El libro dell'amore/Oratione VI/Capitolo XVIII

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Oratione VI - Capitolo XVIII

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Come s’innalza l’anima dalla bellezza del corpo a quella di Dio.

Horsù, carissimi convitati, fignete nell’animo vostro che Diotima di nuovo admonisca Socrate in questo modo. Considera, o Socrate mio, che nessuno corpo è interamente bello, imperò che o veramente egli è in una parte bello, nell’altra brutto, o veramente oggi bello, altra volta brutto, o veramente agli occhi d’alcuno riesce bello, agli occhi d’altri riesce brutto. Adunque la bellezza del corpo, essendo macchiata per contagione di bruttura, non può essere bellezza pura, vera e prima; oltr’ad questo nessuno può pensare la bellezza essere brutta, sì come nessuno può pensare la sapienza essere pazza. Ma la dispositione de’ corpi alcuna volta spetiosa, alcuna volta turpe stimiamo, e in uno medesimo tempo di quella varie persone variamente giudicano; non è adunque ne’ corpi la bellezza vera e somma. Aggiugnesi a questo che molti corpi sotto uno medesimo nome di bellezza si chiamano: una è adunque in molti corpi la natura della bellezza comune, per la quale molti corpi similmente belli si chiamano. Questa una natura perché ella è in altri, cioè nella materia, però stima che da altri depende, però che quello che non può in sé fermarsi molto meno può da sé dependere. Credi tu però ch’ella dipenda dalla materia? Deh, non lo credere! Nessuna cosa brutta e imperfecta può sé medesima ornare a fare perfecta, e pure quello che è uno da uno nascere debba. Per la qual cosa una bellezza di molti corpi da uno incorporale artefice dipende. Uno artefice di tutto è Iddio, el quale per mezzo degli angeli e dell’anime continuamente fa bella la materia del mondo, e per questo è da stimare che quella vera ragione della bellezza si truovi in Dio e ne’ suoi ministri, più tosto che ne’ corpi del mondo. Levati su, o Socrate, e per questi gradi che io ti monsterrò ad quella di nuovo sali. Socrate mio, se la natura t’avessi dati gli occhi più acuti che al lupo cerviere, in modo che e corpi che in te si scontrano non solamente di fuori, ma etiandio di dentro vedessi, quel corpo del tuo Alcibiade, el quale di fuori apparisce bellissimo, certamente bruttissimo ti parrebbe. Amico mio, quanto è egli però quello che tu ami? Ella è una superficie di fuori, anzi è un poco di colore quello che ti rapisce, anzi è una certa levissima reflexione di lumi e d’ombre. E forse più tosto una vana imaginatione t’abbaglia, in modo che tu ami quello che tu sogni più tosto che quello che tu vegga. E perché non paia che io mi ti contraponga in tutto, se pur ti pare così, sia bello questo Alcibiade, ma dimmi: in quante parti è egli bello? Certamente in tutti e membri in fuor che nel naso e nelle ciglia, che troppo in su s’arricciano; nondimeno queste parti sono belle in Phedro, ma e’ ti dispiacciono in lui le gambe grosse; in vero queste sono belle in Carmide, ma el collo sottile ti offende. Così se tu considerrai bene ciascuna persona, nessuna interamente loderai, e ciò che è recto in qualunque di loro ragunerai e fabricherai appresso di te, per la consideratione di tutti, una figura intera, in modo che la intera bellezza della generatione humana che si truova in molti corpi sparta, sia nell’animo tuo per la cogitatione d’una imagine ragunata. O Socrate, tu sprezzerai la figura di qualunque huomo se a questa ne farai paragone! Tu sai bene che non possiedi questa per bontà de’ corpi exteriori, ma del tuo animo; adunque ama questa la qual fabricò l’animo tuo, e ama l’animo suo artefice, più tosto che quella di fuori che è troncata, dispersa e debile. Hor che comando io che ami nell’animo? Comando che tu ami la bellezza sua; la bellezza de’ corpi è luce visibile, la bellezza dell’animo è invisibile luce, la luce dell’animo è verità, e questa sola Platone nelle sue orationi chiedere a Dio soleva così dicendo: «Dio, concedimi che l’animo mio diventi bello, e che le cose che s’appartengono al corpo la bellezza dell’animo non m’impedischino, e che io stimi colui solo essere ricco el quale è savio». Platone dichiara in questa oratione la bellezza dell’animo nella verità e sapientia consistere, e quella da Dio agli huomini concedersi. Una verità medesima data a noi da Dio per varii suoi effecti varii nomi di virtù acquista: in quanto ella mostra le cose divine, sapientia si chiama, la qual Platone a Dio sopra ogn’altra cosa chiedeva; in quanto ella mostra le cose naturali, scientia; in quanto le humane, prudentia si nomina; in quanto ella ci fa con gli altri ragionevoli, giustitia; in quanto ci fa insuperabili, fortitudine; in quanto ci rende tranquilli, temperantia s’appella. Onde due generationi di virtù s’annoverano, cioè virtù morali e virtù intellectuali, le quali sono più nobili che le morali; le intellectuali sono sapientia, scientia, prudentia; morali iustitia, fortezza e temperantia. Le morali, per le loro operationi e civili offitii, sono più note, l’intellective, per cagione della verità nascosta, sono più occulte. Oltr’ad questo, colui che s’allieva con honesti costumi, come colui che è più puro che gli altri, facilmente alle virtù intellectuali s’innalza; e però ti comando che imprima consideri quella bellezza dell’animo la quale negli honesti costumi si ritruova, dove intenda ch’egli è una ragione di tutti questi costumi per la quale similmente belli si chiamano, e questa è una verità di purissima vita, la quale per le operationi di giustitia, fortezza, temperantia alla vera felicità ci mena. Adunque da’ opera che tu imprima ami questa una verità di costumi e luce d’animo spetiosissima, e sappi che tu debbi salire sopra e costumi alla lucidissima verità di sapientia, scientia, prudentia, considerato che queste cose si concedono all’animo in costumi optimi allevato, e che la regola rectissima della vita morale in esse si contiene. E benché tu vegga varie doctrine di sapientia, scientia, prudentia, nondimeno stima che in tutte è una luce di verità, per la quale tutte belle similmente si chiamano. Io ti comando che tu ami ardentemente questa luce come supprema bellezza dell’animo. Ma questa una verità la quale in più doctrine si truova non può essere la verità somma, imperò che ella è in altri essendo in molte doctrine distribuita, e ciò che in altri giace certamente da altri dipende. Non nasce però questa verità, la quale è una, dalla moltitudine delle doctrine, perché quello che è uno da uno nascere debba; il perché bisogna che sopra l’anima nostra sia una sapientia la quale non sia per diverse doctrine sparta, ma sia unita, e dalla unica verità sua nasca la multiplice verità degli huomini.

