Fosca/Capitolo XXXVIII
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XXXVIII.
Dodici giorni dopo io aveva già lasciato il letto, ma il medico mi aveva prescritto un riposo continuo. Non uscivo più di casa, e Fosca veniva a vedermi ogni giorno. Aveva cominciato allora a nevicare, le giornate erano brevi e malinconiche, io passava le mie ore al caminetto, leggendo, fantasticando, rattizzando il fuoco, guardando i passeri posarsi tutti arruffati sulle gronde dei tetti, pensando a quell’inverno che aveva trascorso un anno prima nella mia patria, simile in tutto a questo, se non era che ora almeno viveva sotto il martello di un gran dolore.
I momenti che passava con Fosca erano i più tristi di quelle mie giornate. Le sue contraddizioni non erano mai state sì frequenti e sì estreme, la mutabilità del suo carattere, se pure non era la sua malattia che la rendeva sì variabile, non si era mai rivelata sì pienamente come in quei giorni. Passava da un abbandono di dolore ad un abbandono di gioia, da un eccesso di pietà ad un eccesso di egoismo, repentinamente, senza causa, senza pensare e senza avvedersi del male che mi faceva. Ora che eravamo liberi, soli, sicuri di noi, quegli incontri potevano essere assai più pericolosi. L’amore di Fosca non conosceva più alcun ritegno, alcun limite. La sua virtù avrebbe avuto la forza di imporgliene? Era la domanda che io mi volgeva spesso rabbrividendo.
Perchè, soltanto la mia freddezza, la mia avversione, la mia ripugnanza invincibile, inconcepibile, estrema, avevano avuto fino allora il potere di conservarci puri. Fosca aveva compreso la tacita eloquenza di quel contegno; il suo amor proprio le aveva imposto di non tradire la natura de’ suoi desideri, ma era però ben facile l’indovinarla. E se adesso ella avesse potuto superare queste esigenze del suo amor proprio? se avesse osato… se la pietà mi avesse vinto?...
Era ben necessario che io mi fossi risolto a non vederla più così da solo, a non vederla che raramente. Oltre ai pericoli di queste sue visite, oltre alla fissazione terribile che si era impadronita di me e di cui ho già parlato — che essa volesse trascinarmi con sè nella tomba — (e io la vedeva avvicinarvisi, deperire miseramente ogni giorno) m’era pure fisso in capo che lo spavento incussomi da que’ suoi accessi nervosi, la vicinanza continua, il contatto, quel non so che di morboso che vi era in lei, avrebbero dovuto, o tardi o tosto, sviluppare in me la stessa malattia. V’erano momenti in cui sentiva salirmi tutto il sangue alla testa, provava un tremito violento in tutta la persona, sentiva un’oppressione terribile al petto, e non poteva sollevarmene liberamente che piangendo dirottamente, e gridando. Che era ciò? Avrei io ereditato da lei questo male? Sarebbe stato questo il premio che avrei ricevuto della mia pietà?
Così io proseguiva a vivere in tali angustie, non rassegnato, non apertamente intollerante, inerte; debole troppo per risolvermi a fuggire quella donna, troppo geloso della mia felicità per sapergliela sacrificare interamente.