Dizionario mitologico ad uso di giovanetti/Mitologia/G

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Galantide, cameriera di Alcmena. Mentre questa principessa era ne’ dolori del parto, ritardato dalla gelosa Giunone, Galantide osservò una donna vecchia seduta presso la porta del palazzo, la quale teneva le mani strettamente unite sulle ginocchia: era ella la stessa Giunone travestita in quella guisa. Galantide difatti sospettò di qualche artifizio di questa gelosa Dea, che con tale positura cercasse d’impedire il parto di Alcmcna; e per disruggerne l’effetto, disse a quella vecchia con aria di allegrezza che Alcmena erasi già sgravata di un bambino. A questa novella, Giunone Lucina avendo prestata fede, disciolse le mani e si alzò, ed Alcmena sul momento partorì, Galantide allora crosciò di risa. La Dea offesa di vedersi così burlata da una schiava, la prese pei capelli, la stramazzò, e la trasformò in donnola. I Tebani adoravano questo animaletto, per aver agevolato il parto di Alcmena.

Galatea, una delle Nereidi, amata da Polifemo e da Aci, ma ella preferì questo giovine e vago pastore al brutto Ciclope, il quale irritato di tal preferenza, lanciò uno smisurato scoglio sopra Aci, e lo schiacciò, Galatea ne sentì tanto dolore che si gittò nel mare, e si uni alle Nereidi sue sorelle.

Galli, sacerdoti di Cibele, così appellati dal fiume Gallo, la cui acqua li rendeva furiosi. Essi castravansi, e celebravano con una specie di frenesia la festa di Ati, ch’era stato amato da questa Dea. [p. 144 modifica]Ganimede, figlio di Tros, ovvero Troo, re di Troia. Egli era sì ben formato che Giove lo destinò suo coppiere invece di Ebe. Mentre egli un giorno era alla caccia sul monte Ida, Giove, sotto la forma di un aquila, lo rapì e trasportò nell’Olimpo, e lo collocò nel Zodiaco sotto il nome di Acquario. I poeti suppongono, che Ganimede dopo quel tempo continuò a fare il coppiere di Giove nel Cielo.

Genio, Dio della natura, adorato come una divinità che dava l’essere ed il moto a tutte le cose. Sopratutto era considerato come l’autore delle sensazioni piacevoli e voluttuose; dond’è venuta la espressione genio indulgere, darsi buon tempo. Gl’imperi, le provincie, le città, e i luoghi particolari avevano i loro geni tutelari, e ciascun’uomo aveva il suo. Si è anzi preteso da taluni che gli uomini ne avevano due, uno buono, che inducevali al nene oprare, ed un cattivo che loro inspirava il male. Ciascuno nel giorno della sua nascita sagrificava al suo Genio. Gli si offriva vino, fiori, incenso; ed era vietato di spargerai sangue in questa sorte di sagrifizj. Il Genio buono è rappresentato sotto figura di un giovine nudo, coronato di fiori, tenendo in mano il corno dell’abbondanza. Eragli consagrato il platano. Fig. 36. Il Genio cattivo dipingevasi come un vecchio con una lunga barba, capelli corti, con un gufo in mano, uccello di cattivo augurio. Fig. 37.

Gerione, figlio di Crisaore e di Calliroe re di Eritia, il più forte di tutti gli uomini. I poeti ne han fatto un gigante con tre corpi, che fu ucciso da Ercole, perché nutriva di carne umana alcuni buoi, i quali erano [p. 145 modifica]custoditi da un cane a tre teste, da un dragone a sette. Ercole uccise questi mostri e menò seco i buoi.

Giacinto, figlio di Amicle e di Diomede, e secondo Apollodoro, di Piero e di Clio, amato molto da Apollo. Zefiro (o Borea), che anche lo amava, accortosi della sua inclinazione per lo Dio, ne sentì gelosia, e per vendicarsi di tal preferenza, un giorno che Apollo giuocava al disco con Giacinto, Zefiro spinse violentemente la piastrella sulla testa di Giacinto, che morì sul momento. Apollo invano adoperò tutt’i rimedj della medicina per ravvivarlo; lo cangiò in un fiore, che porta il suo nome, sulle cui frondi incise di sua propria mano le lettere ai ai, ch’esprimono il suono delle voci proferite da Giacinto in atto che ricevette il colpo.

