Filocolo/Libro terzo/18

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Libro terzo - Capitolo 18

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Stette Florio alla tavola sanza prendere alcun cibo, rivolgendo in sé l’udite parole da Fileno, sostenendo con forte animo la noiosa pena che lo sbigottito cuore sentiva per quelle. Ma poi che le tavole furono levate, e a ciascuno fu licito d’andare ove gli piacea, Florio soletto se n’entrò nella sua camera, e serratosi in quella, sopra il suo letto si gittò disteso, e sopra quello incominciò il più dirotto pianto che mai a giovane innamorato si vedesse fare; e nel suo pianto incominciò a chiamare la sua Biancifiore e a dire così: - O dolce Biancifiore, speranza della misera anima, quanto è stato l’amore ch’io t’ho portato e porto da quell’ora in qua che prima ne’ nostri giovani anni c’innamorammo! Certo mai alcuno donna sì perfettamente non amò, come io ho te amata: tu sola se’ stata sempre donna del misero cuore. Niuna cosa fu che per amore di te io non avessi fatto, niuna gravezza è che lieve non mi fosse paruta. E certo, quando il noioso caso della misera morte, alla quale condannata fosti, fu, niuno dolore fu simile al mio, infino a tanto che con la mia destra mano liberata non t’ebbi. Deh, misera la vita mia, quanti sono stati i miei sospiri, poi che licito non mi fu di poterti vedere! Quante lagrime hanno bagnato il dolente petto, nel quale io continuamente effigiata ti porto così bella, come tu se’! Né mai niuno conforto poté entrare in me sanza il tuo nome. Niuno ragionamento m’era caro sanza esservi ricordata tu, di cui ora la speranza così spogliato mi lascia, pensando che me per Fileno abbi abandonato, e la cagione per che vedere non posso. Certo tu non puoi dire che io mai altra donna che te amassi: da assai sono stato tentato, mai niuna poté vantarsi che alquanto al loro piacere io mi voltassi. Né in altra cosa conosco me averti già mai fallito: dunque perché Fileno più di me t’è piaciuto? Deh or non sono io figliuolo del re Felice, nipote dell’antico Atalante sostenitore de’ cieli? Certo sì sono: e Fileno è un semplice cavaliere. Luce il viso suo di più bellezza che ’l mio? Mai no! E la sua virtù più che la mia? Or fosse essa pur tanta! Se forse valoroso giovane ti pare sotto l’armi, quanto il mio valore sia non ti dee essere occulto a tal punto in tuo servigio s’adoperò. Doni so bene che a questo non t’hanno tratta; ma io dubito che l’animo tuo, il quale solea essere grandissimo, sia impicciolito, e dubiti d’amare persona che maggior titolo porti di te, dubitando d’essere da me sdegnata. Certo questa dubitazione non dovea in te capere, però ch’io so te essere degli altissimi imperadori romani discesa; la qual cosa se ancora vera non fosse, non potrebbe tra te e me capere sdegno. Dunque, perché m’hai lasciato? Ahimè, misera la vita mia! Quando troverai tu un altro Florio, che sì lealmente t’ami com’io t’ho amata? Tu nol troverai già mai! Tu m’hai data materia di sempre piagnere, però che mai del mio cuore tu non uscirai, né potresti uscire; e sempre ch’io mi ricorderò me essere del tuo cuore uscito, tante fiate sosterrò pene sanza comparazione. E quello che più in questo mi tormenta, si è che io conosco te non poter negare l’essere di Fileno innamorata, però che egli m’ha mostrato quel velo col quale tu coprivi la bionda testa, quando con pietose parole ti domandò una delle tue gioie, e tu gli donasti quello. Oimè misero, ove si vogliono oramai voltare i miei sospiri a domandare conforto, poi che tu m’hai lasciato, ch’eri sola mia speranza? Oimè dolente, erati così noioso l’attendere di potermi vedere, che per così poco di tempo me per un altro, cui più sovente veder puoi, hai dimenticato? Io non so che