Filocolo/Libro quinto/6

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Libro quinto - Capitolo 6

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In questa maniera molti giorni dimorando, uno di quelli avvenne che essendo Filocolo co’ suoi compagni entrato in un dilettevole boschetto, seguito da Biancifiore e da molte altre giovani, con lento passo, davanti a loro picciolissimo spazio, sanza esser cacciato, si levò un cervio: il quale come Filocolo vide, preso delle mani d’uno dei suoi compagni un dardo, correndo il cominciò a seguire; e già parendogli essere al cervio vicino, s’aperse, e vibrato il dardo col forte braccio, quello lanciò, credendo al cervio dare; ma tra il Cervio e Filocolo era quasi per diamitro posto un altissimo pino, nella stremità del cui duro pedale il dardo percosse, e con la sua foga un pezzo della dura corteccia scrostò dell’antico piede, egli e ella assai a quello vicini cadendo: alla quale sangue con dolorosa voce venne appresso, non altrimenti che quando il pio Enea del non conosciuto Polidoro, sopra l’arenoso lito, levò un ramo, e disse: - O miserabili fati, io non meritai la pena ch’io porto, e voi non contenti ancora mi stimolate con punture mortali! Oh felici coloro, a cui è licito il morire, quando quello adimandano! -. E qui si tacque. Questa voce il veloce corso di Filocolo e de’ suoi compagni, quasi tutti pieni di paura e di maraviglia, ritenne, e quasi storditi stavano riguardando, non sappiendo che fare; ma dopo alquanto Filocolo con pietosa voce così cominciò a dire: - O santissima arbore, da noi non conosciuta, se in te alcuna deità si nasconde, come crediamo, perdona alle non volonterose mani de’ tuoi danni: caso, non deliberata volontà, ci fece offendere. Purghi la tua pietà il nostro difetto, i quali presti ad ogni satisfazione, temendo la tua ira, siamo disposti -. Soffiò per la vermiglia piaga alquanto il tronco, e poi il suo soffiare convertendo in parole, così rispose: - Giovani, niuna deità in me si richiude, la quale se si richiudesse, i vostri pietosi prieghi avrieno forza di piegarla a perdonarvi: dunque, maggiormente me, il quale sanza forza di vendicarmi dimoro, disideroso della grazia non tanto degli uomini, quanto ancora delle fiere, con ciò sia cosa che ciascuna nuocere mi possa, e nuoccia tal volta, né io possa ad alcuno nuocere; però bastimi il vostro pentere per satisfazione, né vi sia questo dagl’iddii imputato in colpa -. Seguì a questa voce Filocolo: - Dunque, o giovane, se gl’iddii, gli uomini e le fiere ti sieno graziosi e i tuoi rami con pietosa sollecitudine conservino interi, non ti sia noia dirci chi tu se’, e per che qui relegato dimori -. Così rispose il pedale: - L’amaritudine, che la dolente anima sente, non può torre che a’ vostri prieghi non sia sodisfatto, perché tanto è dalla dolcezza di quelli legata, che posponendo l’angoscia, disiderosa di piacervi, vuole che io vi risponda; e però così brievemente vi dico. La genitrice di me misero mi diede per padre un pastore chiamato Eucomos, i cui vestigii quasi tutta la mia puerile età seguitai; ma poi che la nobiltà dello ’ngegno, del quale natura mi dotò venne crescendo, torsi i piedi dal basso calle, e sforzandomi per più aspre vie di salire all’alte cose, avvenne che, per quelle incautamente andando, nelle reti tese da Cupido incappai, delle quali mai isviluppare non mi potei: di che con ragione dolendomi, per miserazione degl’iddii, in quella forma che voi mi vedete, per fuggire peggio, mi trasmutaro -. E qui si tacque.