Fernando Malavolti
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Geologo e archeologo dilettante, Fernando Malavolti, rimasto precocemente orfano, si diresse agli studi in farmacia sospinto dallo zio, titolare di una delle più antiche farmacie modenesi, per la certezza della successione. La prepotente passione e gli straordinari risultati degli scavi eseguiti con i fondi della Gioventù fascista lo spinsero ad iscriversi, nonostante il lavoro al banco della farmacia, al corso di laurea in scienze naturali, a laurearsi, ad assumere un incarico di assistente. Continuando, nel tempo sottratto al riposo e al sonno, a realizzare scavi di rilievo, veniva riconosciuto, nei primi anni Cinquanta, tra i maggiori studiosi della preistoria italiana quando lo coglieva la malattia fatale. Lasciava incompiuta la collocazione nel quadro europeo delle culture diverse della preistoria emiliana. Questa biografia è stata scritta per l’amicizia al figlio, che di Fernando Malavolti ha custodito le testimonianze di una straordinaria avventura scientifica, e per il caloroso suggerimento di Luigi Bernabò Brea, che non mancava di ripetere che l’opera dell’antico amico doveva essere ricordata tra quelle dei grandi archeologi italiani del Novecento.
Geologo dilettante
Fernando Malavolti nasce a Modena il 14 giungo 1913 da Attilio Malavolta, il cognome viene modificato nell’atto di nascita, proprietario di una fabbrica di spazzole, e da Edmea Cartolari. Nel 1915 nasce ai genitori un secondogenito, la figlia Tina, ma solo quattro anni più tardi, nel 1919, Attilio Malavolta muore lasciando la moglie ed i due piccoli orfani. Assicura alla vedova il proprio sostegno il cognato, Geminiano Malavolta, titolare di una delle più antiche farmacie modenesi, situata, nella centralissima via Farini, di fronte al Palazzo ducale. Privo di figli, lo zio fornisce a Fernando i mezzi per seguire il corso per geometri, al termine del quale si diploma, nel 1933, con il minimo dei voti.
Chi ricerchi la ragione della scarsa dedizione allo studio la identifica nella passione per l’esplorazione e la raccolta di materiale geologico e paleontologico, che agita lo studente d’istituto tecnico come un fuoco inestinguibile. Nel 1931, per ricolmare il vuoto prodotto dall’assenza di un aderente, Malavolti è stato invitato a partecipare ad una spedizione alla grotta di Santa Maria Maddalena al Monte Valestra organizzata dal Gruppo grotte Cremona con alcuni appassionati modenesi, che al termine dell’impresa costituiscono il Gruppo speleologico emiliano. Il 12 settembre dello stesso anno partecipa alla costituzione del Comitato scientifico della Sezione del Cai, nata quattro anni prima.
Il primo animatore del Gruppo speleologico è Giacomo Simonazzi, che inizia una vasta attività di schedatura delle grotte delle province di Reggio, Modena, Bologna. Nel 1933 è presidente di entrambi i sodalizi il prof. Giorgio Trebbi, che Malavolti coadiuva in veste di segretario assicurando all’attività del gruppo l’impulso dell’animatore più instancabile. Tra i primi riconoscimenti per l’infaticabile attività, le congratulazioni per le indagini del Comitato scientifico di Ardito Desio, giovanissimo già in possesso dell’autorevolezza che conserverà per quarant’anni, il quale, come Malavolti annota, con orgoglio, il 12 gennaio 1936, si congratula, a nome del vertice del Club Alpino, per la relazione dell’attività del 1935, e comunica lo stanziamento di un contributo di 200 lire per quella dell’anno successivo. Il contributo è accolto con gioia particolare da Malavolti, sempre alla ricerca di qualche supporto per le proprie indagini, che, quantunque condotte con suprema modestia di mezzi, comportano spese superiori alle disponibilità del giovane geometra.
Al suo fianco, tra i membri più attivi del Gruppo speleologico, Rodolfo de Salis, commerciante di materiale idraulico, che dopo avere condiviso passione e rischi in decine di spedizioni ricorderà Malavolti come il camerata cordiale ma tanto geloso delle proprie ricerche da non illustrarne una volta sola propositi e risultati al compagno di cultura inferiore: un’immagine che contrasta singolarmente con quella dell’eloquente animatore che propongono gli amici dotati di titoli accademici. Speleologo e alpinista, raccoglitore appassionato di fossili e minerali, a vent’anni Fernando Malavolti pare diretto a diventare un dilettante estroso e disordinato di studi naturalistici.
Quel dilettante giovanissimo mostra, peraltro, una propensione quasi istintiva a condurre le proprie indagini secondo autentici canoni sperimentali: risale al 1933, infatti, l’anno del diploma di geometra, la testimonianza del primo incontro di Malavolti con un grande antropologo, Paolo Graziosi, che nella commemorazione dell’amico, stilata nel 1956, ricorda l’evento descrivendo, con tratti vivissimi, Fernando Malavolti nel suo studio, uno studio che rivela la vastità degli interessi del giovane geometra, che mostra al naturalista già illustre i propri reperti geologici, paleontologici ed etnografici illustrando ciascuno con la competenza dello studioso di profonda cultura e di lucida intuizione. L’incontro resterà circostanza capitale per la vita di Malavolti, che entrerà con relativo ritardo nel mondo della ricerca accademica, ma che vi entrerà senza attendere nelle anticamere: tra le autorità che, convinte della sua levatura, gli apriranno tutte le porte, al primo posto sarà l’antropologo modenese.