mi fare: io disidero di morire e non posso -. E lagrimando per lungo spazio, ricominciava a dire: - O Amore, valoroso figliuolo di Citerea, aiutami. Tu fosti del mio male cominciatore: non mi abandonare in sì gran pericolo! Tu sai che io ho sempre i tuoi piaceri seguiti. Vagliami la vera fede che io ho portata alla tua signoria, la quale me a sé sottomettere non dovea sanza intendimento d’aiutarmi infino alla fine de’ miei disii. Volessero gl’iddii che mai la tua saetta non si fosse distesa verso il mio cuore, né che mai veduta fosse stata da me la luce de’ begli occhi di Biancifiore da’ quali ora per la tua potenza medesima tradito e ingannato mi trovo! Oimè misero, quante fiate già per la tua potenza mi giurò ella che mai me per altrui non lascerebbe, e io a lei simile promissione feci! Io l’ho osservata, ma ella m’ha abandonato. Ove è fuggita la promessa fede? E tu dove se’, o Amore, il cui potere è stato schernito da questa giovane? Come non ti vendichi, e me similmente? Se tu così notabile fallo lasci impunito chi avrà in te già mai fidanza? Tu perseguitasti il misero Ipolito infino alla morte perché egli sdegnava tua signoria: come costei, che l’ha ingannata, non punisci? Io non ne cerco però grave punizione, ma solamente che tu la ritorni nel pristino stato; e se questo conceder non mi vuoi, consenti di chiudere con le tue mani i miei occhi acciò che più la mia vita in sì fatta maniera non si dolga. Deh, ascolta i prieghi del misero, o caro signore; rivolgiti verso lui con pietoso viso, acciò ch’egli possa avere alcuna consolazione anzi la morte, la quale tosto, in dispiacere del mio padre, prendere mi possa, il quale di questo male è cagione, però che se egli non fosse, io non sarei stato lontano, e essendo stato presente, la mia Biancifiore non avrebbe me per Fileno dimenticato: avvegna che ancora io credo che per paura di lui ella si sia ingegnata d’avere altro amadore. Oimè, che nulla cagione è che a me non sia contraria! A me avviene sì come alla nave, alla quale, già mezza inghiottita dalle tempestose onde, ogni vento è contrario. O misera fortuna, i tuoi ingegni aguzzano a nuocere a me, apparecchiato di ruinare! Oimè, perché questo sia io non so. Tu fosti già a me benignissima madre, e ora mi se’ acerba matrigna. Io mi ricordo già sedere nella sommità della tua rota, e veder te con lieto viso onorarmi: e questo era quando il lieto viso di Biancifiore m’era presente, mostrandomi quello amore che parimente insieme ci portavamo; ma tu, credo, invidiosa di sì graziosa gioia com’io sentiva, non sostenesti tener ferma la tua volubile rota, ma voltando, non sanza mio gran dolore, allontanandomi dal bel viso, mi pingesti a Montoro. Qui con grandissimi tormenti stando, imaginava me essere nella più infima parte della tua rota, né credea più potere discendere; ma tosto con maggiore infortunio mi facesti conoscere quella avere più basso luogo: e questo fu quando non bastandoti me avere allontanato da lei, t’ingegnasti d’opporre alle forze degl’iddii, volendola far morire, alla cui salute, non tua mercé, io fui arditissimo difenditore. E in tale stato, con più sospiri che per lo passato tempo avuti non avea, mi tenesti grande stagione, sperando io di dovere risalire, se si voltasse: però che tanto m’era paruto scendere, che ’l centro dell’universo mi parea toccare. Ma tutto ciò non bastandoti, ancora volesti che niuno luogo fosse nella tua rota, che da me non fosse cercato; e ha’mi ora in sì basso luogo tirato, che con la tua potenza, ancora che benigna mi ritornassi come già fosti, trarre non me ne potresti. Io sono nel profondo de’ dolori e delle miserie, pensando che la mia Biancifiore abbia me per altrui abandonato. O dolore sanza comparazione! O miseria mai non sentita