Giano, re d’Italia figlio di Apollo e della Ninfa Creusa. Saturno discacciato dal Cielo (o per meglio dire dall’Arcadia), si ritirò ne’ di lui stati. Giano lo accolse con molta cortesia, e d’allora in poi questo paese prese il nome di latium dal latino latere, perchè Saturno, perseguitato da Giove, venne quivi a nascondersi. Saturno, in riconoscenza, dotollo di una rara prudenza avendogli comunicato la scienza del passato e dell’avvenire; quindi è che viene dipinto con una testa a due facce (bifrons). Il regno di Saturno fu pacifico; ciò che lo fece considerare come il Dio della pace. Numa per tal riguardo gli fece fabbricare un tempio, che stava aperto in tempo di guerra, e chiudevasi in tempo di pace. Questo tempio fu chiuso una sola volta sotto il regno di Numa, un’altra volta dopo la seconda guerra [p. 146 modifica]Punica l’anno di Roma 519, e tre volte sotto l’impero di Augusto. Giano viene anche rappresentalo con una chiave in una mano, ed un bastone nell’altra, per dinotare ch’egli è il custode delle porte, e che presiede alle strade, ovvero perchè accoglie bene i viaggiatori. Imparò da Saturno l’agricoltura, e la maniera di ben governare i popoli, che furono felicissimi sotto il suo regno. Nota 58. Fig. 38.

Giamba (v. Jamba),

Giapeto, figlio di Urano è fratello di Saturno. Esiodo dice che sposò Climene figlia dell’Oceano, da cui ebbe Atlante, Menezio, Prometeo ed Epimeteo. Diodoro Sicolo dice che sposò la ninfa Asia. I Greci riconoscevano in lui il padre, ed il fondatore della loro nazione. Alcuni mitologi credono che sia lo stesso che Japhet figlio di Noè; ma gli eruditi i più accurati rigettano questa opinione.

Giarba o Jarba, re di Getulia. Sdegnato costui perchè Didone rifiutò di sposarlo, dichiarò la guerra a Cartaginesi, i quali per ottener la pace volevano costringere la loro regina a tal matrimonio; ma Didone fu contenta di uccidersi con un pugnale anzichè sposarlo; e così diè fine alla guerra e alle speranze di Giarba.

Giasone, figlio di Esone e di Alcimede. Morto Esone, o secondo la più comune opinione, dopocchè questi fu detronizzato da Pelia suo fratello, che s’impadronì di Jolco, e di tutt’i di lui stati, Alcimede [p. 147 modifica]fece allevare segretamente Giasone, affidandone la educazione al Centauro Chirone; il quale gl’insegnò le scienze, ch’egli medesimo, professava, soprattutto la medicina; ciò che fece dare al giovine principe il Soprannome di Giasone in luogo di Diomede, che aveva ricevuto nella sua nascita.

