Filocolo/Libro secondo/48

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Libro secondo - Capitolo 48

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Libro secondo - Capitolo 48
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La misera Biancifiore, non sappiendo perché con tanto furore né sì subitamente presa fosse, quasi tutta stupefatta, sanza alcuna parola sostenne la grave ingiuria, entrando nell’oscurissima e tenebrosa carcere; la quale serrata, acciò che alcuna persona materia non avesse di poterle in alcuno atto parlare, a cui ella scusandosi poi la sua scusa ad altri porgesse, il re prese a sé la chiave. E dimorando là entro Biancifiore, niuno sì picciolo movimento v’era che forte non la spaventasse, e varie imaginazioni, che la fantasia le recava avanti, le porgeano molta paura, e ’l suo viso impalidito e smorto non dava alcuna luce nella cieca prigione; onde ella per greve doglia incominciò a piangere e a dire: - Oimè misera, quale può essere la cagione di tanta ingiuria? In che ho io offeso? Certo in niuna cosa, ch’io sappia. Io mai né con parole né con operazioni non lesi la reale maestà, e la reina mia cara donna sempre onorai, né mai rubando né spogliando i santi templi e gli altari degl’iddii commisi sacrilegio, né mai si tinsero le mie mani né l’altrui per me d’alcun sangue: dunque questo perché m’è fatto? Oimè, iniqua fortuna, maladetta sii tu! Or non ti potevi tu chiamare sazia delle mie avversità, pensando che divisa m’avevi da quella cosa nella quale ogni mia prosperità e allegrezza dimorava, sanza volermi ancora fare ora questa vergogna d’essere messa in prigione sanza averlo meritato? Deh, se tu avevi volontà di nuocermi, perché avanti non mi uccidevi? Credo che conosci che la morte mi sarebbe stata somma felicità, però che i miei sospiri avrebbe terminati. Stiano adunque i miseri sicuri contra i tagli delle spade e contra le punte delle agute lance, infino a tanto che il cielo avrà il loro tempo volto, però che fortunoso caso di vita non li priverebbe. Oimè, or tu mi ti mostrasti poco avanti così lieta, faccendomi più degna che alcuna altra giovane della real casa di portare il santo paone alla mensa dove il re sedea, accompagnato da quelli baroni, i quali tutti in mio onore e servigio si vantarono! E questa la fine che tu vuoi a’ loro vanti porre? Oimè, com’è laida e vituperevole! Tosto hai mutato viso a mio dannaggio! Maladetto sia il giorno del mio nascimento! Io fui cagione di sforzata morte al mio padre e alla mia madre, i quali io già mai non vidi, e ora, non so come, la mi pare avere a me meritata. Oimè, che gl’iddii e ’l mondo m’hanno abandonata, e massimamente tu, o Florio, in cui io solamente portava speranza! Deh, or dove se’ tu ora o che fai tu? Forse pensi che il tuo padre m’acconci per mandare a te, però che dimandata me gli hai, e io sto in prigione piena di varie sollecitudini, e non so per che né a che fine, né se il tuo padre intende di farmi morire! Deh, or non t’è egli la mia avversità palese? Non riguardi tu il caro anello da me ricevuto, il quale apertamente la ti significherebbe? Oimè, che io dubito che tu più nol riguardi, sì come cosa la quale credo che poco cara ti sia! Immantanente io imagino che tu m’abbia dimenticata! E chi sarebbe quel giovane sì costante e tanto innamorato, che vedendo tante belle giovani, quante io ho inteso che costà ha, scalze dintorno alle fredde fontane sopra i verdi prati, coronate di diverse frondi cantare e fare maravigliose feste, non lasciasse il primo obietto pigliandone un secondo? E se tu non m’hai dimenticata, perché non mi soccorri? Chi sa se io dopo questa prigione avrò peggio? E chi sa se io ci sarò di fame lasciata morire entro, o se di me fia fatta altra