Filocolo/Libro secondo/7

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Libro secondo - Capitolo 7

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Niente piacquero al re l’ascoltate parole; ma celando il suo dolore con falso riso, rispose: - Però non cessi il vostro con riprensione gastigarli e con ispaventevoli minacce impaurirli. Essi ancora per la loro giovane età sono da potere essere ritratti da ciò che l’uomo vuole; e io, quando per voi dell’incominciata follia rimaner non si volessono, prenderò in questo mezzo altro compenso, acciò che il vostro onore per vile cagione non diventi minore -. E detto questo, con l’animo turbato si partì da loro, e entrossene in una camera; e quivi da sé cacciando ogni compagnia, solo a sedere si pose, e, con la mano alla mascella, cominciò a pensare e a rivolversi per la mente quanti e quali accidenti pericolosi poteano avvenire del nuovo innamoramento; e di tale infortunio tra se medesimo cominciò a dolersi. E mentre in tal pensiero il re dimorava occupato, la reina, passando per quella camera, sopravenendo il vide, e con non poca maraviglia, fermata nel suo cospetto, gli disse: - O valoroso signore, quale accidente o qual pensiero occupa sì l’animo vostro, che io, pensando, nell’aspetto vi veggo turbato? Non vi spiaccia che io il sappia, però che niuna felicità né avversità ancora dovete sanza me sostenere: se voi ’l mi dite, forse o consiglio o conforto vi porgerò -. Rispose il re allora con voce mescolata di sospiri, e disse: - E’ mi piace bene che a voi non sia la mia malinconia celata, la cagione della quale è questa: con ciò sia cosa che la fortuna infino a questo tempo ci abbia con la sua destra tirati nell’auge della sua volubile rota, accrescendo il numero de’ nostri vittoriosi triunfi, ampliando il nostro regno, multiplicando le nostre ricchezze e concedendone, insieme con gli altri iddii, cara progenie, a cui la nostra corona è riserbata, ora pensando dubito che ella, pentuta di queste cose, non s’ingegni con la sua sinistra d’avvallarci. E gl’iddii credo che ciò consentono; e la maniera è questa: niuna allegrezza fu mai maggiore a noi, che quella quando il nostro unico figliuolo dagl’iddii lungamente pregati ricevemmo; e sapete che ne’ nostri regni nella sua natività niuno altare fu sanza divoto fuoco e sanza incensi, né niuno iddio fu che con divota voce non fosse per le nostre città ringraziato. Ora, conoscendo la fortuna quanto questo figliuolo ne sia caro per le rendute grazie, per porre noi in maggior doglia e tristizia, in vile modo s’ingegna di privarcene, minuendo i nostri onori, essendo egli in vita, dandoci manifesto essemplo che, poi che alla più cara cosa comincia, discenderà sanza fallo all’altre minori: e udite come ella s’è ingegnata di levarci Florio. Essa ha tanto il giovane figliuolo di Citerea, non meno mobile di lei, con lusinghe mosso, che egli, entrato nel giovane petto di Florio, l’ha sì infiammato della bellezza di Biancifiore, che Paris di quella di Elena non arse più; e non vede più avanti che Biancifiore, secondo che i loro maestri m’hanno detto poco avanti. E certo io non mi dolgo che egli ami, ma duolmi di colei cui egli ama, perché alla sua nobiltà è dispari. Se una giovane di real sangue fosse da lui amata, certo tosto per matrimonio gliele giugneremmo; ma che è a pensare che egli sia innamorato d’una romana popolaresca femina, non conosciuta e nutricata nelle nostre case come una serva? Ora adunque che cercherete voi più avanti della mia malinconia? Non è questa gran cagione di dolersi, pensando che un sì fatto giovane, il quale ancora dee sotto il suo imperio governare questi regni, sia per una feminella perduto? Certo io non avria avuta alcuna malinconia se gl’iddii l’avessero al loro servigio chiamato nella sua puerizia, come Ganimede fecero. E certo la morte di Gilo non fu da Xenofonte suo padre sostenuta con sì forte animo, com’io avrei fatto o farei, se gl’iddii avessero consentito ch’io avessi per simile caso perduto Florio che Xenofonte perdé Gilo. Né Anassagora ancora ebbe cagione di piagnere, però che saviamente aspettava cosa naturale del suo figliuolo, come io medesimo quello accidente sanza lagrime aspetterei. Ma pensando che per vile avvenimento, vivendo il mio figliuolo, io il posso più che morto chiamare, il dolore che quinci mi nasce mi trasporta quasi infino agli ultimi termini della vita. Né so che di questo io mi faccia, ché io dubito che, se io di tal fallo il riprendo, o m’ingegno con asprezza di ritrarlo da questa cosa, che io non ve lo accenda più suso, o forse egli del tutto non m’abandoni e vada vagabundo per gli strani regni, fuggendo le mie riprensioni: e così avremmo sanza alcuno utile accresciuto il danno. E d’altra parte se io taccio questa cosa, il fuoco ognora più s’accenderà, e così mai da lei partire nol potremo -.