Ricordati, o Socrate, che quella unica luce dell’unica sapientia è la bellezza dell’angelo, la quale tu debbi sopra la bellezza dell’animo honorare. Quella, come di sopra mostramo, avanza in questo la forma de’ corpi, che non è chiusa in luogo alcuno, né secondo parti di materia si divide né si corrompe; avanza ancora la bellezza dell’animo perché è in tutto eterna, e per temporale discorso non si muove. Ma perché quella luce angelica risplende nell’ordine di più idee che sono nell’angelo, e pur bisogna che fuori e sopra ogni moltitudine sia essa unità, la quale è origine d’ogni numero, però è necessario che la decta luce angelica esca da quello uno principio dello universo, el quale essa Unità si chiama. La luce adunque d’essa Unità, in tutto semplicissima, è la infinita bellezza, perché non è macchiata da macule di materia come la forma del corpo, né mutasi per temporale progresso come quella dell’animo, né è in moltitudine di forme sparta come quella dell’angelo. E ogni qualità che è spiccata da extrinseche conditioni, appresso e phisici infinita si chiama. Se ’l caldo fussi in sé medesimo non impedito da freddo e humido, non gravato da peso di materia, si chiamerebbe infinito caldo, perché la forza sua sarebbe libera e non sarebbe da termini di conditione extrinseca ristrecto. Similmente el lume da ogni corpo libero è infinito, imperò che sanza modo e termino riluce chi riluce per natura sua, quando non è da altri terminato. Adunque la luce e pulchritudine di Dio, la quale è interamente pura e da ogni conditione libera, sanza dubio è pulchritudine infinita. La pulchritudine infinita infinito amore richiede, per la qual cosa io ti priego, o Socrate mio, che tu ami le creature con uno certo modo e termino, ma el creatore ama con amore infinito, e guardati quanto puoi che nello amare Iddio non abbi né modo, né misura alcuna.