Giasone fatto adulto ritornò, a Jolco, ove Pelia suo zio, per non insospettire il popolo lo accolse; ma ben presto ricercò tutt’i mezzi, onde farlo perire, per assicurarsi il pacifico godimento del trono. Persuase Giasone che bisognava intraprendere la conquista del vello d’oro, sperando che non ne ritornerebbe più. Giasone, ch’era nella età in cui si brama la gloria, colse avidamente siffatta occasione per acquistarsene. La sua spedizione fu proclamata in tutta la Grecia. Il fior de’ greci eroi recossi in folla a Jolco per avervi parte. Giasone ne scelse cinquanta quattro i più famosi. Ercole stesso vi si arruolò, e volle che Giasone ne fosse il capo. Prima di mettersi alla vela, Giasone offrì un sagrifizio solenne a tutte le divinità, ch’egli credette poter essere favorevoli alla sua impresa. Giove con la voce del tuono promise il suo soccorso a questa truppa di eroi guerrieri. Gli Argonauti finalmente pervennero a Colco, ove il famoso vello d’oro, trasportatovi da Frisso, era custodito d’alcuni tori, che avevano le gole infiammate, e da un orribile dragone. Giunone e Minerva, che amavano teneramente Giasone, resero Medea innamorata di questo principe, affinchè la sua magica arte, che professava eccellentemente, potesse giovargli a superare i pericoli incontro ai quali andava ad esporsi. Medea gli accordò il soccorso della sua arte, a condizione di [p. 148 modifica]esserle fedele. Giasone le giurò fedeltà, e Medea preparò tutto ciò ch’era necessario per salvare il suo amante. Ecco ciò ch’egli doveva eseguire: primieramente doveva mettere sotto il giogo due tori, dono di Vulcano, i quali avevano i piedi e le corna di bronzo, e vomitavano vortici di fiamme; attaccarli ad un aratro di diamante, e far loro dissodare quattro jugeri di un campo consagrato a Marte, per seminarvi i denti di un dragone, da cui dovevano nascere uomini armati, che bisognava sterminare sino all’ultimo; uccidere finalmente il mostro, che continuamente sorvegliava il vello d’oro, ed eseguire tutte queste imprese in un sol giorno. Protetto da Medea, Giasone ammansò i tori, poseli sotto il giogo, lavorò il campo, vi seminò i denti del dragone: ed allorchè vide uscirne altrettanti combattenti, lanciò in mezzo di una pietra, inspirando loro un furore così violento che si uccisero l’un l’altro; addormentò il mostro con alcune erbe incantate, e colla magica bevanda datagli da Medea, lo uccise, e portò via il vello d’oro. Compiuta la impresa, Giasone sposò Medea, ed insieme con lei ritornò a Jolco. Gli Argonauti si divisero, e ciascuno ripatriò. Intanto Pelia non si diede veruna premura di restituire a Giasone il trono di suo padre. Medea diede a suo marito il mezzo onde disfarsi di questo nimico. Indusse le figlie di Pelia ad uccidere il loro padre, e a farlo bollire in un tino di rame, dando loro a credere che questo sarebbe un mezzo per ringiovinirlo. Questo delitto però non valse per far ricuperare a Giasone il regno di Jolco; perchè Acasto figlio di Pelia se ne impadronì, e costrinse il suo rivale ad abbandonar la Tessaglia, e a ritirarsi con [p. 149 modifica]Medea a Corinto, ove furono bene accolti da Creonte, re di questa città. Eglino vi soggiornarono dieci anni nella più perfetta unione, ma Giasone, posti in obblio i favori ricevuti da Medea, e i giuramenti di fedeltà, s’innamorò di Clauca, detta altramente Creusa, figlia di Creonte, la sposò e ripudiò Medea. La vendetta seguì tosto l’oltraggio. Medea indispettita per vedersi abbandonata da Giasone, entrò in tal furore, che non contenta di far perire disgraziatamente Clauca e Creonte, trucidò benanco colle proprie mani, sotto gli occhi di Giasone, i due figliuoli, che aveva avuti da lui. Predisse allo stesso Giasone ch’egli dopo aver vissuto lungo tempo per sentire tutto il peso della sua sventura, perirebbe oppresso sotto i rottami del vascello stesso degli Argonauti; siccome in effetto gli avvenne. Mentre egli un giorno riposava sul lido del mare all’ombra di quel vascello ch’era stato tirato nell’arena, una trave staccatasi gli fracassò la testa.