I reperti che Malavolti mostra a Graziosi rivelano la gamma degli interessi del giovane studioso, che dalle prime curiosità geologiche e paleontologiche è stato condotto, lungo una traiettoria diretta da una logica intrinseca, allo studio delle civiltà preistoriche, di cui il dilettante ha incontrato le vestigia nelle spedizioni alla ricerca delle emergenze geologiche. I reperimenti hanno acceso la curiosità di un autentico naturalista, che non si appaga di raccogliere, ma che di ogni pezzo vuole conoscere, attraverso lo studio bibliografico, quanto la scienza sia in grado di dire per spiegarne l’origine e le peculiarità. La molteplicità degli interessi comuni alimenteranno tra Graziosi e Malavolti un’intensa corrispondenza: di particolare interesse le lettere del 1941 in cui Malavolti riferisce delle indagini litologiche di cui l’amico lo ha incaricato sulla “Venere di Savignano”, la statuetta paleolitica il cui ritrovamento lega a Graziosi una delle testimonianze più straordinarie dell’età della pietra reperite in Italia.
Gli studi di archeologia preistorica sono nati, in Italia, come propaggine degli studi naturalistici, e nella sfera naturalistica hanno vissuto la prima stagione di grandi scoperte e di coraggiose proposte interpretative: è stata l’epopea delle terramare emiliane. A quella stagione è seguito un lungo intervallo, durante il quale alle prime scoperte nessuna acquisizione significativa si è aggiunta. Al termine di quell’intervallo gli studi preistorici conoscono un nuovo fervore nell’alveo di una cultura che non è più naturalistica, che rivela la propria matrice, piuttosto, nel retroterra umanistico. Come i fondatori della paletnologia italiana Fernando Malavolti è essenzialmente un naturalista, studia le culture preistoriche fondandosi su competenze geologiche e zoologiche, ed è sulle coordinate di una percezione eminentemente naturalistica che assicurerà agli studi preistorici le acquisizioni che potrà ordinare prima della malattia fatale che lo coglierà prematuramente.
Girovagare naturalistico
Lettere e diari ci mostrano in Malavolti un ricercatore dedito, innanzitutto, all’indagine sul campo. L’amico Mario Bertolani testimoniava l’instancabile pedalare, sulla fedele bicicletta, fino ai primi colli, per procedere, a piedi, alle proprie esplorazioni tra greti e calanchi. Su ogni stradetta di collina Malavolti conosceva, ricordava Bertolani, l’osteria, il contadino nel cui fienile trascorrere la notte, il borghetto dove ricercare l’avventura galante. Incontrando una chiesa aperta non mancava di entrare, ricorda un altro compagno di esplorazioni appenniniche, Benedetto Benedetti, di osservare l’architettura, di recitare, in ginocchio, una preghiera. Nell’introduzione alla tesi in farmacia Malavolti stesso ricorda, con ironia garbata, di avere percorso, a piedi, sui dossi prospicienti il Panaro, migliaia di chilometri.
L’intento delle prime escursioni è la compilazione della carta speleologica delle aree modenesi interessate da fenomeni carsici: sospinto dalla passione per la geologia, Malavolti affronta lo studio del territorio modenese per verificare le espressioni del carsismo in substrati geologici che non sono quelli sui quali il fenomeno è stato descritto dalle indagini classiche, per individuare, quindi, i più affascinanti tra gli elementi del carsismo, le cavità, studiarne la conformazione, le caratteristiche microclimatiche, la fauna. Rispondono, così, a interessi eminentemente speleologici i primi articoli, che vedono la luce, dopo il 1935, sul notiziario del Club Alpino modenese, Il Cimone.
La descrizione di pozzi e caverne sul periodico del Cai è l’inizio di un itinerario scientifico oltremodo complesso: esplorando colli, calanchi, greti di fiume, oltre a rilevare la successione delle formazioni geologiche, e a disegnare, con la precisione del geometra, doline e caverne, Malavolti raccoglie minerali e fossili, colleziona, soprattutto, quei manufatti preistorici che focalizzeranno il suo interesse dirigendolo al terreno dell’impegno futuro più fecondo.
Ponendolo a confronto con i frammenti litici e ceramici portati alla luce dalle arature, l’esplorazione geologica è l’occasione dell’identificazione di siti archeologici che riveleranno la propria importanza, è la premessa della solidità delle coordinate topografiche sulle quali Malavolti fonderà le proprie ipotesi sulla successione delle civiltà preistoriche modenesi, organicamente basate sui rapporti tra l’insediamento umano e la conformazione del territorio.
Lo zio è stato conquistato, intanto, dall’estro del nipote, e gli promette la successione nella farmacia, pretendendo, come condizione naturale, la laurea specifica, che presuppone, a sua volta, il diploma di maturità classica. Accettata la prospettiva Fernando Malavolti si impegna nella preparazione privata dell’esame rivelando la capacità di apprendere con relativa facilità le lingue antiche, il latino ed il greco, che dell’esame costituiscono il cardine. Consegue la maturità nell’estate del 1937: salvo l’”otto” in chimica e scienze naturali i voti non attestano un trionfo, ma con i "privatisti" le commissioni di maturità liceale non sono, all’epoca, indulgenti. Quando, ottenuta la prima laurea, avrà raggiunto anche la seconda, in scienze naturali, confiderà all’amico Benedetto Benedetti di avere intenzione, guadagnata la cattedra universitaria, di assicurarsi anche la laurea in lettere, così da dominare con la stessa sicurezza tutti i terreni della ricerca archeologica.
