Favole (La Fontaine)/Libro ottavo/III - Il Leone, il Lupo e la Volpe

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Libro ottavo

III - Il Leone, il Lupo e la Volpe

../II - Il Ciabattino e il Banchiere ../IV - La virtù delle Favole IncludiIntestazione 16 ottobre 2009 50% raccolte di fiabe

Jean de La Fontaine - Favole (1669)
Traduzione dal francese di Emilio De Marchi (XIX secolo)
Libro ottavo

III - Il Leone, il Lupo e la Volpe
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Fatto vecchio, decrepito ed asmatico,
gottoso ed arrembato,
un Leone cercava il gran rimedio
di migliorare il suo malfermo stato.

È fare un torto ai grandi il dire o il credere
che v’abbia cosa a lor forse impossibile;
ed anche questa volta al primo annunzio,
da tutti i quattro punti dello Stato
ecco arrivare i medici,
empirici, specifici,
flebotomi, anatomici,
a consultarsi intorno all’ammalato.

I cortigiani vanno tutti in visita,
tranne la Volpe, che si tenne comoda
nella sua tana. Intanto al capezzale
del grande Infermo, il Lupo, un degli assidui
al corteggiar, si giova del momento
per dirne tutto il male
che può inventare un Lupo di talento.

Avria voluto il re che la meschina
nella sua tana fosse affumicata,
ma la volle sentir, e una mattina
la Volpe già avvisata
presentasi, s’inchina,
e: - Sire, - dice, - è ingiusto il sostenere
che per disprezzo abbia tardato un dì
a fare il mio dovere.

Se non venni cogli altri al primo omaggio,
egli è che ho fatto un pio pellegrinaggio
per implorar da Quei che sol la dà
ogni salute a Vostra Maestà.

Strada facendo, a molti dotti medici
ho parlato di voi, del gran languore
che mai non cessa, e m’hanno detto i pratici
che viene da mancanza di calore,
effetto dell’età.

Ma si potrìa provare un buon rimedio,
squartando un Lupo vivo - il vero io narro, -
e poi la pelle ancor fumante, subito
mettersi indosso a guisa di tabarro -.

Piacque il consiglio al re,
che il conte Lupo tosto uccider fe’,
a colazione prima lo mangiò
e nella pelle poi s’imbacuccò.

Signori cortigiani, io dico a voi
che in danno altrui di migliorar la sorte
cercate, seminando ed odii e guai:
dai pari vostri il mal si rende poi
a quattro doppi. In Corte
non si perdona mai.