, nel volere condurre la cosa alla sua perfezione, che sempre propinquo al bene sia qualche male, il quale con quel bene sì facilmente nasca che pare impossibile potere mancare dell’uno, volendo l’altro. E questo si vede in tutte le cose che gli uomini operano. E però si acquista il bene con difficultà, se dalla fortuna tu non se’ aiutato in modo, che ella con la sua forza vinca questo ordinario e naturale inconveniente. Di questo mi ha fatto ricordare la zuffa di Manlio e del Francioso, dove Tito Livio dice: «Tanti ea dimicatio ad universi belli eventum momenti fuit, ut Gallorum exercitus, relictis trepide Castris, in Tiburtem agrum mox in Campaniam transierit». Perché io considero, dall’uno canto, che uno buono capitano debbe fuggire, al tutto, di operare alcuna cosa, che, [p. 213 modifica]cosa, ch’essendo di poco momento, possa fare cattivi effetti nel suo esercito: perchè cominciare una zuffa dove non si operino tutte le forze e vi si arrischi tutta la fortuna, è cosa al tutto temeraria; come io dissi di sopra, quando io dannai il guardare de’ passi.

Dall’altra parte, io considero come i capitani savi, quando vengono allo incontro d’uno nuovo nimico, e ch’e’ sia riputato, ei sono necessitati, prima che venghino alla giornata, fare provare, con leggieri zuffe, ai loro soldati, tali nimici; acciocchè, cominciandogli a conoscere e maneggiare, perdino quel terrore che la fama e la riputazione aveva dato loro. E questa parte in uno capitano è importantissima; perchè ella ha in sè quasi una necessità che ti costringe a farla, parendoti andare ad una manifesta perdita, sanza avere prima fatto, con piccole isperienze, di tôrre ai tuoi soldati quello terrore che la riputazione del nimico aveva messo negli animi loro.

Fu Valerio Corvino mandato dai Romani con gli eserciti contro ai Sanniti nuovi inimici, e che per lo addietro mai non avevano provate l’armi l’uno dell’altro, dove dice Tito Livio, che Valerio fece fare ai Romani con i Sanniti alcune leggieri zuffe «ne eos novum bellum, ne novus hostis terreret». Nondimeno è pericolo gravissimo, che, restando i tuoi soldati in quelle battaglie vinti, la paura e la viltà non cresca loro, e ne conseguitino contrari effetti a’ disegni tuoi: cioè, che tu gli sbigottisca, avendo disegnato di assicurargli: tanto che questa è una di quelle cose che [p. 214 modifica]ha il male sì propinquo al bene, e tanto sono congiunti insieme, che gli è facil cosa prendere l’uno, credendo pigliare l’altro. Sopra che io dico, che uno buono capitano debbe osservare con ogni diligenza, che non surga alcuna cosa che per alcuno accidente possa torre l’animo allo esercito suo. Quello che gli può torre l’animo è cominciare a perdere; e però si debbe guardare dalle zuffe piccole, e non le permettere se non con grandissimo vantaggio, e con speranza di certa vittoria: non debbe fare imprese di guardare passi, dove non possa tenere tutto lo esercito suo: non debbe guardare terre, se non quelle che, perdendole, di necessità ne seguisse la rovina sua; e quelle che guarda, ordinarsi in modo, e con le guardie di esse e con lo esercito, che, trattandosi della ispugnazione di esse, ei possa adoperare tutte le forze sue; l’altre debbe lasciare indifese. Perchè ogni volta che si perde una cosa che si abbandoni, e lo esercito sia ancora insieme, non si perde la riputazione della guerra nè la speranza del vincerla: ma quando si perde una cosa che tu hai disegnata difendere, e ciascuno crede che tu la difenda, allora è il danno e la perdita; ed hai quasi, come i Franciosi, con una cosa di piccolo momento perduta la guerra.

Filippo di Macedonia, padre di Perse, uomo militare e di gran condizione ne’ tempi suoi, essendo assaltato dai Romani, assai de’ suoi paesi, i quali elli giudicava non potere guardare, abbandonò e guastò: come quello che, per essere prudente, giudicava [p. 215 modifica]più pernizioso perdere la riputazione col non potere difendere quello che si metteva a difendere, che, lasciandolo in preda al nimico perderlo come cosa negletta. I Romani, quando dopo la rotta di Canne le cose loro erano afflitte, negarono a molti loro raccomandati e sudditi gli aiuti, commettendo loro che si difendessono il meglio potessono. I quali partiti sono migliori assai, che pigliare difese e poi non le difendere: perchè in questo partito si perde amici e forze; in quello, amici solo. Ma tornando alle piccole zuffe, dico che, se pure uno capitano è costretto per la novità del nimico fare qualche zuffa, debbe farla con tanto suo vantaggio, che non vi sia alcuno pericolo di perderla: o veramente fare come Mario (il che è migliore partito), il quale, andando contro a’ Cimbri, popoli ferocissimi, che venivano a predare Italia, e venendo con uno spavento grande per la ferocità e moltitudine loro, e per avere di già vinto uno esercito romano, giudicò Mario essere necessario, innanzi che venisse alla zuffa, operare alcuna cosa per la quale lo esercito suo deponesse quel terrore che la paura del nimico gli aveva dato; e, come prudentissimo capitano, più che una volta collocò lo esercito suo in luogo donde i Cimbri con lo esercito loro dovessono passare. E così, dentro alle fortezze del suo campo, volle che i suoi soldati gli vedessono, ed assuefacessono li occhi alla vista di quello nimico; acciocchè, vedendo una moltitudine inordinata, piena d’impe[p. 216 modifica]inutili, e parte disarmati, si rassicurassono, e diventassono desiderosi della zuffa. Il quale partito, come fu da Mario saviamente preso, così dagli altri debbe essere diligentemente imitato, per non incorrere in quelli pericoli che io dico disopra, e non avere a fare come i Franciosi, «qui ob rem parvi ponderis trepidi, in Tiburtem agrum et in Campaniam transierunt». E perché noi abbiamo allegato in questo discorso Valerio Corvino, voglio, mediante le parole sue, nel seguente capitolo, come debbe essere fatto uno capitano, dimostrare.