Giganti, uomini di una statura prodigiosa, figli del Cielo e della Terra, i quali fecero la guerra agli Dei. Avevano lo sguardo terribile e feroce, i capelli lunghi, una gran barba, le gambe e i piedi di serpenti, ed alcuni avevano cento braccia e cinquanta teste. Risoluti detronizzare Giove, intrapresero di assediarlo fin nel suo trono (cioè sul monte Olimpo); e per riuscirvi, ammontarono Ossa sopra Pelio ed Olimpo sopra Ossa, donde tentarono scalare il Cielo, lanciando contro gli Dei smisurati scogli, alcuni de’ quali piombando nel mare, diventavano isole, e quelli che cadevano sulla [p. 150 modifica]terra, formavano delle montagne. Giove stesso atterrito alla vista di così terribile nimici, chiamò in suo soccorso gli Dei, ma fu molto mal secondato; poichè se ne fuggirono tutti in Egitto; ove per la paura si nascosero sotto diverse forme di animali. Chiamò finalmente Ercole per combattere insieme con lui; e coll’ajuto di questo eroe sterminò i Giganti. Dopo averli disfatti, li precipitò sino al fondo del Tartaro, o secondo altri, li sotterrò vivi. Encelado fu seppellito sotto la Sicilia; Polibete sotto l’isola di Lango; Oto sotto l’isola di Candia, e Tifone sotto l’isola d’Ischia Nota 59.

Giocasta, Figlia di Creonte, re di Tebe, moglie di Lajo, madre di Edipo, ch’ella dipoi sposò senza conoscerlo. Eteocle e Polinice, Antigona ed Ismene furono i frutti di questa incestuosa unione. Giocasta si appiccò per disperazione, allorchè seppe ch’Edipo suo marito era suo figlio. Altri dicono, che dopo essere stata testimone del combattimento, e della morte de’ suoi figli Eteocle e Polinice, si trafisse il seno colla stessa spada ch’era rimasta conficcata nel corpo dell’estinto Eteocle.

Giove, il più grande ed il più potente degli Dei. Un oracolo aveva predetto a Saturno che uno de’ suoi figli li toglierebbe la vita e la corona. Per impedire il compimento di questo oracolo, divorava egli tutt’i figli maschi a misura che nascevano. Una delle volte Rea sua moglie, si accorse di esser gravida, e volendo salvare la prole, si recò nella isola di Creta, ove nascosta in un antro, nominato Dicteo, partorì Giove, lo diede a nutrire a due ninfe di quel paese, e ne affidò la educazione ai Cureti, i quali danzavano intorno all’antro [p. 151 modifica]e facevano un grande strepito di lance e di scudi, affinché non si sentissero i vagiti del pargoletto. Intanto per deludere suo marito, gli diede ad ingojare un ciottolo. Divenuto adulto gli si palesò il segreto della sua nascita, e da quel momento fu riguardato come l’erede di Saturno. Questi informato della esistenza di suo figlio, e sapendo di esser destinato a comandare l’Universo, cercava tutt’i mezzi per farlo perire. Giove, col consiglio di Meti, diede a Saturno una bevanda che gli fece vomitare la pietra e i fanciullini che aveva divorati. Fece lega con i suoi fratelli Nettuno e Plutone, e fece la guerra a Saturno ed ai Titani. Allora fu che i Ciclopi somministrarono a Giove il tuono, il baleno, ed il fulmine, a Plutone un elmo ed a Nettuno un tridente. Armati in tal guisa vinsero Saturno. lo discacciarono dal Cielo; e lo costrinsero a nascondersi nel Lazio.

Giove s’impadronì del trono di suo padre, ed in poco tempo si vide padrone del Cielo e della Terra. Sposò Giunone sua sorella, e divise co’ suoi fratelli il retaggio paterno. Prese per se il Cielo; diede a Nettuno l’impero delle acque ed a Plutone quello dell’Inferno. Questi di accordo con Pallade e Giunone, e con gli altri Dei tentarono ben presto sottrarsi al suo dominio; ma egli li disfece, e li costrinse a fuggirsene in Egitto, ove presero diverse forme: egli li perseguitò sotto la forma di un montone, e finalmente fece con essi la pace.

Allorchè credeasi tranquillo, i Giganti figli di Titano, pretesero di esser reintegrati ne’ loro dritti; accumularono più monti l’uno sopra l’altro per iscalare il Cielo e discacciarnelo; ma Giove, coll’ajuto di Ercole, fulminò tutt’i Giganti e li schiacciò sotto gli stessi monti.