Le indagini sulla preistoria
Le abituali esplorazioni collinari conducono per la prima volta Malavolti sullo sprone roccioso del Pescale, ai cui resti eneolitici legherà perennemente il proprio nome, il 12 ottobre 1933. L’insediamento era stato conosciuto da Celestino Cavedoni, il cultore ottocentesco di antichità modenesi, vi aveva raccolto qualche reperto, successivamente, il marchese De Buoi, l’amante di preistoria che può essere ricordato come il solo maestro, sul terreno archeologico, di Malavolti.
L’annotazione, sul diario, della visita, riferisce il numero dei reperti, 250 pezzi tra selci, frammenti ceramici, denti e ciottoli. Il 20 successivo, probabilmente dopo un’aratura, il numero dei reperti sale a 600. Il 7 settembre 1935 lo scopritore dell’importante insediamento può annotare, trionfalmente, di essere già in possesso, senza altro impegno delle visite dopo le arature, di 3.315 reperti. La fertilità del campo sullo sprone roccioso alimenta il sogno dello scavo, che prende corpo, nel 1937, grazie a un finanziamento di 500 lire della Soprintendenza alle antichità. Con quella somma effettua, con un solo operaio, la prima campagna di scavi. Condurrà, con mezzi altrettanto modesti, in parte forniti dalla Federazione fascista di Modena, tre campagne ulteriori nel 1938, nel 1939 e nel 1942, al termine delle quali avrà raccolto, come riferisce in una lettera del 29 gennaio 1947 all’amico Anelli, direttore dell’ente preposto alla custodia delle grotte di Postumia, 50.000 pezzi.
Nonostante la modestia dei mezzi, in termini di materiale raccolto la prima serie di scavi si conclude con un cospicuo successo: Malavolti non è, peraltro, l’archeologo dilettante che, scoperto un insediamento pressoché vergine, ne estragga montagne di reperti, con cui comporre una collezione tanto doviziosa quanto muta, è autentico scienziato, che ai primi rinvenimenti accompagna la lettura di tutta la bibliografia esistente, la visita di tutti i musei che può raggiungere, che sui pezzi estratti dal suolo sviluppa, quindi, la più penetrante analisi comparativa.
Sviluppandosi, nelle visite successive ai musei padani, quell’analisi gli consente di percepire che l’insediamento che ha portato alla luce presenta caratteristiche radicalmente diverse da quelle delle terremare, il terreno di impegno dei pionieri emiliani della paletnologia italiana. Capisce di essere in presenza di una civiltà successiva alle colture paleolitiche, di cui conosce bene la presenza sulle terrazze collinari che sono state prodighe, durante le sue esplorazioni, di grandi schegge di selce, precedente all’età delle terremare, prossima a quella civiltà che Chierici, individuati i primi "fondi di capanna" ha, per primo, supposto all’origine della lunga stagione del bronzo. E’ un’era intera del passato che si apre agli occhi del giovane naturalista, che con la collocazione temporale di quell’età consegnerà il proprio legato alle conoscenze sulla preistoria italiana.
L’analisi comparativa lo conduce ad individuare nel contesto dei materiali del Pescale il sommarsi di tre matrici culturali, quella balcanica, quella ligure, quella peninsulare La determinazione del ruolo di ciascuna nell’articolarsi di una cultura che nella sommatoria realizza un’individualità originalissima sarà il proposito più significativo del paletnologo modenese, che sul tema scriverà pagine capitali, al quale la morte precoce impedirà di stendere la sintesi organica che lettere e diari testimoniano stesse lentamente elaborando, di cui percepiamo l’embrione nell’illustrazione dei risultati delle prime ricerche, che vede la luce nel 1940.
Nel 1935 Malavolti inizia la redazione regolare di un diario delle proprie indagini. Adibisce allo scopo quaderni scolastici dalle copertine tipiche del Ventennio, che numera con cura, iniziando, peraltro, la numerazione dal secondo quaderno, siccome si propone di trascrivere sul primo gli appunti stesi, negli anni precedenti, su fogli volanti. Non assolverà al proposito, il quaderno rimarrà vergine. Sulla prima pagina il primo ottobre 1939 verga un’annotazione sorprendente scrivendo di averlo destinato alla trascrizione delle ricerche eseguite "in quei giorni felici con la foga dell’entusiasmo, pieno di speranze e di certezze in gran parte fallite". Quali certezze scientifiche potessero animare il dilettante non ancora ventenne, e perché il giovane studioso, ormai sulla soglia dei primi cimenti accademici, debba rimpiangerne il dissolversi, è interrogativo suggestivo, cui la biografia di uno studioso che propone molte evidenze e pochi misteri non sa dare risposta.
Consapevole del loro valore, raccoglie con cura le proprie osservazioni, non si perita, peraltro, della loro pubblicazione. All’amico Anelli, che lo ha sollecitato a dare notizia del proprio lavoro, spiega, in una lettera del 22 gennaio 1940, di essere “trattenuto da uno spirito di autocritica, che, data la mia cultura autodidattica ancora piena di lacune”, lo induce a rinviare, espressione della lucidità degli intenti di chi si prepara ad entrare nel mondo della scienza con tutti i titoli per essere accettato tra i chierici della ricerca scientifica.
