Ercole (Euripide)/Prologo
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Personaggi | Parodo | ► |
Il palazzo d’Ercole a Tebe. Dinanzi al palazzo, un altare di Giove, intorno al quale sono aggruppati supplici Anfitrione, Megara, e tre figli d’Ercole giovinetti.
anfitrione
Chi non conosce Anfitrione d’Argo,
ch’ebbe al talamo suo Giove partecipe,
cui die’ la vita Alcèo, figlio di Pèrseo,
e che d’Ercole fu padre? Io son quello.
E in Tebe venni a soggiornare, dove
la terrigena spiga degli Sparti1
un giorno crebbe, della cui progenie
Marte ben pochi lasciò salvi; e questi
per i figli dei figli popolarono
di Cadmo la città. Da questi il figlio
nacque di Menecèo, Creonte, re
di questa terra; e fu Creonte padre
di Megara, che qui vedete. Un giorno
tutti i Cadmèi per essa, al suon dei flauti
levaron l’imenèo, quando alla mia
casa l’addusse sposa Ercole illustre.
Ma poi mio figlio Tebe abbandonò,
il mio soggiorno, e i suoceri e Megara,
e fra le mura d’Argo, e nella rocca
dei Ciclopi abitar volle, donde io
bandito fui, ch’Elettrïone uccisi.
E per lenir la pena mia, per brama
d’abitar la sua patria, in gran compenso,
offerse ad Euristèo, di sterminare
le belve della sua terra, o sia ch’Era
spingesse coi suoi pungoli, o sia
l’impulso del destino. Or, poiché tutte
l’altre fatiche ebbe compiute, in ultimo
dalle Tenarie foci all’Ade scese,
per condurre alla luce il can dai tre
corpi; e di là non è tornato ancora.
Un’antica leggenda è fra i Cadmèi,
che a tempi andati, un certo Lico, sposo
di Dirce, fu signor di Tebe e delle
sue sette torri, pria che vi regnassero
Anfíone e Zeto, i due figli di Giove
dai candidi puledri. Un suo figliuolo,
ch’à lo stesso suo nome, e non tebano,
ma venuto d’Eubèa, piombò su Tebe,
mentre a mal di fazioni essa era in preda,
Creonte uccise, ed or la terra impera.
Onde ora, sembra, è mal grande per noi
il parentado con Creonte stretto;
perché, mentre mio figlio è nelle viscere
della terra, il signor nuovo di questa
contrada, Lico, i figli vuole uccidere
d’Ercole, e, per lavar sangue con sangue,
uccidere la sposa, e me, se pure
tuttora annoverar convien fra gli uomini
me, disutile vecchio, affin che i pargoli,
un giorno, divenuti uomini, il sangue
non vendichin dei loro avi materni.
Ed io — poiché mio figlio, allor che scese
giú nella negra sotterranea notte,
qui mi lasciava educator dei figli,
della casa custode — affinché scampo
trovassero da morte i figli d’Ercole,
con la lor madre, a quest’altare venni
di Giove salvatore: il figliuol mio
nobile lo fondò, segno del suo
trionfo, allor che vinti egli ebbe i Minî.
E a questo asilo ci stringiam, di tutto
bisognosi, di cibo, di bevanda,
di vesti: il fianco distendiamo sopra
la nuda terra: sigillate sono
per noi le case, e piú non c’è speranza.
E degli amici, alcuni vedo ch’erano
amici falsi, e i veri non ci possono
prestare aiuto; è tal della sciagura
per gli uomini l’effetto. Oh, niun patirla
possa, per poco che mi sia benevolo.
Troppo verace prova è per gli amici.
megara
O vegliardo che un dí, con tanta gloria,
le schiere dei Cadmèi capitanando,
ponesti a sacco la città dei Tafi,
nulla di chiaro mai veggono gli uomini
nei consigli dei Numi. Io sventurata
non fui da parte di mio padre; ch’esso
magnificato per la sua fortuna,
era, ché della terra aveva il regno,
il regno, onde le lancie a pugna balzano
contro chi se ne bea, piene di brama.
E figli aveva; e me sposa a tuo figlio
diede, sí ch’io nella magione d’Ercole
a gloria entrai. Ma già vanito è il tempo
della fortuna, è spento, o vecchio; e a morte
siamo presso tu ed io, son questi figli
d’Ercole, ch’io, come una chioccia i suoi
pulcini, accolgo sotto l’ali. E d’essi
or l’uno or l’altro mi si fanno intorno,
m’investon di domande: «O madre, parla:
nostro padre dov’è, lungi da Tebe?
Che fa? Quando ritorna?» E nella vana
fanciullesca lusinga, il padre cercano.
Io storie invento, e coi discorsi illudo
la lunga attesa. Ma se l’uscio scricchiola
mai, trasalisce ognuno, e in piedi salta,
per balzare del padre alle ginocchia.
Ed or, quale speranza, o quale terra
trovar sapresti, per salvarci, o vecchio?
A te gli sguardi io volgo. Oltre i confini
della terra passar di sotterfugio,
noi non potremo: guardano i passaggi
scolte di noi piú forti; e negli amici
piú non ci resta di salvezza speme.
Il tuo disegno a noi dichiara adesso,
quale ch’ei sia; ché, se morire è d’uopo,
non convien, per viltà, soverchio indugio.
anfitrione
Piacevole non è consigli simili,
o figlia, offrire a cuor leggero, e pompa
di zelo far, quando non c’è pericolo.
megara
Poca è la doglia tua? Tanto ami vivere?
anfitrione
Certo ne godo; ed amo la speranza.
megara
Anch’io; ma non sperar mai l’impossibile.
anfitrione
C’è scampo ai morbi, quando si procràstina.
megara
Odïosa è l’attesa, e il cuor mi morde.
anfitrione
Potrà forse una rotta favorevole
lungi da questi mali, o figli, addurci:
il figlio mio verrà, forse, il tuo sposo.
Càlmati adesso, e i lagrimosi estingui
rivi sugli occhi dei fanciulli, e illudi
l’anime loro con infinte fole,
sebbene è trista finzïon. Si stancano
sin le sciagure che colpiscon gli uomini,
né i venti ognor con ugual forza spirano,
né fortuna sorride insino all’ultimo
ai fortunati. Con alterna vece
tutte mutan le cose: ottimo è l’uomo
che sempre spera; e chi dispera, è un vile.
Note
- ↑ [p. 301 modifica]La ..... spiga degli Sparti. È nota la tradizione, secondo la quale Cadmo, ucciso il serpente che custodiva la fonte di Are, ne seminò per consiglio di Atena i denti e ne nacquero guerrieri che si combatterono e uccisero fra loro tutti, ad eccezione di cinque che popolarono Tebe e furono detti Sparti, cioè seminati.