Favole (La Fontaine)/Libro decimoprimo/III - Il Castaldo, il Cane e la Volpe

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Libro decimoprimo

III - Il Castaldo, il Cane e la Volpe

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Jean de La Fontaine - Favole (1669)
Traduzione dal francese di Emilio De Marchi (XIX secolo)
Libro decimoprimo

III - Il Castaldo, il Cane e la Volpe
Libro decimoprimo - II - Gli Dèi vogliono istruire un figlio di Giove Libro decimoprimo - IV - Il sogno d'un abitante del Mogòl

 
Si narra che una Volpe delle fini
solesse venir spesso per rubare
dentro il cortile d’una fattoria.
(Lupi e Volpi non son cari vicini
e accanto a casa loro, in fede mia,
andrei malvolentieri a fabbricare.)

Venìa la Volpe, ma con suo dispetto
ai polli non potea fare il colpetto.
Tra il pericolo posta e la gran fame
di dentro si rodeva.
- Il padrone, - diceva, - il vecchio infame
dell’arti che ogni notte invento ed uso,
e delle mie fatiche
seguita sempre a ridermi sul muso.
E mentre io corro e fuggo
e di fame mi struggo,
egli cangia i capponi e le pollastre
in soldi buoni e in piastre.
Mentr’ei ne tiene una fila impiccata,
io vecchia giubilata
salto di gioia e ballo
se acciuffo un vecchio gallo.
Perché dunque chiamasti, o sommo Giove,
la figlia tua di volpe alla missione?
Ah! giuro per Plutone
e per il ciel che ci vedremo altrove -.

Questo premendo in cor odio tremendo,
mentre va di papaveri spargendo
Morfeo l’umida notte,
mentre il padron dormia,
e dormivano in casa i servi, il cane,
polli, galli, capponi in compagnia,
nessun s’accorse - e fu non poco errore -
che aperta era la porta per di fuore.

La Volpe gira tanto, che alla fine
trova la breccia aperta.
Entra e ti fa tal strage di galline,
che tutta a sangue va
la povera città.
Allo spuntar del sol
oscene salme gli accorrenti videro
ed ossa e carni palpitanti al suol.

A tanto orror poco mancò che il Sole
non tuffasse i cavalli in fondo al mare.
Oh avessi le parole
di colui che d’Apol l’ira descrisse,
quando tutto l’esercito trafisse
dei Greci e fe’ volare le saette
di fatal morbo infette,
onde uccise le schiere a cento a cento
in una notte il divo arco d’argento!

Tal intorno alla tenda
fe’ di pecore e buoi la strage orrenda
il furibondo Aiace,
credendo vendicar sugli animali
l’ingiurie dei rivali
che negate gli avean l’armi di Achille.
Questa Volpe di lui non meno audace
abbatte, uccide, piglia
e i miseri scompiglia.

Quando venne il padron, secondo il solito
prese a gridar coi servi e poi col Cane:
- O bestia maledetta, o bestia stupida,
buona a mangiar del pane,
perché non abbaiar, non dare un segno?

- Se voi, signori miei, - dice la bestia, -
padrone e servitori, a cui conviene,
invece di dormir come di solito
vi foste tolta un poco la molestia
di chiuder l’uscio bene,
avreste fatto meglio. A me che importa
(che senza guadagnar ci perdo il sonno)
se chiusa oppure aperta sia la porta? -

Questo discorso tutto a fil di logica
avrebbe fatto onore
non solo a un can, ma a un dotto professore.
Ma siccome non era infin che un cane,
in mezzo lo pigliarono
e finiva il meschin di mangiar pane.

Io parlo a te, buon padre di famiglia
(onor che non t’invidio),
guarda cogli occhi tuoi
ciò che salvar tu vuoi.
Non credere che mentre dormi in letto
altri chiuda per te l’uscio e l’armadio.
Se proprio la tua casa ti sta a petto,
chiudi gli occhi per l’ultimo e procura
di non fare mai nulla per procura.