Dopo questa vittoria non pensò più che a darsi in [p. 152 modifica]preda ai piaceri, ed ebbe un gran numero di favorite. Per riuscire a sedurle, si trasformò in varie guise; ora in satiro per sorprendere Antiope; ora in pioggia d’oro per ingannar Danae, che tenevasi custodita in una torre di bronzo. Non potendo sedurre Europa, figlia di Agenore, sotto la forma umana, si trasformò in toro; e questa leggiadra principessa, essendoglisi adagiata sul dorso per farne il di lei trastullo, egli si pose a correre, tragittò il mare a nuoto, e la trasportò altrove. Prese la figura di un cigno per ingannar Leda, moglie di Tindaro, che si sgravò di due uova, dalli quali uscirono Castore e Polluce, Elena e Clitennestra. Sotto la figura di Diana trionfò della ninfa Calisto; e finalmente sotto quella di un’aquila rapì Ganimede figlio di Tros (ovvero Troo), e lo trasferì nel Cielo, per farne il suo coppiere in luogo di Ebe.

Il culto di Giove é stato sempre il più solenne, ed il più universalmente esteso. Le più ordinarie vittime che gli s’immolavano erano la capra, la pecora ed il toro bianco, di cui aveasi cura di dorarne le corna.

Gli Antichi consideravano Giove come il padrone assoluto di tutto, e lo rappresantavano sotto la figura di un uomo maestoso e con la barba, assiso sopra un trono, tenendo a man dritta il fulmine, alla sinistra una vittoria, ed un’aquila ai piedi colle ale spiegate in atto di rapir Ganimede. Tra gli alberi eragli consagrata la quercia. Gli s’innalzarono tempj in tutto l’Universo. Il suo sopranome principale era quello di Olimpico, perchè opinavasi ch’egli soggiornasse con tutta la sua corte sul monte Olimpo. Si sono contati sino a trecento Giove: la credulità pagana gli ha tutti uniti per farne un solo. Not.60 Fig. 39. [p. 153 modifica]

Giunone, regina di tutti gli Dei, moglie di Giove e figlia di Saturno e di Rea. Era sorella di Nettuno, di Cerere, di Vesta e dello stesso Giove, e fu allevata dalle Ore. Giove se ne innamorò e per ingannarla si trasformò in cuculo; ma ella lo conobbe, e non volle acconsentire alle di lui brame che a condizione di sposarla. In effetto egli la sposò; e le nozze furono celebrate presso il fiume Tereno sul territorio de’ Gnossj. Giove ordinò a Mercurio d’invitarvi tutti gli Dei, tutti gli uomini e tutti gli animali. Difatti vi si recarono tutti a meno che la ninfa Chelone, la quale si fece beffa di tal matrimonio. Mercurio la precipitò in un fiume, e la cangiò in testuggine, e d’allora in poi é obbligata a portare la sua casa sul proprio dorso, ed in pena de’ suoi motteggj fu condannata ad un perpetuo silenzio.

Giove e Giunone, lungi di esser felici nei loro consorzio, furono in continue discordie e disturbi. Giunone di un umor fastidioso, era in frequenti contrasti con Giove. Questi la batteva e la maltrattava in tutt’i modi sino a sospenderla una volta in aria tra il Cielo e la terra, mercè un pajo di pianelle di calamita, legandole le mani dietro il dorso con una catena di oro, ed attaccandole una incudine a ciascun piede. Vulcano suo figlio, avendo cercato liberarnela, fu con un calcio fatto capitombolare sulla terra.

La inclinazione di Giove per le belle mortali, eccitò spesse volte la gelosia ed anche la stizza di Giunone. Di qui è ch’ella era una continua spia delle azioni di suo marito, non cessando giammai di perseguitare le di lei favorite e i figli che ne nascevano. Suscitò una infinità di traversie ad Ercole e a molti altri; ma [p. 154 modifica]vedendo che Giove non la cercava punto, si ritirò a Samo, ove dimorò lungo tempo. Giove per farla ritornare, fece condurre un carro sul quale fece situare una immagine di legno magnificamente abbigliata, fece correr voce che questa era Platea figlia di Asopo ch’egli dovea sposare. Giunone avvisata di questo progetto, uscì furiosamente, ed andò a rompere la immagine; ma avendo conosciuta l’astuzia di Giove, se ne fece una risata e si riconciliò con lui.