E’ impegnato negli scavi del Pescale quando viene informato del reperimento di frammenti ceramici nelle cave di argilla di una fornace per laterizi a Fiorano, dove si reca il 23 luglio 1938 verificando, nei 7 metri di spessore delle argille sottoposte a sfruttamento, la successione di una pluralità di strati il cui colore carbonioso rivela una serie di insediamenti successivi. La passione che mostra, fino dalla prima conversazione, al titolare della fornace, il signor Eugenio Carani, convince l’imprenditore a fargli dono di una splendida accetta di bronzo che, nella nota del diario, Malavolti riferisce essere stata reperita a 7 metri di profondità, quindi al di sotto della doppia fila di inumati che Carani dice essere stati rinvenuti con una cospicua dotazione di strumenti di selce. La relazione, sul diario, della visita aggiunge al Pescale un secondo sito di indagine, che, a conclusione di tre campagne di scavo, tra il 1941 e il 1944, offrirà a Malavolti l’opportunità di preziosi rilievi comparativi col primo insediamento, fondamento delle sue capitali ipotesi cronologiche.
La laurea in farmacia
Si è iscritto, intanto, alla Facoltà di farmacia dell’Università di Modena. Durante gli studi universitari partecipa alla vita associativa della Gioventù universitaria fascista, nel cui alveo si distingue partecipando ai Littoriali con saggi che ottengono significativi riconoscimenti. Il suo scritto su temi razziali riceve il quinto premio, ad esempio, al Littoriale di Trieste. Si converte in animatore dell’attività culturale degli universitari fascisti costituendo la Sezione paletnologica ed archeologica del Guf, lo strumento per ottenere sovvenzioni dalle autorità del Regime per lo scavo del Pescale.
Può reputarsi espressione dell’adesione al regime fascista anche il proposito di partecipare alla guerra, come volontario, nei corpi alpini: tra le carte conservate dal figlio Marco può leggersi la domanda scritta, il 15 aprile 1941, al Ministero della guerra, per un ripensamento, mai spedita. Verga, successivamente, la domanda di essere arruolato nel battaglione universitario Curtatone e Montanara, destinato all’Africa, dove, annota sul diario il 14 ottobre 1935, conta sulla raccomandazione dell’amico Anelli per svolgere indagini speleologiche dalle quali spera scoperte di grande rilievo: come gli egittologi al seguito di Napoleone, è pronto ad affrontare i rischi della guerra nel deserto come prezzo per esplorare qualche cavità che consenta scoperte che assicurino la sua fama.
Rigettata l’idea del fronte, durante la guerra presta la propria attività nell’Unpa, il servizio di protezione antiaerea che provvede, soprattutto, al soccorso ai cittadini rimasti sepolti sotto le macerie durante i bombardamenti. Si sarebbe prodigato con particolare passione, raccontava l’amico Bertolani, quando, colpita da una bomba la caserma della milizia fascista, gli operai impegnati nella rimozione delle macerie avrebbero frapposto l’inerzia più greve al soccorso dei miliziani, lasciando che a salvare i superstiti fossero i pochi volontari. Malavolti non pone in salvo vittime dei bombardamenti, ma i frammenti dei famosi rilievi della porta dei Principi quando, il 12 maggio 1944, una bomba cade in prossimità del Duomo e sventra la parete marmorea tra l’arco della porta e la trifora soprastante.
Per la solerzia nell’intervento riceve un encomio dal Ministero dell’Educazione nazionale. Non trascorre un mese dal felice intervento che è protagonista del recupero della biblioteca dell’Accademia di scienze, lettere e arti, un autentico patrimonio librario, dopo che una bomba ha colpito il palazzo che la custodisce. Dell’intervento lo ringrazia il presidente del sodalizio, l’autorevole erudito Tommaso Sorbelli.
Iscrivendosi al corso in farmacia ha concepito il disegno di presentare una tesi in chimica che costituisca, in realtà, uno studio geologico. Individua il tema del difficile compromesso nel 1936, quando annota sul diario che la professoressa Montanaro gli ha assicurato l’assenza di studi significativi sulle formazioni mioceniche della valle del Panaro, l’ambiente di cui i cento sopraluoghi gli hanno assicurato la conoscenza più dettagliata, che si propone di impiegare nella compilazione dell’elaborato. Può, così, moltiplicare le spedizioni in collina spiegando allo zio incredulo che sono necessarie per l’elaborazione della tesi in farmacia. Conclude il corso laureandosi, il 6 novembre 1942, con la votazione di centodieci centodecimi. L’elaborato che gli vale il diploma illustra la morfologia del comprensorio tra il fiume Panaro e il torrente Samoggia, pertinente ai comuni di Guiglia e di Zocca, ne descrive le emergenze, riferisce i risultati dell’esplorazione delle cavità, propone i rilievi termometrici sulle acque di tutte le sorgenti.
La seconda laurea
Conseguita la laurea Fernando Malavolti può affiancare lo zio nella gestione della farmacia: la meta, che consentirebbe ad uno spirito meno inquieto di dirigersi con serenità ad un futuro privo di incertezze, non costituisce, per il giovane naturalista, che la tappa verso traguardi più ambiziosi. Sottraendo tutto il tempo che gli è possibile all’impegno al banco si iscrive al corso di laurea in scienze naturali, che conclude diplomandosi, ancora con centodieci centodecimi, il 10 marzo 1945. Tema della tesi, la struttura geologica dell’area attraversata, tra collina e pianura, dal torrente Grizzaga: l’estensione verso occidente delle indagini geologiche che si sono tradotte nella tesi in farmacia.