da alcuno amante che è la mia! Avvegna che io non sia il primo abandonato, io son solo colui che sanza legittima cagione sono lasciato. La misera Isifile fu da Giansone abandonata per giovane non meno bella e gentile di lei e per la salute propia della sua vita, la quale sanza Medea avere non potea. Medea poi per la sua crudeltà fu giustamente da lui lasciata, trovando egli Creusa più pietosa di lei. Oenone fu abandonata da Paris per la più bella donna del mondo. E chi sarebbe colui che avanti non volesse una reina discesa del sangue degl’immortali iddii, che una rozza femina usata ne’ boschi? Oh quanti essempli a questi simili si troverebbero! Ma al mio dolore niuno simile se ne troverebbe, che un figliuolo d’un re per un semplice cavaliere sia lasciato dove la virtù avanza nell’abandonato. Deh, misera fortuna, se io avessi ad inganno avuto l’amore di Biancifiore, come Aconzio ebbe quello di Cidipe, certo alquanto parrebbe giusto che io fossi per più piacevole giovane dimenticato; ma io non con inganno, non con forza, non con lusinghe ricevetti il grazioso amore, anzi benignamente e con propia volontà di lei, cercando co’ propii occhi se io era disposto a prenderlo, e trovando di sì, mel donò: il qual ricevuto, a lei del mio feci subitamente dono. Adunque perché questa noia? Perché consentire me per altro essere dimenticato? Oimè, che le mie voci non vengono alle tue orecchi. Or volessero gl’iddii che mai lieta non mi ti fossi mostrata! Certo io credo che ’l mio dolore sarebbe minore, però che io reputo felicissimo colui che non è uso d’avere alcuna prosperità, però che da quella sola, perdendola, procede il dolore. E di che si può dolere chi dimora sempre con quello ch’egli ebbe? Tu ora m’hai posto sì abasso che più non credo potere scendere: nel quale luogo, sì come più doloroso che alcuno altro, mai sanza lagrime non dimorerò. Piaccia agl’iddii che sopravegnente morte tosto me ne cavi -. E poi che queste cose piangendo avea dette, rimirava all’anello che in dito portava, e diceva: - O bellissimo anello, fine delle mie prosperità e principio delle miserie, gl’iddii facciano più contenta colei che mi ti donò, che essi non fanno me. Deh, come non muti tu ora il chiaro colore, poi che ha la tua donna mutato il cuore? Oimè, che perduta è la reverenza che io ho a te e all’altre cose da lei ricevute portata! Ogni mio affanno in picciola ora è perduto: ma poi che ella mi s’è tolta, tu non ti partirai da me. Tu sarai etterno testimonio del preterito amore, e così come io sempre nel cuore la porterò, tu così sempre nella usata mano starai -. E poi bagnandolo di lagrime, infinite volte il baciava chiamando la morte che da tale affanno col suo colpo il levasse, e più forte piangendo diceva: - Oimè, perché più si prolunga la mia vita? Maladetta sia l’ora ch’io nacqui e che io prima Biancifiore amai. Or fosse ancora quel giorno a venire, né già mai venisse. Ora fossi io in quell’ora stato morto, acciò che io essemplo di tanta miseria non fossi nel mondo rimaso. Ma certo la mia vita non si prolungherà più! -. E postasi mano allato, tirò fuori un coltello, il quale da Biancifiore ricevuto avea, dicendo: - Oggi verrà quello che la dolorosa mente s’imaginò quando donato mi fosti, cioè che tu dovevi essere quello che la mia vita terminerebbe: tu ti bagnerai nel misero sangue, tenuto vile dalla tua donna, la quale, sappiendolo, forse avrà più caro avermiti donato, per quello che avvenuto ne sarà, che per altro -. Mentre che Florio piangendo dolorosamente queste parole diceva, disteso sopra ’l suo letto, Venere, che il suo pianto avea udito, avendo di lui pietà, discese del suo cielo nella trista camera, e in Florio mise un soavissimo sonno, nel quale una mirabile visione gli fu manifesta.