Questa Dea, che attaccavasi al minimo scherzo su gli amori di Giove, non era esente di galanteria. Ebbe degl’intrighi con il gigante Eurimedonte e con molti altri. Non seppe mai perdonare a Paride il non averle attribuito il pomo d’oro sul monte Ida allorchè contese con Venere e Pallade intorno alla bellezza. Fin d’allora si dichiarò nimica irreconciliabile de’ Trojani, e continuò le sue vendette fin contro Enea.

Non si è di accordo intorno ai di lei figli, ma n’ebbe molti, cioè Ebe, Venere, Lucina e Vulcano, quantunque la più comune opinione fa nascer Venere dalla spuma del mare. Marte e Tifone furono anche suoi figli. Dicesi che divenne madre di Ebe, mangiando delle lattughe; di Marte, toccando un fiore; di Tifone, facendo uscir dalla terra de’ vapori, che ricevette nel suo seno.

Siccome davasi a ciascun Dio qualche particolare attributo, così a Giunone eran toccati in parte i regni, gl’imperi e le ricchezze; quindi è che ne offrì a Paride, purchè le avesse aggiudicato il premio della bellezza. Presedeva alle nozze, ai matrimonj ed ai parti. Aveva diversi nomi a seconda delle diverse ragioni per le quali le si facevano i sagrifizj. Il suo culto era molto esteso. I prodigj ch’ella avea [p. 155 modifica]operati, e le vendette che aveva eseguite sopra coloro che avevano osato disprezzarla o anche paragonarsile, avevano incusso tanto timore e tanto rispetto che niente trascuravasi per appagarla, o per placarla, allorchè credevasi essere stata offesa. Aveva de’ tempj in Grecia, in italia, in Siria, in Egitto; ma sopra tutto era adorata in Argo, in Samo ed in Cartagine.

Rappresentasi per ordinario come una matrona in aria di maestà, ed alle volte con uno scettro in mano o una corona radiale sulla testa, e presso a lei un pavone, suo uccello favorito. Alcune volte viene rappresentata sopra un carro tirato da pavoni. Finalmente per farsi una giusta idea di Giunone dee sapersi ch’ella era una Dea gelosa, orgogliosa, vendicativa e fastidiosa. Not. 61. Fig. 40.

Giuochi, sorte di spettacoli che la religione de’ Greci e de’ Romani considerava come cosa sagra. Non ve n’era alcuno che non fosse dedicato a qualche Dio particolare o a molti insieme. Non si dava giammai principio alla solennità che dopo aver offerti de’ sagrifizj e praticate altre cerimonie religiose. La politica vi aveva anche la sua parte. I giuochi inspiravano alla gioventù un umor marziale, la rendevano atta a tutti gli esercizj, aumentavano le forze del corpo, e contribuivano ad una vigorosa salute. Vi erano tre sorti di giuochi, le corse, i combattimenti, gli spettacoli. (V. Istmici, Nemei, Olimpici, Pitici.)

Giustizia, altramente detta Temi, figlia di Giove e di Astrea. Si ritirò con sua madre nel Cielo allora quando la età del ferro succedette alle altre età. [p. 156 modifica]rappresentasi sotto la figura di una giovine, tenendo in una mano la bilancia in equilibrio, e nell’altra una spada nuda. Alcune volte vedesi con una benda su gli occhi, per indicare la esatta imparzialità, che deve praticare colui, che amministra giustizia. Fig. 41.

Glauco, figlio di Nettuno e di Naide, fu un celebre pescatore di Antedone in Beozia. Un giorno avendo osservato che i pesci ch’egli avea posti sopra certa erba della spiaggia, ripigliavano vigore, e gittavansi di nuovo nell’acqua, stimò mangiar di questa erba, e tosto saltò anch’egli nel mare. L’Oceano e Teti lo spogliarono di ciò ch’egli avea di mortale, e lo ammisero nel numero degli Dei marini. Gli abitanti di Antedone gli eressero un tempio, e gli offrirono de’ sagrifizj. Ebbe di poi anche un oracolo, che spesso era consultato dai marinari. Dicesi di essere stato amato da Circe, e che egli fosse stato insensibile al di lei amore, avendole preferito la giovane Scilla; e che Circe, per vendicarsene, cangiò Scilla in mostro marino, dopo aver avvelenato il fonte ov’ella andava a nascondersi insieme con Glauco.