Ottenuta la seconda laurea, il 1° gennaio 1945 Malavolti è assistente volontario presso la Cattedra di zoologia dell’Università di Modena, meno di due anni più tardi, il 1° novembre 1946, è assistente volontario presso la cattedra di paletnologia della Facoltà di lettere dell’Università di Bologna. Tra le date dei due incarichi, il 15 aprile 1946 la Soprintendenza alle antichità per l’Emilia e la Romagna gli conferisce, per utilizzarne l’incomparabile conoscenza del territorio modenese e dei suoi affioramenti archeologici, il titolo di ispettore onorario per le antichità.
Ha appena avuto termine il conflitto che l’instancabile farmacista promuove un’ambiziosa spedizione naturalistica nell’alta valle della Secchia, un’area dalla particolarissima natura geologica, siccome costituita da rari gessi e calcari triassici, poco nota perché fino allora male collegata anche ai centri abitati più prossimi. E’ il 2 settembre del 1945 quando Malavolti vi conduce un autentico team scientifico, composto da Celso Guareschi, zoologo, nuovo presidente del Comitato scientifico della Sezione Cai, da Mario Bertolani, docente di geologia e di petrografia, dalla professoressa Daria Bertolani Marchetti, botanica, oltre ad alcuni appassionati. E’ la prima delle quattro spedizioni che, fino all’agosto dell’anno successivo, realizzeranno lo studio sistematico del Triassico appenninico. Ai primi partecipanti si uniranno, nelle spedizioni successive, un chimico, Arrigo Gambigliani Zoccoli, e numerosi amatori.
Nel corso delle visite successive, i cui risultati vengono pubblicati nel 1949, il gruppo scopre oltre cinquanta cavità ignote, realizza reperti di natura diversa, inizia una serie di indagini che i singoli specialisti svilupperanno, proficuamente, negli anni seguenti. Mario Bertolani, che ricordava le note romantiche della spedizione, la prevalenza delle scatole di carne americana tra le provviste, i passaggi del fiume a guado senza stivali, troppo costosi, le notti nei fienili, rilevava che la serie di spedizioni concretizzò un autentico studio interdisciplinare della valle, prima espressione delle istanze che avrebbero condotto, nei decenni successivi, agli studi ecologici.
Lo studio, il banco, la famiglia
Seppure appaghino la sua passione, l’attività scientifica e quella didattica non offrono alcun provento al giovane naturalista, che il 21 agosto 1943 ha sposato un’antica compagna di escursioni tra colli e greti fluviali, Elda Adani, che gli darà presto una figlia, Mara, che nasce il 27 settembre 1945, e un figlio, Marco, che nasce il 28 luglio 1951. Pure accarezzando il sogno di una lontana cattedra universitaria, per assicurare la vita della famiglia il lavoro in farmacia costituisce condizione irrinunciabile. Seppure lo zio si mostri tollerante, peraltro, verso le assenze giustificate da lezioni universitarie o da spedizioni archeologiche, la sua tolleranza conosce limiti precisi, che il dottor Malavolta non concede al nipote di superare. Benedetto Benedetti ricorda il lavoro dell’antico maestro, impegnato a comporre sciroppi e collutori mentre lo zio si dedicava all’amministrazione, ricorda l’attesa ansiosa del momento in cui, calata la saracinesca e svestito il camice, il giovane farmacista poteva dedicarsi all’esame dei reperti dell’ultimo scavo, rimandando alla notte lo studio dei testi per il prossimo esame, o per la prossima lezione. Tutta la corrispondenza rivela, peraltro, l’insofferenza per un equilibrio tra le ragioni della farmacia e quelle della paletnologia che appare precario e instabile.
Offrono espressioni eloquenti di quell’insofferenza le lettere all’amico Anelli, direttore dell’ente che custodisce le grotte di Postumia, cui Malavolti rivolge, il 24 gennaio 1939, l’invocazione di reperire qualche fondo per scavi cui possa partecipare dimostrando allo zio di ricavarne un emolumento, la giustificazione per lasciare la farmacia verso la quale prova il più invincibile fastidio.
All’espressione dell’insofferenza per la costrizione al banco si aggiunge, nelle lettere all’amico, quella per le remore allo studio e alla riflessione che gli impone la convivenza, nella medesima casa, con lo zio e la sorella: seppure quella convivenza non sia la costrizione in un angusto quartierino popolare, essa gli impedisce, lamenta il 29 gennaio 1947, la tranquillità che desidererebbe per esaminare i propri reperti e illustrarli ai cultori di studi preistorici.
E’ Benedetto Benedetti a proporre il quadro più eloquente dello studio dell’antico maestro: si entra e si raggiunge lo scrittoio percorrendo autentiche trincee tra montagne di scatole contenenti reperti meticolosamente ordinati. Chi avesse conservato quelle scatole, annota divertito l’antico collaboratore, oltre alla parabola delle civiltà preistoriche potrebbe ricavarne quella dell’industria farmaceutica, siccome erano le confezioni dei prodotti farmaceutici che Malavolti riutilizzava per le esigenze paletnologiche.
Di fronte alle migliaia di pezzi che non ha ancora catalogato un’inquietudine persistente agita Malavolti, che per dedicarsi all’impresa non sa abbandonare, tuttavia, gli interessi collaterali, la speleologia e la geologia. Ha appena compiuto quarant’anni, può opporre all’inquietudine la certezza che non gli mancherà, conquistata una cattedra, il tempo per lo studio e la redazione: nella sua inquietudine v’è, peraltro, un premonimento, quasi il giovane naturalista presentisse la conclusione improvvisa della sua avventura, quella conclusione che non gli concederà il tempo per la grande sintesi sulla preistoria emiliana di cui rinvia la stesura, che intende affrontare solo dopo avere esaurito con sistematicità le preliminari ricerche tipologiche e bibliografiche.
