Filocolo/Libro terzo/2

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Libro terzo - Capitolo 2

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Menando Florio, per la futura speranza che lo ’ngannava, lieta vita, la non pacificata fortuna, invidiosa del fallace bene, non poté sostenere di tenergli alquanto celato il nebuloso viso, ma affrettandosi d’abreviare il lieto tempo, con questi pensieri un giorno subitamente l’assalì. Era entrato lo innamorato giovane nell’ora che il sole cerca l’occaso in un piacevole giardino, d’erbe e di fiori e frutti copioso, per lo quale andando con lento passo assai lontano a’ suoi compagni, vide tra molti pruni un bianchissimo fiore e bello, il quale infra le folte spine sua bellezza serbava. Al quale rimirare Florio ristette, e pareagli che il fiore in niuna maniera potesse più crescere in su, sanza essere dalle circunstanti spine pertugiato e guasto, né similemente dilatarsi, o divenir maggiore. Ond’egli incominciò a pensare e a ragionare fra se medesimo così tacitamente: - Oimè, chi o qual cosa mi potrebbe più apertamente manifestare la vita e lo stato della mia Biancifiore che fa questo bianco fiore? Io veggio ciascuna punta delle circunstanti spine rivolta al fresco fiore, e quasi ognuna è presta a guastare la sua bellezza. Queste punte sono le insidie poste dal mio padre e dalla mia madre alla innocente vita della mia Biancifiore, le quali lei alquanto muovere non lasciano sanza amara puntura. Deh, misera la vita mia! Or di che mi sono io nel passato tempo, sperando, rallegrato tanto, che le infinite avversità apparecchiate a Biancifiore per me mi sieno di mente uscite? Oimè, perché dopo la disiderata diliberazione ti lasciai io al mio padre? -. Con queste e con altre parole malinconico molto si ritornò alla sua camera, nella quale tutto solo si rinchiuse. E quivi gittatosi sopra il suo letto, cominciò a piangere con queste voci: - O bellissima giovane, sono ancora cessate le malvage insidie poste alla tua vita da’ miei parenti? Morto è lo iniquo siniscalco, a te crudelissimo nimico: certo cessate dovriano essere. Ma io non credo che per la morte di colui la malizia del re sia menomata, e la mia fortuna rea credo che ti faccia spesso noia: ond’io credo che più che mai alla tua vita ne sieno poste. Oimè misero, dove ti lasciai io? Io lasciai la paurosa pecorella intra li rapaci lupi. Deh, dove lasciai io la mia Biancifiore? Tra coloro che sono affamati della sua vita, e disiderano con inestinguibile sete di bere il suo innocente sangue. Certo il comandamento della santa dea ne fu cagione, il quale volesse il sommo Giove che io non avessi osservato. Oimè Biancifiore, in che mala ora fummo nati! Tu per me se’ con continua sollecitudine cercata d’offendere perché io t’amo, e io sono costretto di stare lontano da te acciò che io ti dimentichi; ma certo questo è impossibile, ché amore non ci legò con legame da potere sciogliere. Niuna cosa, altro che morte, non ci potrà partire, però che né noi il consentiamo, né amore vuole: anzi con più forze continuamente mi cresce nello sventurato petto, tanto che d’ogni cosa mi fa dubitare; e è cresciuto a tanta quantità, che quasi dubito che tu non m’ami, o che tu per altro non mi abandoni. O forse ancora per li conforti della mia madre, e per campare la vita, la quale con le propie braccia campai, lasci di non amarmi? Oimè, che amaro dolore mi sarebbe questo! O graziosa giovane, non dimenticar colui che mai non dimentica te: gl’iddii concedano che com’io ti porto nell’animo, tu porti me -. In simili ragionamenti e pensieri e pianti consumò lo innamorato giovane quel giorno e la maggior parte della notte, né potea nel suo petto entrar sonno per la continua battaglia de’ pensieri e degli abondanti sospiri, i quali a’ suoi sonni contrastavano. Ma dopo lungo andare, la gravata testa prese temoroso sonno; e infino alla mattina, forse con non minori battaglie nel suo dormire che essendo desto, si riposò. Oimè, quanto è acerba vita quella dello amante, il quale dubitando vive geloso! Infino a tanto che Pocris non dubitò di Cefalo, fu la sua vita sanza noia, ma poi che ella udì al male raportante servidore ricordare Aurora, cui ella non conoscea, fu ella piena d’angosciose sollecitudini, infino che alla non pensata morte pervenne.