cosa? Oimè, ora se io morissi, come faresti tu? Io per me mi curerei poco di morire, se io solamente una volta veder ti potessi avanti, e se io non credessi che a te fosse il mio morire gravoso a sostenere. Oimè, che io credo che se tu sapessi che io fossi qui, la mia liberazione sarebbe incontanente. E se io potessi questo in alcun modo farloti sentire, ben lo farei; ma io non posso. Oimè! ora ove sono tanti amici tuoi, a quanti di me solea per amor di te calere, quando tu c’eri? Non ce ne ha egli alcuno il quale tel venisse a dire? Io credo di no, però che gli amici della prosperità insieme con essa sono fuggiti. Ma l’anello ch’io ti donai ha egli perduta la virtù? Io credo di sì, però che alle mie avversità niuna speranza è lasciata. O santa Venus, al cui servigio l’animo mio è tutto disposto, per la tua somma deità non mi abandonare, e per quello amore che tu portasti al tuo dolce Adone, aiutami. Io sono giovane usata nelle reali case, dove io nacqui, con molte compagne continuamente stata: ora non so perché sia sì vilmente rinchiusa. Sola la paura mi confonde: a me pare che quante ombre vanno per la nera città di Dite, tutte mi si parino davanti agli occhi con terribili e spaventevoli atti. Mandami alcuno de’ tuoi santi raggi in compagnia; e in bene della mia vita adopera quello che tu meglio di me conosci che bisogna, ché tu vedi bene che io aiutare non mi posso -. Non avea Biancifiore ancora compiute di dire queste parole, che nella prigione subitamente apparve una gran luce e maravigliosa, dentro alla quale Venere ignuda, fuor solamente involta in uno porporino velo, coronata d’alloro, con un ramo delle frondi di Pallade in mano dimorava. La quale, quivi giunta, subitamente disse: - Ahi, bella giovane, non ti sconfortare. Noi già mai non ti abandoneremo: confortati. Credi tu che la nostra deità abandoni così di leggiere i suoi suggetti? Le tue voci ci percossero gli orecchi infino nel nostro cielo, al pietoso suono delle quali io subitamente a te sono discesa, e mai non ti lascierò sola. E non dubitare di cosa che stata ti sia infino a qui fatta, che da questa ora avanti niuna cosa ti sarà fatta, per la quale altra offesa che sola un poco di paura te ne seguisca -. Quando Biancifiore vide questo lume e la bella donna dentro alla prigione, tutta riconfortata, si gittò ginocchione in terra davanti ad essa, dicendo: - O misericordiosa dea, lodata sia la tua potenza. Niuno conforto era a me misera rimaso, se tu venendo non m’avessi riconfortata. Ahi, quanto ti dobbiamo essere tenuti pensando alla tua benignità, la quale non isdegnò di venire de’ gloriosi regni in questa oscurità e solitudine a darmi conforto, non avendo io tanta grazia già mai meritata. Ma dimmi, pietosa dea, poi che con le tue parole m’hai renduto alquanto del perduto conforto, se licito m’è a saperlo, quale è la cagione per che fatta m’è questa ingiuria? -. A cui la dea rispose: - Niuna altra cagione ci è, se non per che tu e Florio siete al mio servigio disposti; ma non sotto questa spezie s’ingegna il re di nuocerti, ma il modo trovato da lui, col quale egli si ricuopre, è falso e malvagio: ma egli è ben conosciuto tanto avanti, che alla tua fama non può nuocere, e ancora sarà più manifesto. E d’altra parte, io poco avanti discesa giù dal cielo, ordinai la tua diliberazione, in maniera che, avanti che il sole venga domane al meridiano cerchio, tu sarai renduta al re e tornata in quella grazia che solevi. Più avanti non te ne dirò ora, però che tutto vedrai e saprai domane -. Con questi ragionamenti e con molti altri si rimase Biancifiore con la santa dea infino al seguente giorno, quasi rassicurata, sanza prendere alcuno cibo, infino che tratta fu di prigione per menare alla morte.