Il confronto con la scienza italiana
Studiando la preistoria emiliana, una grande area oscura nelle conoscenze della preistoria italiana, è entrato in contatto, intanto con i più autorevoli paletnologi italiani, tutti attenti all’evolversi delle conoscenze sulle civiltà neolitiche ed enee della fascia collinare che salda la Pianura Padana al corpo della Penisola, cerniera naturale tra le civiltà preistoriche del Mediterraneo e quelle dell’Europa centrale. Rivela la fecondità delle relazioni con gli studiosi impegnati in ricerche parallele la sua corrispondenza: meticoloso fino al puntiglio, Malavolti trascrive in speciali quaderni la minuta di tutte le lettere ad archeologi e naturalisti, di cui le sue carte conservano le risposte: una fonte doviziosa per verificare l’intensità del confronto tra i protagonisti degli studi paletnologici nello scorcio tra gli anni ’40 e gli anni ’50.
Sfogliando quei quaderni appare particolarmente intensa la corrispondenza con Franco Anelli, il consigliere più stimato sui temi paleontologici, al quale invia le ossa di riconoscimento più difficile, per ottenere conferma delle proprie identificazioni, al quale comunica, nel 1942, il reperimento, a Fiorano di ossa di bovini giganteschi e di un enorme cranio di muflone, una specie che chiede all’amico se sia stata rinvenuta in altre stazioni italiane, con Guido Mansuelli e Renato Scarani, al quale, giovane dilettante come lui, confida, in una bella lettera del 15 giugno 1942, la sorpresa per la resistenza riscontrata nei maestri della paletnologia a discutere i convincimenti consolidati, di cui nuove ricerche dimostrino la fragilità, una confidenza significativa dello studioso che si sta affacciando con idee assolutamente originali alla scena della paletnologia nazionale.
Altrettanto intensa appare la corrispondenza con Ugo Rellini, docente di paletnologia a Roma, che nell’estate del 1942 lo prega di verificare la possibilità di estrarre e trasportare a Roma, perché siano acquisite dal Museo delle origini, le imbarcazioni di età barbarica che, scoperte a Valle Isola, Malavolti è stato incaricato di studiare dal sovrintendente alle antichità di Bologna, il professor Giulio Iacopi. L’elenco degli studiosi con cui intrattiene proficue relazioni comprende, quindi, Nino Lamboglia, Ferrante Rittatore Vonwiller, Mario Zuffa, direttore del Museo civico di Rimini, Francesco Zorzi, Mario Bertolone, Alberto Carlo Blanc, cui nel 1941 Malavolti chiede con insistenza di poter partecipare, come collaboratore, ad una campagna di scavi al Circeo.
Comprende, ancora, Pietro Barocelli, direttore del Museo Pigorini, cui il 18 ottobre 1940 Malavolti comunica la straordinaria notizia del reperimento, a Chiozza, da parte di Luigi De Buoi, della statuetta che sarà denominata Venere di Chiozza, enunciando con estrema chiarezza gli interrogativi che propone il reperimento di un manufatto di assonanze paleolitiche in una stazione neolitica, e Luigi Bernabò Brea, di cui Malavolti segue con speciale interesse prima gli scavi alle Arene Candide, sulla costa di Savona, quindi, dopo la nomina alla Soprintendenza della Sicilia orientale, le indagini sulle culture siciliane il cui studio consentirà all’archeologo ligure di individuare le suture tra le civiltà preistoriche del Mediterraneo orientale e quelle del Mediterraneo occidentale.
Benedetto Benedetti ricorda le parole con cui Bernabò Brea gli spiegò la ragione della propria considerazione per lo scienziato modenese: in viaggio da Siracusa a Genova aveva allungato l’itinerario per fare visita all’amico, che, ricevutolo, aveva dovuto riprendere il lavoro al banco, affidando l’ospite al discepolo, allora studente universitario. Spiegando al giovane interlocutore l’importanza del lavoro del maestro, l’archeologo ligure annotava di avere potuto definire le successioni di culture e facies preistoriche, alle Arene Candide e a Lipari, grazie a imponenti depositi che presentavano una successione regolare di strati, "grandi inventari che era solo necessario sfogliare". Senza stratigrafie, Malavolti aveva stabilito l’ordine di successione tra le culture neolitiche ed eneolitiche emiliane solo ordinando una vasta serie di tenui elementi induttivi in contesti probatori di straordinaria solidità.
00Un animatore infaticabile== Malavolti consacra il proprio ruolo di massimo conoscitore della preistoria dell’area emiliana fondando a Bologna, il 30 gennaio 1948, il Centro emiliano di studi preistorici. Con accorta modestia affida la presidenza al professor Luciano Laurenzi, direttore dell’Istituto di archeologia dell’Università cittadina, invita a presiedere il Comitato scientifico il geologo Michele Gortani e l’antropologo Fabio Frassetto, due nomi di prestigio consolidato, riserva a sé le funzioni di segretario, il ruolo con cui può operare come il vero animatore del sodalizio. Fino dalla fondazione, il Centro riunisce giovani promesse dell’archeologia, come gli etruscologi Mario Zuffa e Rosanna Pincelli, amatori e dilettanti ai quali affida, dietro l’autorizzazione della Soprintendenza, compiti di ricognizione sul territorio e di sopraluogo su scavi per opere edilizie pubbliche e private.