Vi fu un altro Glauco figlio di Sisifo e di Merope. Aveva delle cavalle, che nutriva di carne umana. Non volendo che queste si accoppiassero con i cavalli, Venere, per vendicare il disprezzo del suo culto, inspirò loro tal furore che lo stesso Glauco ne fu divorato.

Gorgoni, figlie di Forco, Dio marino e di Ceto. Erano tre sorelle, Medusa, Euriala e Steno. Abitavano al di là dell’Oceano nella estremità del Mondo presso il soggiorno della Notte. Tutte tre insieme non [p. 157 modifica]avevano che un sol’occhio, ed un dente di cui servivansi a vicenda; ma questo dente era più lungo delle zanne de’ più forti cinghiali; le loro mani erano di bronzo e le loro teste angui-crinite. Coi soli sguardi uccidevano gli uomini o almeno li pietrificavano. Avevano ne’ piedi e nelle mani gli artigli di leone. Siccome desolavano la campagna ed incrudelivano contro tutt’i passagieri, Perseo le uccise e troncò la testa a Medusa, che fu attaccata alla egida di Giove per renderla più terribile. Virgilio dice che dopo la disfatta di Medusa, andarono ad abitare presso le porte dell’inferno insieme con i Centauri, con le Arpie, e con tutt’i mostri della Favola. Diodoro attesta ch’esse furono spesso in guerra con le Amazoni; ch’erano governate da Medusa loro regina al tempo di Perseo, e che furono interamente distrutte da Ercole.

Grazie, figlie di Giove c di Venere, secondo altri di Eurinome, e secondo la più comune opinione di Bacco e di Venere. Erano tre, Egle Talia ed Eufrosine. Il loro potere estendevasi a tutti i piaceri della vita. Dispensavano agli uomini, non solamente la buona grazia, la gajezza, la equabilità degl’umori, la facilità delle maniere, e tutte le qualità che rendono aggradevole la vita, ma altresì la libertà, la eloquenza, la saviezza. Avevano de’ tempj a Elide, a Delfo, a Perge, a Perinto, a Bizanzio, e ben presto il di loro culto si estese in tutta la Grecia. Si osservavano dappertutto delle figure, delle statue, delle iscrizioni e delle medaglie che ad esse riferivansi. Si rappresentavano a guisa di ninfe giovani coverte di un sottil velo e talora affatto [p. 158 modifica]nude. Volevasi con ciò indicare che non vi è cosa più amabile della semplice natura, e che qualora ella chiami l’arte in suo soccorso, non deve adoperarne gli ornamenti che con ritegno. Erano giovani, per dinotare, che i piaceri sono stati sempre riguardati come proprietà della gioventù. La loro statura svelta e leggiera significa che le fattezze più seducenti sono quelle, che si accostano alla dilicatezza. Il loro atteggiamento in positura di danzare significa ch’essendo esse amiche della gioja innocente, non si adattano alla gravità troppo austera. Tenevansi tra loro strettamente unite per le mani per dinotare che i graziosi modi formano il più dolce legame delle società. Non facevano alcun uso nè di fibbie nè di cinture, e lasciavano gonfiare i loro veli a seconda del zeffiro, perchè un certo grado di negligenza vale più degli ornamenti i più ricercati; e nelle opere dello spirito, siccome in tutto il resto, vi sono delle felici negligenze infinitamente preferibili alla fredda regolarità. Venere aveva sempre le Grazie al suo corteggio; si sono credute anche le compagne delle Muse e di Mercurio. Finalmente Pausania ammette una quarta Grazia, la Persuasione, indicando con ciò che la prerogativa di piacere altrui è il più efficace mezzo di persuadere. Fig. 42.