Al Centro Malavolti associa una Sezione modenese, di cui affida la presidenza all’amico Cesare Giorgi, riservandosi, ancora, il ruolo di segretario. E’ la Sezione modenese a curare la pubblicazione del periodico del Centro, Emilia preromana, che stampa studi di grande rilievo, primi quelli di Malavolti, e che conoscerà una lunga esistenza, seppure non priva di persistenti silenzi, destinata a spegnersi, nel dopo un diuturno torpore.
Tra i testi che stampa sulla propria rivista, suscita autentico clamore, nel , la recensione dell’atlante delle terremare emiliane di Pia Laviosa Zambotti, una studiosa già autorevole, di cui, nonostante l’antica consuetudine e la deferenza mostrata nei primi rapporti, Malavolti demolisce senza pietà gli assunti, dimostrando che il ricercatore che si è imposto per le indagini sull’eneolitico si sta preparando ad una sintesi organica di tutta la preistoria emiliana, compresa la civiltà delle terremare, il tema dei grandi studi ottocenteschi. La recensione è la sfida aperta ad un’autorità riconosciuta, la prova che Fernando Malavolti sa di poter contare, ormai, su una considerazione che gli consente di cimentarsi nella polemica più rischiosa.
Conferma il rilievo la polemica con Giorgio Monaco, direttore del Museo archeologica di Parma, di cui Malavolti irride, sul terzo numero di Emilia preromana, la tesi proposta, nel corso di un congresso tenutosi a Firenze nel 1950, sulle relazioni tra civiltà “appenniniche” e civiltà terramaricole, rilevandovi ingenuità in cui non sarebbe incorso il più ingenuo dei dilettanti. Comprensibilmente risentito, il 22 maggio 1954 Monaco indirizza a Malavolti una lettera incredula, con la quale contesta gli aggettivi, molti assai indelicati, con cui lo studioso modenese ha qualificato le sue ipotesi promettendo, velatamente, di rivalersi quando se ne offrisse l’occasione.
Singolarmente, morto Malavolti, Giorgio Monaco, nominato soprintendente alle antichità per l’Emilia Romagna, sarà la controparte della vedova, Elsa Adani Malavolti, nel confronto per la consegna della collezione, che si realizzerà in tempi alquanto lenti per la difficoltà a ordinare materiali che Malavolti aveva sistemato provvisoriamente, in attesa di poterli classificare e ordinare compiutamente.
Animatore della vita associativa della Sezione del Cai, dell’attività del Gruppo speleologico e di quella della Sezione del Centro emiliano di studi preistorici, Malavolti alimenta a Modena la più intensa vitalità naturalistica ed archeologica. Dilata ulteriormente le attività di cui è il perno intraprendendo, con il discepolo Benedetti, lo studio dei materiali del Museo comunale, la cui collocazione è il frutto di una successione di riordini estemporanei, dei quali intende proporre una disposizione più funzionale. Affronta il compito nelle condizioni più difficili, siccome i materiali sono stati rimossi dalle sale del Museo, durante la guerra, per essere riparati in luoghi più sicuri, sono stati ricollocati, quindi, nelle sale di esposizione con qualche confusione.
Affronta il nuovo impegno con la determinazione che ne contraddistingue tutte le attività: come i propositi diversi anche i progetti museografici saranno dissolti dalla scomparsa prematura. Tanta passione non lascerà a Modena un’autentica scuola: profusi in un numero tanto breve di anni, passione ed entusiasmo non consentono al farmacista paletnografo di educare un vero cenacolo di allievi. L’unico discepolo modenese del corso di Bologna, Benedetti, proseguirà l’opera del maestro come direttore onorario del Museo e direttore di Emilia preromana.
Nel 1952 Malavolti è tra i redattori dell’edizione del Cimone, il periodico della Sezione modenese del Cai, che celebra i venticinque anni del sodalizio. Tracciando il bilancio di ventun anni di attività del Comitato scientifico, intrinsecamente connessa a quella del Gruppo speleologico, il naturalista modenese ricorda che nel 1932, alla nascita del Gruppo, le cavità del Modenese censite e descritte erano 35, che nel 1952 sono salite a 320, 76 delle quali nell’area dell’impegno più significativo del Gruppo, l’alta valle della Secchia. L’articolo sottace, ma Mario Bertolani ricordava che nel bilancio della lunga attività speleologica doveva includersi la scoperta e la descrizione, da parte di Malavolti, di un fenomeno geologico prima mai descritto, la forma delle cavità che Malavolti ha definito "anse carsiche". Vi si deve aggiungere, ancora, la scoperta di un coleottero troglodita, che gli amici denomineranno Duvalius Malavoltii.
Il progetto sull’Eneolotico
Costituiscono espressione essenziale del lavoro di Malavolti gli Appunti per una cronologia relativa del neo-eneolitico emiliano, che vedono la luce, in due parti, su due numeri successivi di Emilia preromana, il primo pubblicato nel 1952, il secondo nel 1953. E’ la proposta di una successione cronologica delle colture neo-eneolitiche dell’Emilia, con la definizione delle correlazioni con quelle delle altre regioni italiane. Un cospicuo novero di stazioni, che hanno offerto agli archeologi un profluvio di materiali di immenso interesse, che nessuno è riuscito, precedentemente, a collocare cronologicamente, viene disposto in ordinata successione cronologica, con il corredo di quadri comparativi che definiscono, nella successione, l’evoluzione dei manufatti litici e ceramici, la conversione della forma delle capanne, la lenta trasformazione della fauna, selvatica e domestica, che gli abitatori delle stazioni mostrano di utilizzare.
Oltremodo organico nella propria schematicità, il lavoro è il frutto dell’opera di Malavolti tra i colli e le cave modenesi, la seconda tappa dell’impresa scientifica iniziata, nel 1940, con la pubblicazione delle prime notizie sugli scavi del Pescale. Nel suo contesto si intravvede, nitidissimo, il disegno di una grande monografia, nella quale ogni tavola comparativa avrebbe dovuto svilupparsi in decine di pagine, corredate da centinaia di disegni e fotografie, la grande opera alla cui redazione Malavolti sta preparandosi con la predisposizione delle schede bibliografiche, con la classificazione del materiale, con le visite ai musei davanti alle cui vetrine perfeziona le analisi comparative. La scomparsa prematura farà dello schizzo il contributo definitivo dello studioso modenese al progresso della paletnologia.
Improvvisamente, la fine
Nell’estate del 1954 il prestigio accademico di Fernando Malavolti conosce la consacrazione più luminosa nel corso di un convegno dell’Associazione internazionale per lo studio del Quaternario, che si tiene a Roma e a Pisa tra il 30 agosto e il 10 settembre. Presenta una comunicazione, tutti i colleghi si informano sui suoi lavori, gli arbitri della vita universitaria gli assicurano, sulla base dei risultati dell’esame di docenza, non ancora pubblici ma noti, la cattedra che sta per essere istituita a Trieste. Tornato a Modena Malavolti festeggia il successo con gli amici, informa l’allieva Benedetti che sarà il suo assistente a Trieste.
Quando intravvede, ormai prossimo, il raggiungimento della meta tanto agognata Fernando Malavolti è già preda della malattia. La prima avvisaglia è intervenuta praticando l’antica passione della speleologia. Una spedizione alla grotta di Monte Rosso, nel novembre del 1953, ha fatto vivere al gruppo speleologico di cui è tra i veterani il brivido del rischio. Il gruppo sta esplorando una grotta che si apre sul greto della Secchia quando il rivolo che scorre sul fondo si intorbida e si ingrossa: una pioggia improvvisa, di cui dalla grotta non si è potuto avere percezione, sta gonfiando il fiume, che alimenta il corso d’acqua sotterraneo. Il cunicolo di ingresso è basso, e in breve potrebbe essere ricolmato. Bertolani e Malavolti si consultano: potrebbero mettersi al riparo al sommo della cavità, dove l’acqua non potrà salire, ma la pioggia potrebbe prolungarsi, e il cunicolo rimanere occluso per giorni interi. I compagni di spedizione affrontano, perciò, il cunicolo trasformato in canale prima che l’acqua ne raggiunga la sommità.
Carponi, avanzando contro la corrente che si fa vieppiù violenta, percorrono il cunicolo nel tempo più breve. Stanno per raggiungere la luce quando Malavolti pare non riuscire più a procedere. Raggiunge, con gli altri, l’imboccatura, ma è esausto, e impiega lunghi minuti per ritrovare le forze. Conoscendone il vigore gli amici si meravigliano, immaginano un malessere temporaneo. E’, invece, il primo segno della malattia mortale.
L’attività di assistente volontario lo ha portato, intanto, sulla strada della docenza in paletnologia, che consegue nel mese di aprile del 1954. Quando il diploma viene stilato dalla segreteria ministeriale, il 21 gennaio 1955, Fernando Malavolti non è più: lo ha ucciso, il 2 settembre, un linfogranuloma riconosciuto nei mesi successivi all’esame di docenza e progredito con decorso fulminante. Il diploma giunge alla giovane vedova, costretta ad abbandonare, repentinamente, le esplorazioni appenniniche con l’appassionato naturalista di cui è stata la prima collaboratrice, e ad immergersi, per mantenere i figli, in quei problemi di gestione della farmacia per i quali Fernando Malavolti non aveva mai nascosto la propria insofferenza.
Antonio Saltini
Scritti menzionati
-Bertolani M., Bertolani Marchetti D., Guareschi C., Moscardini C., Malavolti F., Gambigliani Zoccoli A., Violi F., Studio sulla formazione gessoso calcarea nell’alta valle del Secchia (Appennino Reggiano), Cai, Soc. Tip. Modenese, Modena 1949
-Graziosi P., Ricordo di Fernando Malavolti, in In memoria di Fernando Malavolti, Soc. Tip.Editrice Modenese, Modena 1956
-Malavolti F., Terreni miocenici tra il fiume Panaro e il torrente Samoggia: studio geomorfologico, idrologico, chimico, Tesi di Laurea in Farmacia, Modena 1942
-Malavolti F. Diario delle ricerche, quad. I, II, IV
Malavolti F., Lettere a studiosi spedite dal 6 – 12- 38- al 21 –11- 41, quad.
-Malavolti F., La stazione del Pescale (Modena) Scavi 1937-39, Guf Modena, Sez. paletnologica ed archeologica, estr. da Studi etruschi, Firenze 1942
-Malavolti F., Ventun anni del Gruppo Speleologico e del Comitato Scientifico, in Il Cimone, mensile della Sez. di Mo. Del Club Alpino, n.o spec. Venticinquennio della Sez. di Mo. del C. A. I., 27 febb. 1952
-Malavolti F., Appunti per una cronologia relativa del neo-eneolotico emiliano, Centro emiliano studi prestorici, Stab. poligr. Artioli, Modena 1953
Zuffa M., Cenni biografici e bibliografici, in Emilia preoromana, IV, 1953-55, pp. VII-XIV
da Memorie scientifiche, giuridiche, letterarie, s. VIII, vol. VI, fasc. II/2003, Accademia Nazionale di Scienza, Lettere e Arti, Mucchi, Modena 2003